Tra i film apparsi nella retrospettiva dedicata al maestro hongkonghese Patrick Lung-kong sicuramente spicca Hiroshima 28, che si apre proprio con la celebrazione del ventottesimo anniversario della tragedia abbattutasi sulla città giapponese nel 1945. Fra i partecipanti alla commemorazione c’è anche la famiglia Imai. La madre Yu-fen (Chiao Chiao), travolta dalla violenza dei ricordi e dai sensi di colpa, sviene. Dilaniata da un segreto indicibile, la donna è spesso visitata da apparizioni che riguardano il passato e i sopravvissuti alla tragedia atomica. Lei e il marito, Eisaku (Kwan Shan), sono finora riusciti a nascondere la verità alle figlie Yoshiko (Josephine Hsiao) e Kyoko (Maggie Li Lin-lin), ma non appena Yoshiko annuncia loro di voler sposare il giovane Makimune (Charlie Chin Chiang-lin), i due accettano l’inevitabilità del destino. Sono forse tra i sopravvissuti alla bomba atomica e temono per questo che eventuali problemi di salute possano manifestarsi nella figlia? Non ci sono prove sicure su come le radiazioni a cui le vittime sono state esposte siano “ereditate” dalle generazioni successive: allora perché Yoshiyuki (Lok Gung), orfano di due vittime della bomba atomica, è affetto da ritardo mentale? E perché preoccuparsi soltanto di Yoshiko e non anche di Kyoko? Quando viene a galla, la verità è ancora più tragica e crudele del previsto, e si ritorce principalmente contro la bellissima Yoshiko, fino a quel momento appassionata guida turistica dei luoghi colpiti dalla tragedia e ragazza in perfetta salute, forse proprio perché inconsapevole del proprio status. Una volta scoperto di essere figlia di sconosciuti esposti ai bombardamenti e non più unita agli Imai da un legame di sangue, il peso di essere una sopravvissuta colpisce Yoshiko in pieno viso. Da quel momento, la ragazza effettua una lenta ma inesorabile discesa verso la morte, in un percorso che la porta a rinunciare a tutto perché “la bomba è esplosa nel mio mondo e all’improvviso ha distrutto il mio futuro, il mio amore, la mia vita, la mia famiglia”. Queste parole così dolenti non a caso vengono confessate a Yoshiyuki, che ormai le è più affine della sorellastra Kyoko. La scena in cui, ciascuno di fronte all’altro ma separati dall’intero perimetro della palestra, i due figli di sopravvissuti si salutano, è una delle più emblematiche del film perché riesce a trasmettere l’impotenza e la disperazione che travolge chi non ha più un presente né un futuro, ma solo un passato che corrode lentamente. Ma grazie alle associazioni antinucleari, simboleggiate da una gru (a sua volta simbolo di immortalità) e alle indagini giornalistiche, simboleggiate dal reporter Lee (interpretato dal regista), il passato potrà essere ricordato per evitare che si commettano gli stessi errori.

            Girato interamente con capitali e attori hongkonghesi, Hiroshima 28 è volutamente caratterizzato da una visione straniante su una tragedia vissuta da persone giapponesi ma incarnate da interpreti cinesi. Lung-kong è pienamente consapevole del profondo risentimento che i cinesi avevano (e hanno tutt’ora) nei confronti del Giappone riguardo la Guerra del Pacifico (da noi chiamata Seconda Guerra Mondiale), con la conseguente occupazione ed eventi tragici come il massacro di Nanchino e forse anche per questo decide di creare il suo film dando ai personaggi dei volti cinesi: per cancellare possibili pregiudizi dallo sguardo degli spettatori locali. Nonostante le reazioni al momento dell’uscita del film, nel 1974, non fossero tuttavia state pienamente positive a riguardo, Hiroshima 28 riesce a dare una visione universale del dramma della guerra e della necessità del ricordo cercando soprattutto di non attribuire facili colpe. Emblematico in tal senso lo scontro fra Yu-fen e un’ormai sconvolta Kyoko, che attribuisce alla madre e a tutta la generazione precedente la responsabilità di quanto è accaduto. “Per fare una guerra non è necessario il consenso del popolo,” le risponde Yu-fen. “Credi che siamo stati noi a chiedere di buttare la bomba?” Ma soprattutto, ciò che preme al regista, che lo ha ribadito anche durante il dibattito seguito alla proiezione del film in sala, al Visionario, è di denunciare gli effetti devastanti delle armi nucleari, oggi pericolosamente tornate in auge come minaccia reciproca fra i paesi nei momenti di scontro. Fare un film per Lung-kong è come “andare su un campo minato: se faccio la mossa sbagliata tutti esplodono”. Ma forse sono proprio i momenti di esplosione, gli attimi di pericolo e di rottura (nel film spesso segnalati dal colore rosso), a costituire la vera illuminazione e a dare corpo alla visione di un autore.