Ho appena finito di leggere Wolves eat dogs, di Martin Cruz Smith, il famoso, mitico, divino autore, per chi non se lo ricorda, dell’eccellente Gorky Park uscito nel 1982. Il nuovo libro è già stato tradotto in italiano, con il titolo di Lupo mangia Cane edito da Mondadori. Io ho appena finito di leggere la versione americana, pubblicata da Simon&Schuster di New York, anche se ho faticato a trovare il nome dell’editore, perchè è piccolissimo e nascosto sulla "costa" del libro. La prima cosa che mi ha colpito molto è la copertina, il nome di Martin Cruz Smith è enorme, argentato, il titolo in rosso,  piccolissimo e ancora più sotto, un’ulteriore scritta “an Arkady Renko Novel”. Una volta Gillo Pontecorvo, mitico regista della Battaglia di Algeri mi fece notare che appunto la fama di uno "famoso"’ era facilmente rilevabile dalla grandezza con cui veniva scritto il nome e cognome dell’autore in copertina/locandina. E questo è vero... anche nella versione italiana, il suo nome è più grande del titolo, quasi a realizzare, profeticamente, quello che diceva più o meno Frank Capra, "the name above the title", ovvero a chi gli chiedeva chi era il regista, diceva: il nome sopra il titolo. Ma passiamo subito al libro. Sin dalle prime righe, ho capito subito che il vecchio MCS di Gorky Park era di nuovo in sella. Mi avevano deluso moltissimo Havana Bay, che sembrava una guida turistica di Cuba, più che un romanzo avente come protagonista Arkady Renko, ispettore senior della polizia moscovita e anche Red Square non mi aveva entusiasmato molto e del resto, neppure sono citati nell’aletta della breve bio dell’autore, (invece citano Rose, December 6, Polar Star, Stallion Gate e ovviamente Gorky Park) forse neppure all’autore stesso sono piaciuti a posteriori, perchè certo come tutti gli scrittori degni di questo nome, capisce se ha scritto qualcosa che vale o meno. Wolves eat dogs invece è un romanzo scritto con il suo stile migliore, secco, nudo, che non concede nulla oltre quello che deve essere, non c’è una parola fuori posto, i personaggi sono tutti azzeccati e splendidamente inquietanti e umani e cinici. Ma secondo me, la cosa che distingue veramente Martin Cruz Smith da altri scrittori, non è l’intreccio della storia, che dà più l’idea di un’onda che alla fine si sfalda estenuata sulla spiaggia e neppure la profonda conoscenza del paese Russia, bensì la sua immensa bravura, maestria, nel descrivere i paesaggi, l’ambientazione insomma, i luoghi, le vie, le descrizioni, gli interni, siano essi quelli lussuosissimi dei nuovi russi o quelli degli appartamenti vuoti e radioattivi. Non c’è nessuno che sia bravo come lui. E questo, quando parliamo di un thriller o di un "mistery" (sarebbe un giallo, in italiano...) è veramente una capacità sorprendente perchè in genere, per quanto oggi vada di moda puntare sull’ambiance che fa tanto noir, l’intreccio rimane sempre il fattore che distingue un libro di genere da un libro qualsivoglia "letterario" che so tipo Saul Bellow o Baricco. La storia di MCS inizia a Mosca, un ex fisico "nucleare" Pasha Ivanov, (forse ha copiato il nome dal vero boss Pasha Mercerdes) chiamiamolo così, si suicida gettandosi dall’attico del suo palazzo dopo aver ingurgitato un mare di sale da cucina e anche nell’appartamento ci sono chili di sale. Renko viene coinvolto dal procuratore Zurin che subito se ne pente, perchè Renko è un vero piantagrane, un investigatore che non molla, un perfezionista cinico al punto di fregarsene della carriera, dei soldi, del nome, del posto di lavoro. É un mastino, un kamikaze a cui sta a cuore  la giustizia e la verità e non accetta di essere manipolato, eppure nello stesso tempo non sembra un duro, non alza la voce, ricorda quasi il tenente Colombo. L’investigazione, come in tutte le storie di MCS, non ha una vera svolta o un colpo di scena, neppure quando Renko viene spedito in Ucraina, a Chernobyl, famigerato e tristemente famoso in tutto il mondo, sarcofago atomico radioattivo. E qui veramente la storia diventa perfetta, perché rimaniamo travolti, radioattivizzati dallo svolgimento della vicenda, come se fossimo lì con Renko, un posto in cui nessuno sente la voglia di andarci, (anche se ho sentito dire, che ci sono dei pulman turistici che vi fanno delle puntatine veloci...) perchè Chernobyl o meglio dire le paludi con l’omonima città Pripyat si trasformano in una specie di zona degna di Stalker (sia quello dei fratelli Strugarski che quello filmico di Tarkoski), in cui la gente vive, lavora, si lamenta, piange, fa l’amore, uccide, mangia e vive dei frutti di quella terra che non potrebbe neppure guardare e ne viene fuori uno spettacolo veramente umano e la vicenda si trasfigura, portandoci in un altro mondo, senza però perdere di vista la linea principale della storia, che tutto avanza armonioso, perfetto e il duello finale nella città abbandonata di Prypyat, è qualcosa di speciale e spettrale nello stesso tempo. Vi sembra perfino di respirare l’aria lunare delle vie abbandonate, degli edifici apparentemente intatti, ma vuoti di vita come teschi. Leggetelo!