Impagabile Bruce Willis. Distrutto dal tanto correre e con una voglia di succhiare alcool direttamente dalla bottiglia che se lo porta via, ha ancora il fiato per biascicare "Non sono un eroe, non sono un eroe…", quando il primo a non crederci, vedi il sorriso sotto i baffi, è proprio lui. In una dimensione che rifugge dall’eroismo tout-court, dimensione nella quale Willis si è sempre trovato come un pisello nel suo baccello, stavolta il tono è mesto, dalle parti di La colazione dei campioni (come stato d’animo…), con il nostro nei panni stazzonati di un poliziotto oramai ai minimi termini che tanto per dirne una arriva sul luogo del delitto solo per fare la guardia in attesa del carro funebre.

A dirigerlo in Solo due ore è il veterano Richard Donner (Arma Letale, lo sanno tutti…) che gli avrà ripetuto a mo’ di mantra "Togli Bruce, togli…", e stavolta Willis toglie per davvero, rifugiandosi in un mondo tutto suo, fatto soprattutto di lentezza fisica perché sono i pensieri in primis a essere lenti. Non è che in genere Willis parli molto (ma dipende sempre dal tipo di film…), ma stavolta è veramente taciturno, spento, stanco, sconfitto. A far da contraltare gli piazzano accanto Mos Def (rapper) che si chiama nientemeno che Eddie Bunker(!!), un logorroico di prima grandezza tendente all’esaltazione, che a furia di parole, proverbi, storielle, smonta e rimonta tutto quello che lo circonda (compreso Mosley/Willis), uno che vede “segni premonitori” dappertutto, uno che vorrebbe fare il pasticcere e invece gli tocca fare il testimone d’accusa contro il solito manipolo di poliziotti corrotti e che se non ci fosse Mosley a prendersi cura di lui come un figlio (osservare quando gli dice di abbottonarsi bene la camicia…) sarebbe morto stecchito prima di dire “a”.

La coppia bianco-afro-americano cara a tanto cinema poliziesco americano che ne ha indagato stilemi e codici così a fondo che quasi non può più riservare sorprese, funziona per inerzia, funziona perché di solito funziona, funziona come sempre accade quando si accostano due caratteri agli opposti, con Mosley taciturno e vicino ad un pessimismo cosmico, e Bunker, sognatore indefesso vero e proprio emblema vivente del sempreverde “sogno americano”.

Date le pedine di cui si è detto, la scacchiera è una falsa New York (in realtà Toronto) dove lo spazio attorno ai due fuggiaschi, come vuole la tradizione del thriller metropolitano, si fa via via sempre più stretto e sempre più zeppo di nemici, spazio però dal quale, magia del cinema, anzi del montaggio, senza il quale un film così non esisterebbe, c’è sempre una via di fuga, alla faccia della verosimiglianza, perché lo stesso autobus costretto a fermarsi per via delle gomme che sono esplose, tutto ad un tratto si rimette in marcia che è un piacere.

Ma sarebbe fuori strada chi si aspetta un thriller mozzafiato, visto che a ogni tot di azione corrisponde immancabilmente un tot di stasi, il che nuoce un poco al risultato finale che risulta leggermente al di sotto dei personaggi.

 

Se come struttura generale Solo due ore in qualche modo si rifà a L’uomo nel mirino, l’espediente della registrazione sonora che incastrerà il villain alle sue responsabilità, non può non richiamare alla mente il finale di L’infernale Quinlan (film del ’58 e perlomeno 58 anni in anticipo su tutto e tutti…).

Il film inizia in media res, come fa Verdone in Il mio miglior nemico. Significherà qualcosa? Chiedere all’Eddie Bunker del film.

Sergio Gualandi

 

Richard Donner (classe 1930, Arma Letale, I Goonies) ordisce, aiutato da un montaggio al cardiopalma, una classica trama debordante azione nel senso più sincero e onesto del termine. Cita alcuni capisaldi: il pullman crivellato di proiettili, il faccia a faccia col nemico e gli adrenalinici inseguimenti spettacolari di rito. Non beffa né imbroglia e regala esattamente quello che ci si aspetta: due ore scandite quasi in tempo reale che scorrono senza intoppi e lasciano il palato soddisfatto.

Solo sedici isolati separano un testimone, detenuto nella prigione della corte, dall’aula del Gran Giurì dove deve deporre. Un ispettore di polizia (Bruce Willis invecchiato e decadente nell’aspetto per esigenze di scena ma ancora svelto di mira) sta staccando dal suo turno quando riceve l’incarico di accompagnare il teste in tribunale. Troverà uno strano tipo, un giovane logorroico, pieno di fissazioni e che ama fare indovinelli al prossimo. Dovrebbe filare tutto liscio ma appena fuori dalla cella, un paio di pallottole sparate ai loro danni rendono immediatamente chiaro che qualcuno non ha nessuna intenzione di farli approdare a destinazione. Chi siano i mandanti dell’assassinio sarà chiarito subito: il giovane ha assistito a un tentativo di corruzione da parte del Dipartimento di Polizia e potrebbe far saltare equilibri, carriere e portare allo scoperto il marcio che cova dietro certe operazioni poco chiare.

Willis indossa i panni dell’agente disilluso, malandato amico dell’alcool e nemico di se stesso (dice di sé al ragazzo: “Non sono una brava persona.”) senza strafare. Mos Def (visto ne “La Guida Galattica per Autostoppisti” nonché autore hip hop) regge bene la parte del forrest gump delinquente e che sogna di rifarsi una vita aprendo un negozio di pasticceria.

La morale della trama: chi deve fare la cosa giusta la fa, chi deve pagare, paga come nella miglior tradizione conservatrice che vuole la Giustizia trionfante su tutto.

Daniela Losini