Stefano Di Marino: Parliamo un po’ delle influenze negli anni ’70 e ’80.

                

Stephen Gunn: Diciamo che Frederick Forsyth fu uno degli autori fondamentali di quel periodo. Lessi in edizione Oscar Mondadori Il giorno dello sciacallo [The Day of the Jackal, 1971] nell’estate del 1973 credo... avevo visto il film a una proiezione estiva e recuperai abbastanza facilmente in un’edicola il volume che era illustrato proprio con un’immagine con Edward Fox che sparava con quello strano fucile che si smontava dentro una gruccia. Lessi quel libro almeno tre volte di fila (allora si faceva...) e mi misi alla ricerca di tutto quello che trovavo di Forsyth. Dossier Odessa [The Odessa File, 1972], I mastini della guerra [The Dogs of War, 1974], Nessuna conseguenza [No Comebacks, 1982. Antologia]. Credo che fossero quelli i titoli che mi impressionarono di più.

In seguito ho continuato a leggere Forsyth ma, sinceramente mi è piaciuto solo L’alternativa del diavolo [The Devil’s Alternative, 1979] e un po’ Il quarto protocollo [The Fourth Protocol, 1984] che aveva la stessa trama di 007 Octopussy (il film). Lo trovai un po’ noioso. Recentemente ho rivisto il film rivalutandolo.

A questo proposito ricordo tra le cose lette e rimaste nella memoria i romanzi di Amos Aricha tra i quali Fenice [Phoenix, 1979. Mondadori] che era esattamente la storia de Il giorno dello Sciacallo resa molto più scorrevole e trasportata in ambiente israeliano, perché l’autore era appunto di quel Paese. Poi pubblicò L’ombra del clown [Hour of the Clown, 1981. Mondadori] che era anche una bella spy story.

                

SDM: Leggevi ancora molto Segretissimo.

                   

SG: Soprattutto Segretissimo! SAS, Coplan, Nick Carter, Sam Durell me li bevevo. Invece capivo che Forsyth era (allora, adesso i suoi ultimi romanzi sono dei mediocri Segretissimi!) un esempio di narrativa “da libreria”. Come sempre cercavo di capirne i meccanismi, di vedere come erano costruite le vicende. Mi affascinava il modo di scrivere giornalistico, senza troppi fronzoli o imbellettamenti della frase. Perché io vengo da quella scuola lì, quella del pulp che non può essere troppo “bella pagina” come piace a molti scrittori italiani che infiorettano la pagina perché non sanno cosa raccontare e in più sbagliano anche stile. Delle storie come queste, di spie ma anche di crimine, necessitano di una prosa secca, non sciatta, ma vicina all’azione.

                    

SDM: Credo che il cinema e il fumetto ti abbiano parecchio influenzato in questo senso.

                  

SG: Certamente ho visto sempre moltissimo cinema, TV e fumetti. Lì non si barava: la storia doveva procedere ed essere raccontata in maniera avvincente. Troppo piatta non lascia traccia ma abbondare con stilemi ad effetto è come filmare tutti gli scontri a fuoco con schizzi di sangue al rallentatore, dopo un poco diventano pura retorica.

                 

SDM: Torniamo a Forsyth.

                      

SG: Sì, nei primi romanzi era favoloso. Come già ho detto era anche un’altra epoca. Lui si dilungava sulle storie di ciascuno dei personaggi, anche quelli minori, proprio come stesse raccontando un true crime. Poi tutto finiva per incastrarsi e la tensione c’era. Anche se non in tutti i romanzi. Ne I mastini della guerra si sentiva moltissimo il suo amore per quel mondo che aveva sfiorato personalmente. Alla fine la storia era molto semplice. In questo senso era una miniera di informazioni e la trasposizione in film dei “Mastini” è perfetta, non c’è un minuto di più. Poi c’era Tom Berenger che faceva il mercenario e sparava con l’Armscor 7 con basco e sigaraccio dalla nave. Un’icona che mi rimase in mente sino al Professionista.

               

SDM: E riguardo ai pulp?

              

SG: Io sono nato con il pulp, nelle forme che avevano qui in Italia. I Gialli Mondadori, Segretissimo ma anche cento altre collane, anche di altri generi. Credo di aver letto tutti i Grandi Western che pure erano per la maggior parte storie degli anni ’50.

              

SDM: Scriveresti un western?

                  

SG: L’ho già fatto per Nero West di “M-Rivista del mistero”. Un romanzo? Sì certo. Del tipo di quelli che scriveva Gordon D. Shirreffs che era il mio preferito. Storie con gli Apaches e la cavalleria. Il deserto, come il mare, è uno scenario fantastico. Rispecchia la solitudine dell’eroe e può vomitarti contro di tutto, dagli squali agli Apaches. Ma preferisco parlare di spionaggio.

               

SDM: Cosa hai imparato da Segretissimo?

                

SG: La capacità di essere coinciso. Una storia va da A a B, magari passa attraverso C e D e anche E ma deve essere molto lineare, inanellarsi un capitolo dopo l’altro, non lasciare tregua al lettore.

            

SDM: Azione, in pratica.

           

SG: Sì, se per azione intendiamo lo svolgersi dei fatti. Molti sbagliano a classificare i miei libri come storie di pura azione. Se la intendiamo come una serie di sparatorie e scopate allora facciamo un lavoro di pura exploitation e non nego che ci sia anche quel livello. Ma la vera azione è far procedere la storia con scene brevi che forniscano allo spettatore (e al lettore) l’idea che la vicenda e i suoi protagonisti si muovono. Incontri, appuntamenti, pedinamenti, poi si riprendono alcuni personaggi, altri che sembravano dimenticati entrano in scena nel momento giusto per risolvere la situazione. Poi ovviamente ci sono le scene d ‘azione pura, le sparatorie, il sesso, le botte. E queste sono le più difficili da scrivere perché devono essere rese in poco tempo mentre nei dialoghi posso dilungarmi un po’ di più.

Oggi è cambiato il modo di raccontare. Guarda Millennium di David Fincher... è molto migliore dell’originale che era già buono perché riesce a raccontare una storia su più piani e complicati sisma con scene brevissime ciascuna delle quali mi fornisce un tassello. Ovviamente devo leggere il libro e vedere il film con attenzione. Se mi alzo per andare a controllare gli SMS o a prendere da bere perdo qualcosa. Ma un libro, un fumetto o un film richiedono attenzione.

               

SDM: Tutto il nostro lavoro richiede attenzione.

               

SG: E concentrazione. Dedizione ed entusiasmo. Sono le qualità essenziali. Se non le hai meglio che ti scegli un’altra attività.

             

SDM: Altro che hai imparato dai pulp e che sia riconoscibile nel tuo lavoro di oggi?

                 

SG: I dialoghi di Ed McBain. Non mi metto a paragone ma, ragazzi quanto ho riletto i suoi bellissimi romanzi dell’87° Distretto. E restavo lì a guardare quei dialoghi martellanti, perfetti, quasi una sceneggiatura. A modo mio spero qualcosa di aver appreso. Come a giocare con i personaggi e le situazioni classiche, mescolandole. Ma questo l’ho acquisito da Ian Van Hamme che è e resterà il mio modello principale. (Lo so, l’ho già detto...).

Poi rileggendo certi SAS degli anni ’70, soprattutto quelli ambientati in Asia, ho imparato a rendere l’atmosfera decadente e carica di una sensualità malata dei tropici, dell’Asia in particolare. Qualcosa che ho ritrovato nella realtà. In seguito di Gérard De Villiers mi sono piaciute molto le storie ambientate nell’Est europeo, in Jugoslavia o comunque nei Balcani. Ma sono un po’ tempi passati. Ormai SAS è diventato una macchina, chissà chi lo scrive.

           

SDM: Dagli italiani proprio niente?

                 

SG: Certe atmosfere di Giorgio Scerbanenco, più sensazioni che altro, però. Ricordo un romanzo di spionaggio da libreria che ho amato moltissimo, La stanza delle scimmie [1988. Mondadori] di Giorgio Rossi e Antonio Caprarica che mi fece capire che davvero si poteva scrivere una bella spy story italiana con azione e intelligenza. Era la fine degli anni ’80.

Poi, sì sono amico di moltissimi autori italiani e li stimo anche. Tra quelli della cosiddetta Italian Foreing Legion di Segretissimo per motivi di formazione e amicizia quelli che preferisco sono Andrea Carlo Cappi che ha creato una grande saga con Nightshade e che sulle spie vere sa tutto, e Giancarlo Narciso che (se è libero di esprimersi come vuole) scrive una spy molto classica, molto Len Deighton che mi piace. Devo dire che mi piaceva molto come Sergio Altieri riusciva a rendere mitologiche delle strutture edili senza vita. Quella cosa l’ho studiata molto.

          

SDM: E poi?

           

SG: E poi ho studiato moltissimo il cinema di genere italiano degli anni ’70. Sul piano dell’azione moltissimo Enzo Castellari e Sergio Leone, sul versante thrilling sono della generazione cresciuta “a pane e Argento”. E poi anche tutti gli altri che hanno filmato il thrilling che resta una delle mie grandi passioni. Infatti spesso nelle mie spy story c’è un momento thriller di stampo argentiano. In Sopravvivere alla notte c’è una sequenza a casa della squillo Tiziana che abitava in piazza Cavour che richiamava davvero quel tipo di cinema.