Inutile negarlo. Da qualche anno a questa parte il Gunplay che tanto aveva  entusiasmato il critico inglese Rick Baker e il sottoscritto all’inizio degli anni ’90 con le funamboliche sparatorie di John Woo sembrava aver perduto la sua vena più autentica lasciando spazio o a bambinesche imitazioni di modelli americani o a pretenziosi progetti noir che, in qualche modo, scimmiottavano idee americane. Infernal Affairs, la saga in tre capitoli di maggior successo al botteghino di HK e recentemente ripresa da Martin Scorsese che ne ha girato una (ancora inedita) versione con Leo Di Caprio, è, a ben guardare, un grosso e complicatissimo pasticcio dove è difficile seguire le fila di una vicenda dove quasi programmaticamente (direi forzatamente) si spara poco come per rinnegare il carattere “popolare” e autentico del cinema della colonia inglese. Che tale cambiamento sia stato da attribuirisi al passaggio alla madrepatria mi sembra dubbio. Di fatto a Hong Kong non si è mai fatto  “cinema politico” e, considerato la svolta consumistica che il Regno di Mezzo ha subito negli ultimi anni, non si può certo invocare la censura di Beijing quale responsabile dell’inaridimento della vena più autentica della produzione di thriller e noir che una volta si fregiavano del titolo di  Heroic Bloodshed, “eroici bagni si sangue”… già tutto un programma per chi ha amato il genere.

Di fatto Hong Kong ha conservato la sua britannicità ed è diventata sempre più ricca e borghese, tanto da riempire le sale di giovani yuppies molto più interessati a commedie romantiche dove segretarie che sembrano uscite da un libro della Kinsella sposano il loro capoufficio, di solito figlio di famiglia ricca, che prima sembra un bello e bastardo poi si rivela un giovane con il cuore d’oro in attesa di una mogliettina per bene.

Quanto tempo è passato da quando Kirk Wong raccontava storie crude di malavita da night in The Club, con Chan Wai Man, che era un vero picchiatore delle Triadi con tanto di  aquila tatuata sul petto…

Di fatto il cinema di Hong Kong ha scoperto la ribalta dei festival europei, Cannes, Venezia e con questi il cinema d’autore che poi finisce per essere una scopiazzatura trent’anni dopo della Nouvelle Vague.

Se a tutto ciò aggiungiamo l’assorbimento di Hollywood (non sempre riuscito) dei migliori talenti della vecchia scuola - John Woo ridotto a girare action movie indistinguibili per stile da quelli americani - non c’è troppo da stupirsi della mancanza di prodotti forti e di un progressivo inaridirsi di quella vena, a volte cialtrona ma sempre divertente che tinto ci aveva affascinato. Un po’ quello che è capitato al cinema italiano degli anni 70 che, ripudiato il genere esalta come capolavori film pseudo-noir che allora avrebbero accolto solo fischi e frutta marcia… senza far titoli…

Da qualche tempo a questa parte, svolgendo alcune ricerche per progetti personali, ho scoperto con piacere che alcuni vecchi leoni come Johnnie To hanno tenuto la posizione sfornando una serie di titoli con uno stile personale e avvincente (The Elcetion, Breaking News, PTU). Non solo chi ha avuto modo di vedere (in  Francia o in Inghilterra perché da noi arriva materiale in maniera frammentaria e confusa) i DVD di Dragon Squad e SPL di Wilson Hip ha potuto notare un ritorno alle origini del noir  honkonghese, irrobustito da una vena lontana dalle odierne produzioni di Hollywood. Un ritorno alle origini? Difficile stabilirlo in questa fase ma, al di fuori del rientro nei due film citati di un Samo Hung invecchiato ma sempre al centro della scena, il nuovo cinema di Hong Kong dedicato al thriller ci appare più vigoroso, più curato nella realizzazione, forse appena meno funambolico ma ancora in grado di trasmettere emozioni.

Il caso più eclatante è rappresentato dalla rentrée di un’icona del cinema asiatico da qualche anno baciata dalla fortuna americana ma anche afflitta da un declino vergognoso sotto il profilo artistico.

Jackie Chan se lo ricordano tutti quando si sforzava di diventare l’erede di Bruce Lee imponendo la sua kung fu comedy in Chi tocca il giallo muore e veniva… rimbalzato dalle platee occidentali. Jackie Chan è forse uno dei più prolifici e abili professionisti del cinema d’intrattenimento di Hong Kong, cineasta per tutta la famiglia, spericolato nelle esibizioni marziali, "uomo di gomma" di vicende dove la violenza vera era sempre lontana, seppe costruirsi in oriente (e presso quelle platee  europee disposte a cercare il prodotto invece di lasciarselo imporre…) un successo fatto di idee visionarie, di un’interpretazione del cinema che non si vergognava di copiare interpretando modelli occidentali con una mentalità sua. Erano i tempi di The Canton Godfather, Drunken Master, Dragons Forever e della serie Police Story in cui interpretava l’ispettore Chan coinvolto in  peripezie acrobatiche ineguagliate.

Fu proprio questa serie che tra il comico e lo spericolato, gli portò fortuna. Un paio di episodi arrivarono anche nelle nostre sale (Supercop e First Stirke) e gli aprirono la strada per la serie Rush Hour, Pallottole cinesi, sino allo Smoking e al terribile Il medaglione.

Tutti film che lo hanno imposto alle platee americane ma sempre come spalla di comici statunitensi (Chris Rock e Owen Wilson), co-protagonista di vicende improbabili, prevedibili e neppure così spettacolari.

Una china che, inevitabilmente, gli ha alienato anche le simpatie del pubblico orientale, al quale ha sempre dedicato almeno un film all’anno (The Accidental Spy, mr. Marvellous, Who I am?), realizzato però in fretta e furia, sempre con l’ansia, magari, di andare a recitare la parte del servo cinese di Phineas Fogg nel remake del Giro del mondo in 80 giorni.

Rientra alla grande con New Police Story Jackie Chan, a cinquant’anni, il viso segnato ma il corpo ancora scattante (anche se aiutato dai cavi, cosa che una volta non avrebbe mai pemesso), un progetto diretto da Benny Chan (regista non disprezzabile autore tra l’altro di Gen X Cops) ma fortemente controllato dallo stesso mackie.

Un film che in Francia è stato proiettato al cinema ed è ora reperibile per l’etichetta HK in un elegantissima versione in due dischi.

Ritroviamo il commissario Chan ma il tono della vicenda è immediatamente diverso da quello della vecchia serie, più vicino a quell’unico thriller “serio” dal titolo Crime Story che Jackie girò con Kirk Wong ispirandosi a un fatto di cronaca e che, all’epoca, non fu molto apprezzato dal pubblico familiare di cui era l’idolo.

Per la verità l’assenza di risvolti comici è funzionale a un discorso più profondo che Chan sembra voler indirizzare al suo pubblico. Poliziotto ubriaco e disperato dopo il massacro della sua squadra, Jackie è umiliato, picchiato e offeso per tutta la prima parte del film. Piange, chiede perdono ma non solo ai suoi antagonisti nella finzione. Implora il suo pubblico di accettarlo ancora e prepara un rientro alla grande che è forse uno dei suoi migliori film e uno dei ritratti della nuova Hong Kong più riusciti di questo periodo.

Contro Chan ci sono agenti inappuntabili ma anche, e soprattutto, una gang di sadici killer che non rapinano per denaro ma per divertimento. Giovani di buona famiglia (uno, interpretato dal carismatico Daniel Wu, è figlio di un poliziotto e a sua volta vittima dell’autorità paterna che ne ha minato il carattere).

Sono i giovani della nuova Cina, con i capelli tinti di rosso, la Ferrari in garage, schiavi dei telefonini e dei videogiochi, drogati della violenza come trasgressione fine a se stessa.

Secondo il fil rouge del più classico noir Jackie esce dal suo inferno grazie all’amore della fidanzata (un tempo era Maggie Cheung divenuta attrice europeizzata e “seria”, oggi Charlie Cheung, musa di Tsui Hark in Seven Swords) e dal giovanissimo Nicholas Tse, idolo dei teen ager, finto poliziotto e legato a Chan da un segreto che svela solo l’ultima scena.

A metà del film tutte le carte sono in tavola e comincia una funambolica partita dove l’uomo di gomma torna a essere l’eroe che tutti rimpiangono. Ma lo scenario è cambiato, basta dimostrarlo la sequenza finale mozzafiato sul tetto dell’Armadillo, il nuovissimo centro congressi dell’isola di Hong Kong.

Dove sono le ambientazioni esotiche di 007, i templi e le città galleggianti di Bruce Lee?

Ormai il ventunesimo secolo le ha cancellate relegandole al colore locale del quale Chan vuole  fortemente rinunciare, saltando, sparando, combattendo con una passione travolgente, quella dei vecchi leoni che ancora hanno il coraggio di ruggire di fronte al tempo che passa inesorabile.

Il suo desiderio di riacquistare il suo posto, il suo pubblico è così potente da serrarti la gola e ricorda a tutti noi che, prima di tutto, il cinema di Hong Kong ha tratto la sua forza dalla capacità di credere nelle sue storie, di non vergognarsi dei sentimenti di rinunciare a quella patina algida che sembra essere l’ossessione di critici e cineasti occidentali di fronte al genere.

E un singhiozzo, di felicità ritrovata, di entusiasmo infantile se vogliamo, Jackie riesce a strapparcelo di certo con questo film bellissimo e teso. Per il momento in Italia di vederlo non se ne parla ma… basta un click su www.amazon.fr per assicurarselo a soli 24 euro in un elegante cofanetto metallico corredato da un libretto illustrato.

Bentornato, Jackie!