La notte eterna del coniglio cita, a un certo punto, una delle storie dell'orrore più brevi e terrificanti mai scritte, addirittura uno 'one-liner': "C'è un ultimo uomo rimasto sulla terra. Qualcuno bussa alla porta". Ci si fa l'idea che il tuo romanzo nasca proprio dalla volontà di ampliare quest'idea. È così?

Purtroppo non è così.

L'idea di citare quel raccontino one-liner mi è venuta solo durante la scrittura delle pagine in cui lo stesso si trova, mentre cercavo di calarmi il più possibile nella situazione vissuta dalla mia protagonista. Siccome ho scritto il Coniglio in ordine rigorosamente cronologico, cioè cominciando dalla prima pagina del primo capitolo, ne consegue anche che l'idea è spuntata fuori solo verso la fine della prima stesura (versione che per me è sempre molto curata e definitiva almeno all'80%).

Il romanzo mescola in modo molto originale suggestioni di vari generi letterari: si passa dalla fantapolitica alla narrazione interiore, dallo splatter al delitto nella "camera chiusa". Secondo te è ancora possibile parlare di "generi" o gli steccati tradizionali sono stati ormai abbattuti? Nota come sto cercando di non usare la parola 'postmoderno'...

Che comunque io non so cosa significhi, e lo dico letteralmente, non per posa.

I generi sono sempre esistiti ed esisteranno sempre, almeno a mio avviso. E da sempre si evolvono, si contaminano, si intrecciano. Usati in modo intelligente non sono delle gabbie ma rappresentano al contario dei punti di riferimento di grande aiuto per gli scrittori (e i lettori).

Io per esempio ho in effetti spaziato tra generi e suggestioni diverse, ma nella costruzione della trama, nella creazione dei meccanismi di suspense e anticipazione, mi sono consapevolmente ispirato a tutta una serie di modelli narrativi che avevo assorbito da decine di thriller e horror letti nel corso degli anni. Poi è chiaro che ho cercato di dare al risultato finale un'impronta personale, una nota di originalità.

È stato notato, credo correttamente, come la storia sia affine a un film su carta, peraltro senza scadere nei più vieti cliché cinematografici (tipo la classica storia d'amore tra i sopravvissuti). Quanto sono consapevoli sia i debiti sia il distacco nei confronti del mezzo cinematografico?

Sono convinto che il mio immaginario come ormai quello di chiunque altro sia talmente impastato di suggestioni e referenze cinematografiche che è impossibile tracciare una linea netta di demarcazione rispetto ad altre fonti di ispirazione. Mentre scrivevo la storia la "visualizzavo" nella testa e sicuramente la innestavo, a volte consciamente a volte meno, sui miei molteplici ricordi cinematografici, a cui il Coniglio è debitore di ritmo, angolazione narrativa delle scene e gioco di alternanza tra le stesse.

Accetto peraltro il complimento sull'aver evitato i più triti cliché. Mentre redigevo la prima stesura, da scrittore esordiente, quindi insicuro, quindi conformista, ero stato sul punto di inserire una breve parentesi amorosa (un bacio e un abbraccio tra i due sventurati assediati dal coniglio, francamente in una situazione del genere una scopata sarebbe stata troppo inverosimile). Poi però ho coraggiosamente resistito alla tentazione, dicendomi per l’appunto che sarebbe stata un'incongrua idiozia.

All'inizio del tuo romanzo c'è un'apocalisse nucleare; i pochi sopravvissuti si rintanano nei rifugi antiatomici. In una situazione del genere viene da pensare che non potrà andare peggio di così; e invece spunta addirittura un coniglio rosa assassino. Viste le premesse ti ritieni un pessimista?

Assolutamente sì, e anzi il Coniglio è all'acqua di rose rispetto al mio prossimo romanzo.

Viviamo, qui in Europa, in un mondo ricchissimo, libero, civile, avvolti in una rete di servizi e comodità così sviluppata che per la prima volta nella storia siamo concretamente affrancati da quei bisogni primari che hanno sempre costituito il fulcro e il banco di prova di ogni esistenza umana. Giusto per chiarire, non sono un apologeta idiota della civiltà occidentale, ma semplicemente una persona che ha vissuto per dieci anni nel terzo mondo.

Bene, tutto questo è stato reso possibile in prima battuta da uno straordinario progresso scientifico e tecnologico che nel momento stesso in cui ci ha resi i padroni assoluti del mondo e della natura ci ha anche privati di qualunque speranza sensata in una dimensione trascendente, in un'esistenza che si estendesse al di là dei pochi decenni, e non tutti in condizioni ottimali, per cui il nostro organismo è stato programmato a funzionare.

Io trovo in questo una terribile, tragica ironia, la stessa di un gruppo di sopravvissuti alla catastrofe nucleare che si ritrovi improvvisamente alla porta del rifugio una creatura mascherata e dotata delle peggiori intenzioni.

Di tutti gli orrori che ci si potrebbe aspettare, la visione di un coniglio rosa psicopatico è davvero agghiacciante. Non è la prima volta che un tenero coniglietto diventa simbolo di cattiveria: penso a I conigli rosa uccidono di Dylan Dog, ai due protagonisti delle strisce naif di Matt Groening, alla visione del film Donnie Darko. Tu perché hai scelto proprio un coniglio rosa?

Ho scelto il coniglio rosa per un insieme di ragioni. Senz'altro volevo che l'aspetto dell'assassino accentuasse ulteriormente il carattere di incongruità, di vera e propria impossibilità dell'intera situazione. Inoltre anche io, in linea con gli altri esempi che hai riportato, percepisco istintivamente in questo giocoso simbolo di purezza infantile una dimensione oscura e archetipica, la stessa che si ritrova nel clown. A proposito di quest'ultimo e senza scomodare Stephen King, mio figlio, sin da piccolissimo, si è mostrato terrorizzato da una bambolina truccata da clown che gli avevamo regalato, e questo senza nessun condizionamento o suggerimento esterno. È chiaro che quello degli archetipi impressi nella nostra memoria profonda (biologica? culturale? di specie?) è un discorso che porta lontano.

Tornando a noi c'erano anche alcune ragioni abbastanza prosaiche che hanno pesato nella scelta. Volevo un costume che avviluppasse completamente il suo possessore, così da non lasciar intuire nulla su chi o cosa lo stesse indossando, e inoltre volevo che fosse un costume semplice, facile da visualizzare mentalmente per i lettori.

La televisione e le comunicazioni, nonché gli inganni a cui possono portare, giocano un ruolo di primo piano nelle vicende dei protagonisti. Tornando in tema di occidentalità, come vedi l'invasione mediatica a cui siamo sottoposti? La tua sede geografica "decentrata" in Francia e le tue esperienze internazionali in qualche modo ti offrono un punto di vista privilegiato?

L'invasione mediatica è uno dei dati essenziali ed "antropologici" della civiltà globalizzata in cui viviamo (ops, che esordio banal-pomposo. Mi è sfuggito ma lo lascio perchè in fondo è vero). È naturale che si presti a inganni e manipolazioni, ma sono tutt'altro che convinto che fosse meglio prima. Personalmente trovo terrificante l'idea di un paese intero che cinquant'anni fa si fermava per vedere Lascia o raddoppia, con il perbenismo da sacrestia e il gongolante conformismo piccolo-borghese che si respirava in una trasmissione come quella.

In Cina l'esplosione mediatica della metà degli anni novanta (Internet, TV via cavo, DVD piratati, persino SMS) è stato uno dei vettori fondamentali che hanno accompagnato la liberazione della società civile e soprattutto delle giovani generazioni da costrizioni e conformismi secolari. A orecchie occidentali può suonare ridicolo ma persino la più idiota e stereotipata delle commedie hollywoodiane, con i suoi personaggi femminili emancipati e volitivi e il diritto a seguire i propri sentimenti dato per scontato, è implicitamente portatrice di una visione del mondo e dei rapporti interpersonali che in certi contesti risulta quantomai di rottura. E poi diciamocelo chiaramente, se c'è stato un settore che si è sviluppato potendo contare su un inesausto e costante aumento della "domanda", una domanda quantomai diffusa e a cui abbiamo tutti contribuito, questa è l'industria mediatica.

Quando sopra parlavo di dato "antropologico" non usavo l'aggettivo a caso, siamo degli animali mediatici e lo siamo diventati di nostra spontanea volontà. Si puo' naturalmente parlare di " bisogni indotti " e via dicendo, ma si arriva molto presto al punto in cui al buio tutte le vacche sono nere. Non credo assolutamente, cioè, che l'invasione mediatica sia il risultato di qualche cospirazione o disegno occulto, fermo restando il diritto di ritenerla l'anticamera della nuova apocalisse, quella in cui i corpi resteranno dove sono mentre dentro i cervelli si saranno da tempo liquefatti (tentazione cui spesso soggiaccio anche io).

Senza svelare troppo della trama, il finale del tuo romanzo resta abbastanza aperto circa la possibilità di entità superiori che incarnano un male metafisico. È una mia impressione o c'è qualche eco del maestro Lovecraft?

Assolutamente sì, Lovecraft è il primo autore horror che abbia letto (dovevo avere tra gli undici e i dodici anni) e mi ha segnato per sempre. Ancora adesso la suggestione e la forza evocativa dei suoi racconti rimane a mio avviso assolutamente insuperata.

Da quali altri autori o generi ritieni di essere stato maggiormente influenzato?

Ho debiti di gratitudine verso decine di libri e di autori.

La moderna scuola del thriller anglosassone (Grisham, Lehane, Michael Connelly e molti altri) mi ha trasmesso il modello di una narrazione rapida, lineare, precisa e pulita nella scrittura quanto attenta a costruire storie forti, in grado di reggersi sulle proprie gambe prima ancora che caratterizzazioni e atmosfere arrivino ad arricchirle. Una lezione che, fatte le debite proporzioni, non mi sembra così diversa da quella di molti grandi romanzieri dell'Ottocento come Balzac, Guy de Maupassant, Dostoevskij (I fratelli Karamazov è uno straordinario thriller!).

Poi c'è naturalmente lo zio King, Anne Rice, un'incredibile scrittrice horror che in Italia è stata presentata male e in modo discontinuo, la tradizione delle ghost stories inglesi a cavallo tra i due secoli, e tanti, tanti altri.

Per concludere, cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro da Giacomo Gardumi?

Un nuovo romanzo, davvero nerissimo, che uscirà in gennaio per Marsilio. Si intitola L'eredità di Bric. Rimarrà l'impianto del thriller ma non il meccanismo a orologeria che ha contraddistinto la trama del Coniglio. Parlerò, naturalmente in forma narrativa, dell'incubo più allucinante che mente umana possa concepire: quello della morte fisica in un universo strettamente e disperatamente materiale.

E su queste note allegre chiudiamo con un ringraziamento per il tempo concessoci. Grazie e alla prossima!