Il primo Bond che vidi all’inizio degli ani ’70 in una ripresa estiva. Potete immaginarvi che una storia giapponese, con un ritmo sostenutissimo in cui si fondevano azione, esotismo ed erotismo (d’accordo abbastanza castigato ma la scena di 007 che sfila il vestito a Karin Dor rivelandone il magnifico fondoschiena con la frase: «Cosa non farei per l’Inghilterra», mi rimase impressa) abbia avuto sulla mia fantasia allora in formazione un effetto deflagrante.

Da molti il film fu giudicato severamente. Una storia troppo simile a Thunderbolt, sequenze spaziali inverosimili, Sean Connery che ormai cominciava a dare evidenti segni di stanchezza, anche fisica, se si rivede il film. Il nostro non è più tirato come nei primi episodi ma risulta un po’ bolso e non sempre brillantissimo. Parte di queste critiche hanno una loro ragione. Di sicuro ci stiamo allontanando molto dal Bond letterario e dal romanzo che era intriso di un senso di morte totalmente assente nel film. Poche storie comunque, resta uno dei miei preferiti.

           

L’idea dei ninja era presente anche nel romanzo di Ian Fleming ma la finta morte del Comandante Bond a Hong Kong, tutta la sequenza dall’appuntamento alla Koguchikan hall del Sumo sino alla morte di Dikko Anderson (Charles Gray, bravissimo) e la lotta con il sumotori negli uffici della Osato Chemicals sono un piccolo capolavoro di ritmo. La sceneggiatura di Roald Dhal non fa una piega sotto il profilo del ritmo.

Non sappiamo quali elementi furono aggiunti allo script originale di Harold Jack Bloom ma di certo l’intento della produzione era quello di proiettare Bond verso la più sfrenata spettacolarità. Si sofferma sul geografismo solo in una seconda parte (quella del matrimonio e delle pescatrici) ma prima ci presenta un Giappone moderno, pieno di contraddizioni, affascinante e letale.

Ci sono poi inseguimenti in elicottero, in auto con tanto di calamitona che scarica i cattivi in mare (sequenza degna di un fumetto ma che sullo schermo fa comunque effetto...), una bagarre semplicissima ma girata dall’alto nel porto di Kobe e tutta una serie di dettagli marziali creati dall’esperto Don Draeger che centrano la vicenda cogliendo il giusto esotismo senza cadere nel cartolinesco.

La donne sono favolose soprattutto Aki (Akiko Wakabayashi) ma anche Kissy Suzuki (Mie Hama) che non sembra neanche giapponese. La tedesca Karin Dor pare separata alla nascita da Luciana Paluzzi. Infine buoni e cattivi. Il divo del cinema dei samurai Tetsuro Tamba è Tigre, il capo dei servizi giapponesi che trova un suo stile per variare in maniera intelligente il Kerim Bey di Armendariz.

         

Finalmente vediamo in faccia Blofeld che trova in Donald Plaasence uno dei suoi migliori interpreti. Lo ritroveremo con il viso di Telly Savalas e poi di Charles Gray che saranno efficaci ma non all’altezza. Torna con maggior vigore che nel precedente film l’idea di affiancare al cattivo pianificatore un gorilla con cui Bond può battersi a cazzotti. Il gigante Hans s’impegna per dargli filo da torcere ma lo aspetta la vasca dei piranha che, con un verde ribollire di acque ricorda un po’ la piscina degli squali.

Anche in questo caso è la SPECTRE il nemico. C’è sì un piano per provocare uno scontro tra USA e URSS finanziato dai cinesi ma, come d’abitudine, la politica passa in secondo piano davanti all’avventura. Lo spionaggio di questo genere predilige l’impresa privata, il super criminale come avversario. Sempre si fornisce al pubblico l’identificazione con l’uomo di apparato che apprezza gusto e ricchezza quando ci sono ma si diverte a distruggere ciclopiche strutture industriali, attuando così una rivalsa nei confronti di chi i soldi li ha e li usa per i propri trastulli, benché letali.

Innegabilmente il fascino del film sta nei colori, nei paesaggi giapponesi, nella pioggia di ninja che cala nella caldera del vulcano spento. È il modello di moltissime spy story narrative e non di quel periodo.

           

Alla regia questa volta non c’è Terence Young che invece viene sostituito da Lewis Gilbert regista di solida formazione bellica che non perde colpi. Young collaborò invece proprio in quei tempi a OSS117 a Tokyo si muore, ugualmente ambientato in Giappone. Storia più povera ma ugualmente ben riuscita da recuperare se mai vi capitasse l’edizione francese. Passò anche sui nostri schermi ma temo sia introvabile nella versione con traccia italiana.

Ah, dimenticavo le sequenze della scuola ninja furono realizzate grazie al contributo della più celebre scuola marziale “a contatto reale” dell’epoca, l’Oyama Ryu, un karate diverso da tutti gli altri in cui si colpiva veramente. Nell’addestramento si fanno notare l’anguria spaccata dal colpo di punta con le dita e la testa che infrange il pane di ghiaccio. Ma i Ninja hanno anche altre armi da mostrare. Stelle da lancio e veleno calato attraverso un rocchetto di filo di tela di ragno. Un grandissimo divertimento quindi anche se, è innegabile, si nota che un ciclo sta per finire.