Le modelle di un atelier di alta moda iniziano a morire vittime di feroci omicidi… Se è vero che "Sei donne per l’assassino è il film che codifica definitivamente il genere del thriller all’italiana" (Alberto Pezzotta, Mario Bava, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, pag. 46", genere che lo stesso Bava aveva inaugurato con La ragazza che sapeva troppo, è vero anche che ciò stabilisce in via definitiva una linea di demarcazione all’interno del genere tra precursori e successori (più o meno di talento…) dal che ne segue che vedere Argento senza aver prima visto Bava, significa perlomeno farsi un’idea sbagliata del fenomeno Argento (più che del fenomeno Bava…). Come spesso accade con i film di Mario Bava, anche con Sei donne per l’assassino ci si trova di fronte a una messa in scena particolarmente riuscita che nasconde al suo interno diversi strati che con estrema facilità sfuggono a una prima visione, vuoi perché si è distratti dal meccanismo del thriller, vuoi per l’abilità di Bava nel prendersi gioco, in un certo senso, dello spettatore. Tra gli elementi non trascurabili di Sei donne per l’assassino, va annoverato anzitutto l’espediente che vede la presenza di due soggetti assassini, accorgimento quest’ultimo che troverà la sua apoteosi in Reazione a catena dove il numero di delitti è alla fine in rapporto direttamente proporzionale all’entrata in azione di più assassini in momenti diversi, espediente, quello del doppio assassino, che Dario Argento riprenderà nella sua opera d’esordio, L’uccello dalle piume di cristallo. Da quanto appena detto discende un'altra caratteristica di Sei donne per l’assassino (e che troverà anche in questo caso un’applicazione più compiuta in Reazione a catena…), ossia quella dimensione che potremmo definire come la contagiosità del Male, dimensione vista non tanto nella sua manifestazione più evidente, luttuosa per così dire, ma proprio nella sua tendenza a essere soggetta, in quanto azione, a essere replicata tale e quale da parte di altri individui, il che finisce con l’introdurre nel film una dimensione morale tutt’altro che trascurabile. Comunque ci si ponga, è innegabile che Sei donne per l’assassino nel momento in cui procede alla codifica delle regole del thriller lo fa anche occupandosi delle strategie e dei modi di mettere in scena una serie di delitti possibilmente l’uno diverso dall’altro, elemento chiave questo ultimo che a conti fatti risulterà da ora in avanti sempre più importante dell’indagine stessa, tant’è che la polizia, nella figura dell’ispettore, brancola nel buio dall’inizio alla fine della storia, se non addirittura oltre (vedi la telefonata finale e l’incertezza sul fatto se sia stata raccolta o meno…). Da questo punto di vista, vale a dire "quanti modi esistono di uccidere?", Sei donne per l’assassino è un film molto esplicito sul piano della fisicità del delitto, poiché manifesta al suo interno un incessante corpo a corpo tra carnefici e vittime, atto capace di per sé di innescare una serie di ulteriori riflessioni. Difatti, se alcuni hanno ravvisato nella confusione tra i manichini dell’atelier e i personaggi, tra le stesse modelle, tra poliziotto e omicida (vestiti in maniera simile), una modalità per tenere a distanza il "...pathos della morte e lo shock del sadismo" (Alberto Pezzotta, cit. pag. 46), secondo noi l’accentuazione prepotente della dimensione fisica del contatto tra assassini e vittime, con queste ultime strangolate, uccise con un guanto chiodato, sfigurate con fuoco, soffocate con un cuscino, affogate in una vasca da bagno e poi con le vene dei polsi recisi (La scena in questione è quella dell’omicidio della modella Tao Li. Il fiotto di sangue che colora l’acqua della vasca è citato da Scorsese in una scena di Kundun, a indicare la repressione del governo cinese sul Tibet), più che rappresentare una messa a distanza di quanto c’è di terribile e osceno in ogni delitto, al contrario finisce col diventare una vera e propria riflessione antropologica sulla brutalità congenita ad ogni omicidio. A ciò si aggiunga che mai, e di questo va dato merito a Bava, ci si trova con il distanziarsi dalla povera vittima; al contrario la partecipazione alla sua sofferenza non conosce sosta, alimentata da un sussulto di umanità che non cede di un millimetro di fronte a qualsivoglia voyeurismo di bassa lega. Ma se anche decidessimo d’improvviso di abbandonare l’aspetto per così dire più recondito di Sei donne per l’assassino, non ci si deve attendere che il film cessi di affascinare, al contrario! È molto probabile che in tal caso ci si trovi a riflettere sull’architettura visiva che Bava imprime al suo film. Per esempio i movimenti di macchina, sempre molto accurati, in particolare dopo la scoperta del primo delitto quando una sensazione di incredulità mista a panico inizia a diffondersi tra il personale dell’atelier. Morbidi carrelli soprattutto laterali portano lo spettatore “a spasso” negli spazi della sartoria, così come l’uso accortissimo della profondità di campo, favorita anche dal vasto numero di personaggi presenti in scena contemporaneamente, permette a Bava di disseminare il quadro di punti di attenzione diversi ognuno dei quali posto a differente distanza dalla cinepresa, senza dimenticare il contesto luminoso che fa da sfondo alla vicenda, contesto assai particolare visto che "...Bava e Terzano danno l’impressione di colorare più che di illuminare: riempiono l’inquadratura di macchie (in genere i colori sono due o tre: verde/viola, giallo/malva, blu/verde/viola…) che non hanno nessuna motivazione naturalistica"(Alberto Pezzotta, cit. pag. 47). Da non dimenticare infine un picco di pura suspense che la dice lunga su come Bava conoscesse benissimo il modo per disorientare le attese dello spettatore. Ci riferiamo a una scena in particolare (che ha diverse ragioni per essere considerata come l’equivalente dell’occhio dell’assassino che il fuori fuoco lascia immaginare sia il sole in Reazione a catena): una borsetta nera con all’interno custodito un diario di proprietà di Isabella, la prima modella assassinata, viene lasciata su di un tavolo da un’altra modella. Nel giro di qualche istante la borsetta con all’interno il diario, che contiene segreti scottanti su diversi personaggi della vicenda, diventa letteralmente il centro visivo sul quale finiscono per convergere gli sguardi di tutti i personaggi presenti nell’atelier, mentre la suspense inizia rapidamente a salire, concentrandosi su due domande: "Quando sarà rubata la borsetta?", ma soprattutto "Chi sarà a rubarla?". Ebbene, la suspense così abilmente creata è destinata via via a implodere, semplicemente perché la borsetta rimane lì dove è stata lasciata, nonostante il via vai incessante di persone attorno al tavolo. Qualche minuto dopo, quando la scena si è risolta nel nulla, alcune inservienti della sartoria passano con un porta-abiti davanti al tavolo coprendolo per un istante. Quando il tavolo torna alla vista, la borsetta non c’è più… Se Sei donne per l’assassino, come detto in apertura, codifica in via definitiva il genere del thriller all’italiana, resta da vedere quale è stato il film che ne segna “ufficialmente” l’inizio, film che i bavologi individuano in La ragazza che sapeva troppo. Ne riparleremo…