I nomi, più spesso i cognomi, sono talvolta appellativi “di potenza” o “di destino”. King è il Re, l’Evangelisti è il praedicator fidei che si aggira fra le epoche ad annunciare “novelle” o “verità assolute”, i furori di John Blackburn (autore tanto misconosciuto quanto da riscoprire) ardono di una fiamma indubitabilmente “nera”, la Cornwell dimostra sicuramente un ottimo rapporto con il “grano”, inteso anche all’italiana. In parte è anche un giochino scemo, di cui qualche chiosatore ha effettuato alcune incursioni anche al Maurizio Costanzo Show. Ma quella scheggia che sfugge alla grulleria solleva interrogativi e semina dubbi. Soprattutto quando, in un film che s’intitola Manhunter, un personaggio di contorno e, a prima e sbrigativa vista, neppure così importante, chiamasi Lecktor. Ohibò, ma nel libro che avevamo letto un bel po’ di tempo prima non si chiamava “Lecter”? Questioni di copyright, chi lo sa… E poi, chissenefrega. Ma allora, nel 1985, chi immaginava che Lecter sarebbe divenuto il James Bond dello psycho-thriller contemporaneo?

 

Partiamo dall’inizio. Da Thomas Harris, lo scrittore più avaro della storia. Conoscerete senza dubbio i pochi dettagli che di lui sono conosciuti e che qui non sono fondamentali. Harris parte negli anni Settanta con un romanzo, a quei tempi modaiolo e paradossalmente profetico, Black Sunday, probabilmente più conosciuto per lo spettacolare e teso film che ne trasse John Frankenheimer nel 1977, lontano comunque mille anni dal mondo cupo e sanguinario dei serial killer. Un mondo che, va sottolineato soprattutto per i troppi che sono convinti che Harris sia uno dei “fondatori” del filone, era già all’epoca abbondantemente frequentato. Dal cinema in primo luogo, soprattutto con i “giallos” all’italiana di Argento & C., ma anche dalla letteratura di “genere” che, angustiata nei confini del ghetto, non può far altro che spianare in silenzio la strada agli Harris venturi (un po’ com’è accaduto per certi autori horror, rimossi e negletti, da Charles Beaumont a Richard Matheson, senza i quali King non potrebbe esistere come tale). Eppure, senza togliere a Harris i suoi meriti, qualche nome che si cimenta con le oscure stanze della follia degli psicopatici stermina-famiglie ben prima del 1981, anno della comparsa in America (in Italia tre anni dopo) del libro Red Dragon, andrebbe pur citato. Ma prima, per i pochissimi che magari non conoscono il plot di Red Dragon, ecco lo scarno e puntuale riassunto del Mereghetti, anche per dare una logica alle nostre successive considerazioni1:

“Dovendo indagare su un serial killer che fa stragi di famiglie, l’agente Will Graham adotta metodi da Actor’s Studio e cerca di pensare con la testa del mostro.

Il gioco è pericoloso, tanto più che chiede la consulenza dello psichiatra Hannibal Lecter, che proprio lui è riuscito a catturare”.

Memorie rinfrescate. Procediamo. Si diceva, appunto, degli autori in anticipo su Harris. Tanto in letteratura che al cinema. Da quelli, appunto, di “genere”, a frequentazioni sporadiche e isolate, ma non meno significative. Dai numerosi serial killer del grande Robert Bloch che con i mass murderers ha affollato la sua versatile narrativa sin dal lontano 1947 (La sciarpa), al Dean Koontz di Visioni di morte (1976), dove la protagonista è telepaticamente legata all’assassino di turno; dal William Goldman di Magic (1977), dove uno psicopatico ventriloquo si sdoppia schizofrenicamente nel suo inerte e minaccioso pupazzo, a L’inquietante signora del piano di sopra di Constance Rauch (1975), in cui la “signora” in questione è un serial killer travestito da donna per un finale che precorre “alla rovescia” quello, giustamente mitico, di La casa dalle finestre che ridono del nostro Pupi Avati; dal Jeffrey Caine di The Cold Room (1976) a La follia di Mrs. Barthelme di Susan Claudia, sempre dello stesso anno. E poi il cinema, sterminata fucina di stimoli e spunti da approfondire. Da quel Leatherface, inventato da Tobe Hooper, che all’inizio degli anni Settanta fornisce un primo elemento estetico con cui caratterizzare la fisionomia del cannibale di Harris, ai primi episodi degli indistruttibili Michael Myers e Jason Voorhees. Da due esempi canonici di personaggi sintonizzati con l’assassino “cacciato” in Occhi di Laura Mars di Irvin Kershner (ma scritto da John Carpenter) del 1978 e in Cruising di William Friedkin del 1980.

Dallo psichiatra folle che si veste da donna, identificando una categoria professionale già sospetta prima di Hannibal, in Vestito per uccidere di De Palma (1980) al nerissimo Maniac di William Lustig con l’indimenticabile Joe Spinell (1981). In ogni modo maniaci assassini, veri e propri “orchi metropolitani” in ogni salsa, campeggiano nel cinema anglosassone in tutto il decennio che precede il secondo romanzo di Harris: Terrore cieco di Richard Fleischer (1971), Il mostro della strada di campagna di Robert Fuest (1971), Black Christmas -Un Natale rosso sangue di Bob Clark (1974), Comunione con delitti di Alfred Sun (1977), Lo squartatore di Los Angeles di Dennis Donnelly (1978), Quando chiama uno sconosciuto di Fred Walton (1979), Non violentate Jennifer di Meir Zarchi (1979), Blow Out di De Palma (1981), e tanti altri ancora. Insomma, c’è già un bell’universo di squartatori e gente massacrata, quando esce in Italia Il delitto della terza luna, presentato sulla copertina come “un romanzo dell’autore di Black Sunday”, a richiamare dei ricordi presumibilmente positivi. È indubbiamente un bella storia, tesa e paurosa, con efficaci trovate e ottimi personaggi, ma che a noi, vecchi frequentatori di tutto ciò che gronda sangue, regalava all’epoca una non necessariamente negativa “aura” di déjà vu. Anche perché Harris, come tanti scrittori furbetti, riesce a captare “la musica che gira intorno” e a organizzare, con l’ausilio non da poco di un’oliata e ramificata macchina editoriale, gli stimoli di un mercato che sta crescendo senza capi o punti di riferimento. Comunque un libro di successo che, rispetto alla sua uscita americana, dovette aspettare almeno quattro anni per divenire cinema e soprattutto per divenire, come quasi sempre ai libri che finiscono sullo schermo, una cosa “altra”, aliena, scarnificata dalle intenzioni dell’autore. Va ricordato, a onor del vero, che Hannibal Lecter sta a Il delitto della terza luna come Renfield sta a Dracula.
È un elemento con una propria peculiarità e una propria funzionalità drammatica, che ha il compito di far viaggiare la trama verso certe soluzioni, ma sta ai margini, dietro le sbarre, con pochi e strettamente necessari accenni al suo passato criminale e nessun approfondimento caratteriale se non quello del gelido vilain-gourmet di carne umana, che spara battute colte e sbruffone, accattivandosi comunque inevitabili e solidali simpatie. È un aspetto da sottolineare, perché con l’abusato senno di poi, quando Il silenzio degli innocenti – tanto il libro quanto il film – mieterà in seguito un successo epocale non saranno in pochi a rimproverare al regista di Manhunter, Michael Mann, di non essersi accorto delle potenzialità “spettacolari” di Hannibal. Ma la domanda è: se n’era accorto Harris? Mann dedica infatti ad Hannibal l’identico spazio messogli a disposizione dallo scrittore che lo ha inventato. Una sola visita di Graham alla prigione e una telefonata, mentre tutto il resto lo apprendiamo dai dialoghi, soprattutto il “non detto” circa il suo leggendario passato criminale. È ovvio: Hannibal non è il protagonista, è un contorno. Piacevole e raggelante. Ma il regista fa di più: ne cambia il cognome. E non solo il suo. Lecter diventa Lecktor. Il cognome del serial killer si guadagna una “elle” supplementare (da Dolarhyde a Dollarhyde, riconfigurando un cognome composto a più letture, che investe la metà oscura stevensoniana-british di valenze american-way-of-life). Il nome gergale dell’assassino, da Lupo Mannaro, diventa “Dente di fata”. E il titolo diventa proprio un’altra cosa, anche se qui la ragione è di puro marketing, in quanto, a dire di Mann, Red Dragon avrebbe potuto essere confuso con un film di arti marziali – peraltro resta interessante lo spostamento della soglia di attenzione dall’assassino (Drago Rosso) al suo cacciatore (il Manhunter). Ma è tutto qui? No, di certo.
Perché, proprio per merito dell’incubica e post-moderna regia di Mann, Manhunter diventa, col tempo, un film seminale, faro letterale per gli sviluppi futuri del genere thriller, e non solo. Sicuramente gli devono molto i serial Tv I misteri di Twin Peaks, X Files e Millennium, già di per loro contenitori di filoni, sottofiloni, tendenze e citazioni. A questo punto non ci resta che delirare. Perché, sparandola grossa, abbiamo l’incauto sospetto che nei sette anni intercorsi tra Red Dragon e Silence of the Lambs, Harris si sia accorto, lui per primo, dell’enorme potenziale drammaturgico e ipnotico del suo Lecter, “camuffato” da Mann sotto una strana identità che lo spettatore (e non il lettore) ha dovuto in qualche modo “decodificare”, e abbia voluto riprendersi il mazzo per ripetere la stessa giocata e tentare d’imporre alla platea mondiale, riuscendoci, il suo “eroe” con il suo vero nome e con uno spazio non più da comprimario. Insomma, diciamoci la verità. Il silenzio degli innocenti, il libro, è un gemello clonato da Il delitto della terza luna. Non che la cosa sia scandalosa e neppure negativa, visto che si tratta di un clone di alta qualità. Ma le linee strutturali sono identiche, con tanto di nuovo serial killer, Buffalo Bill, alle prese – come Dolarhyde – con problemi di “trasformazione”, con una protagonista femminile altrettanto tormentata quanto Will Graham, l’entourage casinaro e logorroico degli agenti di Quantico, le visite “sciamaniche” al “Lecktor” in prigione. Qui Harris amplia con finezza ed equilibrio lo spazio dedicato ad Hannibal. E stavolta lo psichiatra cannibale diventa un comprimario a tutti gli effetti, regalandoci una geniale trama binaria che farà coincidere con arguzia metafisica la soppressione del Male sociale (Buffalo Bill) con la fuga dal carcere del Male in assoluto (Lecter).

C’è da ricordare che, nel frattempo, appunto in quei sette anni, la “musica che gira intorno” a proposito di serial killer è divenuta una ininterrotta lagna monotonale, ai limiti dell’insopportabile. Film, telefilm, libri, dibattiti: ci sono più assassini di massa nella fiction che nella realtà (per quanto la realtà americana meriti su questo fronte un approfondimento a parte…) e il serial killer diventa il topos mitologico con cui condire mille salse, non poche tra le quali dal sapore disarmonico.

Da Charles Bronson a Chuck Norris, dai reiterati Jason ai Freddy Krueger, dacci oggi il nostro serial killer quotidiano. E sul fronte letterario sono tantissimi gli autori, famosi e oscuri, che si cimentano a più riprese nel solito canovaccio “alla Manhunter”, con un cacciatore di assassini tutto teso a sintonizzarsi idealmente e quasi telepaticamente con le motivazioni del “cacciato”: da James Ellroy de Le strade dell’innocenza e Perché la notte al James Grady (che abbandona per l’occasione la spy-story alla Sei giorni del condor) di Colpo di rasoio, dallo psicologo-scrittore Jonathan Kellermann, che di psichiatri pazzi ne coltiva un vivaio infinito, a Marcel Montecino, da John Sandford a William Katz, ecco il noir classico trasformarsi in psycho-noir per la gioia e il dolore dei disegnatori dei confini dei generi popolari, laddove basterebbe ricordare che la caduta verticale degli “eroi” classici del gotico ha, di fatto, compensato un’assenza strutturale con la nascita di nuovi vilains che si muovono proprio sui confini dei generi, bucce vuote o simboli metafisici, ma sempre giustamente lontani anni luce da quella cronaca spicciola e quotidiana di cui inizialmente erano una scheggia2.

Di tutto questo clima Harris s’impadronisce con astuzia. E il sistema produttivo che lo circonda fa il resto, operando il miracolo. Con un regista raffinato quale Jonathan Demme e un cast di all stars di richiamo planetario che vede nei nomi collaudatissimi di Jodie Foster e Antony Hopkins le maschere del Bene e del Male che dovranno confrontarsi nel “thriller del secolo”, il libro diventa film, non più oggetto misterioso per cinefili, ma per tutte le platee, e per la prima volta un prodotto ai margini dell’horror partecipa alla corsa degli Oscar, mietendo allori.

Il resto è storia nota. La società dello spettacolo reclama le sue vittime e arrivano prima Hannibal e poi il film Red Dragon, ognuno dei due paradossalmente progettati per dare la massima “centralità” al comprimario cannibale. Hannibal, il libro, divide e sconcerta il pubblico, ma sicuramente macina un’incredibile quantità di copie, grazie anche ad una sapientissima campagna promozionale. Ma, continuando nel mio delirio personale, sono certo che Harris non lo avrebbe probabilmente mai scritto, se non fosse stato per De Laurentiis & company che ne reclamavano un sequel, a nome sicuramente dei migliaia di fans sparsi per il mondo.

Peraltro in tale delirio mi ritrovo in ottima compagnia. Ecco che scrive al proposito Luca Pacilio3:

“Il libro Il silenzio degli innocenti dimostrava che la figura dello psichiatra cannibale, il Camus del massacro, funzionava perfettamente come deuteragonista, figura secondaria ma cardinale, descritta per ellissi, enigmatica e magistralmente accennata. In Hannibal questo lavoro di fino viene smantellato brutalmente: Harris, per forza di soldi, promuove Lecter protagonista e impone brutalmente al lettore un tour de force di spiegazioni e descrizioni, andando addirittura a scavare (tabù!) nell'infanzia del folle psichiatra, alla ricerca delle ragioni della sua mania antropofaga, umanizzandolo e svuotandolo di ogni diabolica attrattiva. Il risultato: un disastro.”

Non entro nel merito. Hannibal, comunque, è stato un successo. Anche il film, per quanto il più strampalato della notevole filmografia di Ridley Scott, ha onorato le leggi del box office. Ma di sicuro il Lecktor, fuori dalle sbarre, ha perso funzionalità, carisma. Ed è incredibilmente meno terrorizzante. A questo punto bisogna ridisegnare la storia. Tornare alle origini, ri­chiamare tutti con il loro vero (vero?) nome. Lecter, Dolarhyde, Red Dragon. E nasce un anodino prodotto di serie con un Hannibal più vecchio che dovrebbe essere più giovane, che gigioneggia a vuoto più che mai e che si comporta comunque ancora bene al botteghino. E rende grande l’indimenticato film di Michael Mann.

Ma, a questo punto, chi era il Lecktor di Mann? “Lector” nella lingua anglosassone è il lettore di liturgia durante il servizio in chiesa. In latino ha un significato analogo, esteso al concetto di “lettura ad alta voce”, coram populo. Mann aggiunge una “K”, forse – ma sto ancora delirando – per sottolineare le origini teutoniche dello psichiatra, dal momento che da qualche parte Harris ci ha fatto sapere dei suoi natali in Lituania. È evidente l’allusione sciamanica: il Lecktor è l’aruspice vaticinante, che “legge” le carte, i visceri, i fondi di caffè e le stelle, e dal quale si va per sapere il futuro e scoprire gli assassini. La sua funzione è bene identificata in un’ottica antropologica. E in non poche realtà tribali lo sciamano è temuto e isolato per via dei suoi assidui contatti con le forze dell’Oscurità. Non di rado lo sciamano è l’Oscurità. E acutamente Mann “ambienta” il suo Lecktor in un bianco quasi accecante, una prigione linda e post-moderna distante anni luce dal castello gotico inventato dalla scenografa Kristi Zea per Il silenzio degli innocenti (e ripresa pari pari in Red Dragon, con tanto di direttore delle carceri Chilton ancora interpretato da Anthony Heald), dove i detenuti sono più “intuiti” che visti, se non fosse per quel traumatico lancio di sperma che colpisce Clarice alla sua prima visita in prigione. Mann, invece, lo isola. Lo de-cromatizza. In un film, Manhunter, dove tutto è fuori fase, fuori norma, quasi fuori del tempo (basti osservare certe ambientazioni che sembrano Lynch e Blade Runner, al contempo…), il bianco dove il cannibale vive immerso è sospetto e sintomatico.

“Come in ogni altro mio film, esiste una continua interazione tra la realtà e l’incubo. Un incessante e continuo movimento su e giù. Molti miei personaggi vivono un incubo reale, a occhi aperti. E' il caso di Peter Strauss in The Jericho Mile e del ladro in Violent Streets. Tutti e due tentano di passare attraverso un sogno, cosa che è impossibile. Altri miei personaggi sono calati dentro un incubo che è parte del fantastico. Per loro la soluzione consiste nel tornare alla realtà. Come Scott Glenn ne La fortezza, Will Graham, il poliziotto di Manhunter, si avvicina sempre molto alla follia e all’incubo. Trovo noioso trattare gli avvenimenti realisticamente. Io tento di concettualizzarli. Inclusi i tormenti della mente umana. Mi sembra di avere espresso le fantasie in un modo espressionista, il che mi porta sempre verso un versante fantastico. Manhunter è tratto dalla più originale e affascinante detective story che abbia mai letto, ma io sarei stato incapace di trattare realisticamente, alla Harris, la vicenda. Il farlo ricalcando pari pari il libro mi avrebbe annoiato a morte.

Ciò che mi attraeva del romanzo era il poter mostrare senza remore la vera essenza del Male, grazie alla quale il processo di disumanizzazione trasforma un uomo semplice e tranquillo in un assassino capace delle peggiori atrocità. E quando le persone non sono più umane, diventano martelli pneumatici in grado di perforare la materia più resistente. Ho tentato di riconoscere la natura di questo stato, la condizione di un pericoloso psicopatico, e anche ho tentato di capire l’influenza del background sociale sul comportamento individuale, sui fascismi e sui tanti genocidi di massa del mondo attuale”.

Così Mann in un’intervista a Mad Movies, risalente agli anni Ottanta4. Ed ecco cosa scrive al proposito Alessandro Borri nella sua ottima monografia dedicata a Mann5:

“Il terzo vertice del triangolo filmico in Manhunter (i primi due sono Graham e Dollarhyde) è il dottor Lecktor, lo psichiatra eretico le cui teorie blasfeme sono ancora più pericolose delle azioni delittuose. La cella in cui viene confinato è la versione legale della fortezza sui Carpazi di The Keep, il luogo dove la società civile incatena il mostro illudendosi di neutralizzarne l’influenza, che invece si sprigiona su Graham e Dollarhyde, rivelandosi il motore occulto dell’azione. L’incontro tra Graham e Lecktor attraverso le sbarre scatena la dissociazione del detective: risucchiato indietro al primo, traumatico incontro col dottore; disgustato dal sospetto, insinuatogli dall’altro ma già presente in lui, dalla loro eguaglianza nel segno del gusto omicida; devastato dal doppio transfert nelle fantasie di Dente di Fata e Lecktor”.

Naturalmente nulla di ciò in Red Dragon di Ratner, che “dovrebbe” essere la puntuale trascrizione filmica de Il delitto della terza luna. La funzione sciamanica del “lettore” oltre le sbarre resta una prerogativa di Manhunter, che ha deviato dal testo di Harris per entrare più agevolmente, attraverso un nuovo “battesimo” dei personaggi-chiave, nelle loro menti. Tutto ciò ricorda curiosamente, ma anche significativamente, il rapporto tra Kubrick e King. Il primo ha saputo entrare nello Shining meglio del suo detentore ufficiale, e la versione “ufficiale” di Una splendida festa di morte, diretta da Mick Garris e prodotta nonché sceneggiata dallo stesso King, lo ha dimostrato a chiunque. Nell’Anima Mundi dell’arte, questi fenomeni non sono così rari. Hitchcock s’impadronì così bene di un romanzo di Robert Bloch, uscito in prima edizione italiana nel 1959 con il titolo Il passato che urla, da essere universalmente ricordato come il detentore dell’atto primordiale: il film Psycho, che ha dato via all’inesauribile campionario dei serial killer. Ancora Hitchcock, genio mai troppo lodato, si servì di un raccontino, a suo modo quasi minimalista, di Daphne Du Maurier per dar vita sullo schermo all’apocalisse pennuta de Gli uccelli, che ha scritto le regole sintattiche del thriller moderno. E si potrebbe andare ancora avanti, ma finiremmo inevitabilmente fuori tema.

Si potrebbe concludere con le parole di uno dei più acuti studiosi del mondo sciamanico, l’antropologo Holger Kailvet6:

“Non è il nostro modo quotidiano di pensare, condizionato dalle emozioni o da associazioni improvvise, a rendere concreto il corso distratto della mente.

È invece il potere di concentrarsi e di votarsi totalmente a una cosa ad aprire la porta di uno stato di coscienza più elevato. Per gli occidentali, i pensieri restano solitamente separati dal mondo dell’azione; per gli sciamani, al contrario, volontà e impulso si fondono, in quanto pensare non è per loro una mera espressione simbolica che trascina una pallida esistenza in forma di linguaggio. Gli sciamani portano il pensare al più alto livello di perfezione, poiché vedono in esso una sottile forza quasi materiale che, come l’aria, pervade il mondo visibile. La magia nera agisce tramite pensieri malefici trasferiti sul nemico. Il principio che esiste una rete di comunicazione telepatica e una connessione di tutte le persone tramite un cavo telepatico è comune a tutti i popoli rimasti vicini alla natura. L’universo è inteso come un’unità pulsante cui tutti possono aprirsi, e in special modo gli uomini-medicina. E il fattore base dell’esperienza umana torna a essere quel principio di sintonia universale che esisteva nei tempi primordiali, quando c’era comunicazione tra tutti gli esseri viventi, ivi comprese le pietre, le piante, e perfino il cielo e la terra. Non esiste persona che non abbia provato quell’esperienza e che non possa provarla ancora oggi.”

Forse Harris, se ne fosse stato consapevole, non avrebbe distrutto le caratteristiche “magiche” di Lecter, il suo uomo-medicina, con il posticcio Hannibal. Ma pecunia non olet, inutile ricamarci. E allora spazio al tabù temuto da Luca Pacilio. Ancora una volta è Dino De Laurentiis che impone il suo punto di vista: ci sta ancora, tanto al cinema che in letteratura, una carta da giocare nello svelamento assoluto del pianeta Hannibal. Così all’inizio del 2007 il mondo viene invaso dall'operazione congiunta libro + film, Hannibal Rising (Hannibal Lecter - Le origini del male), ovvero il temuto prequel che va a scavare nei tabù dell’infanzia e dell’adolescenza del futuro sciamano, grande burattinaio delle forze dell’oscurità che addenta la carne umana per trarne auspici sul futuro e manipolare le menti. Tanto nel libro che nel film speculare diretto da Peter Webber, le metafisica potenza di Mann è ridotta a un banale trauma da vendetta, dietro il quale il giovanissimo Hannibal diventa serial­cannibal-killer per vendicare il brutale omicidio della sorellina, eliminata e “mangiata” in tempo di guerra da una banda di sciacalli nazisti. Forse troppo poco, e magari troppo ovvio. Ma la replicanza del Mito pretende le sue vittime. E allora Hannibal dovrebbe stare attento a non incorrere nel paradosso di un certo personaggio kinghiano, che in preda alla fame iniziò a mangiare sé stesso7.

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1 Paolo Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini & Castoldi, Milano, 1993.

2 Come perfetti esempi cinematografici di questa tendenza, basterebbe ricordare il maniaco autostoppista di The Hitcher-La lunga strada della paura di Robert Harmon o il Demone di Sabbia di Demoniaca di Richard Stanley, quasi delle pure metafore sebbene personaggi in carne e ossa. Su tutti costoro, comunque, si allunga la straordinaria ombra del Predicatore di The Night of the Hunter, libro di Davis Grubb profetico e straordinario tanto quanto il film che Charles Laughton ne trasse nel ’55, il mitico La morte corre sul fiume.

3 Luca Pacilio, Film(s) vs. Book(s), www.spietati.it

4 Michael Mann interviewed in Mad Movies, www.geocities.com/sunset strip

5 Alessandro Borri, Michael Mann, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2000.

6 Horger Kalweit, Guaritori, sciamani e stregoni, Ubaldini, Roma, 1996.

7 Il racconto è L'arte di sopravvivere, pubblicato in “Scheletri”, antologia del 1989.

Il presente articolo è uscito anche sul sito della Gargoyle Books

http://www.gargoylebooks.it/site/sites/default/files/Lecktor%20vs%20Lecter.pdf