Forse è stato il primo Giallo Mondadori che ho letto. Il clan dei siciliani. Io che all’epoca divoravo decine di Segretissimo guardavo con sospetto il Mystery inglese ma quella copertina che Jacono aveva tratto liberamente dal flano dell’omonimo film con Jean Gabin e Alain Delon fu come una calamita. Quella era ‘roba diversa’… Entravo nel mondo di Auguste Le Breton cantore del Milieu della ‘malagrossa’, la malavita francese fatta di ladri, di sfruttatori di donne forti, di gente di cui è meglio non fidarsi. Uomini e donne che parlavano uno strano argot che suonava esotico. Gente brutta, gente triste, gente sola, alla fine. Il mito del colpo impossibile, quello che ti mette a posto per tutta la vita e che, irrimediabilmente finisce in malora. Un noir differente da quello americano che aveva sempre una speranza di ritorno alla normalità. In più il noir francese di Le Breton non aveva poliziotti. I francesi non avevano (al cinema perché anche in questo caso narrativa e cinema erano strettamente legati) il codice Hays che obbligava le produzioni a stelle e strisce a una autocensura morale autoimposta. Nella narrativa Pulp d’oltreoceano era nato il personaggio del detective, malvisto da gangster e sbirri, per dare un po’ d’ambiguità alle storie. In Francia non c’erano limitazioni e le storie erano tutte vicende del milieu. Altrimenti non avrebbe potuto essere per Auguste Monfort, orfano di guerra -quella del 14- cresciuto tra orfanotrofi e riformatori,un giovane che impara a vivere nella miseria delle Banlieue, dei quartieri di Pigalle. Che impara la ‘mentale’, la mentalité della malavita che è un codice d’onore che però sembra valere solo per alcuni e non per altri. Sempre da Rififi (pubblicato nella Serie Noire e salutato da Marcel Savuges come il capostipite di una nuova epopea letteraria e criminale) sino a La Grande Razzia ( Razzia sur la Chnouf) a Rififi tra le donne i protagonisti restano tutti degli emarginati, a volte ricchi, a volte sfortunati, spesso violenti con una loro morale così contorta e contraddittoria da sembrare patetica. Vittorio Malanese e Roger Sartet nel Clan dei Siciliani, Le Nantès di La grande Razzia, Tony il Laureato di Rififi sino alla magnifica e tragica Vicky la Berlinese di Rififi tra le donne sono personaggi tragici che vivono in un mondo tutto loro dove sentimentalismo, amicizia, odio feroce, violenza e avidità si mescolano in maniera così contorta da formare un universo a sé che si accetta o si rifiuta. E io, in quegli anni di formazione che avrebbero germogliato in seguito creando il mio immaginario, ero terreno fertile. E se dai romanzi di Simonin( Grisbì, in particolare con quella sua magica capacità di spostare l’azione dai boulevards del centro ai vicoli della periferia, dove il buio diventa personaggio dinamico, cinico, quasi più importante degli umani) e Le Breton arrivavano spunti e suggestioni che trovavo aderenti a certe esperienze vissute a Parigi nell’ambiente non sempre limpidissimo ma decisamente affascinante del mondo della Boxe Thai e degli sport da combattimento in generale, la folgorazione doveva arrivarmi da un’altra direzione all’inizio degli anni ’90. Era un libro con la copertina scura pubblicato da Granata Press con l’etichetta Metrolibri. Copertina schizzata da Giancarlo Caligaris. Un uomo disteso in qualche camera di un albergaccio con la pistola in mano gli occhi coperti da una sorta dia bandana ricavata da una cravatta e un orologio incombente alla parete, come a significare una mancanza di tempo che di per sé creava tensione. Fu Luigi Bernardi a regalarmelo una delle molte volte in cui ci vedemmo per lavorare alla mia serie a fumetti Benares Inferno. Erano tempi eroici non solo perché ero giovane e credevo di poter fare molto di più di quello che poi sono riuscito a realizzare in campo editoriale ma anche un’epoca in cui ero estremamente sensibile all’ampliamento dei miei orizzonti creativi. Con noncuranza Bernardi mi lancia ‘sto volume intitolato Posizione di tiro di un autore che, mea culpa, ancora non conoscevo. Jean Patrick Manchette. Già il titolo mi intrigava - anche se quello francese La postion du tireur coach era ancora più stimolante. Me lo porto in treno. Apro la prima pagina … nelle due ore di treno da Milano e Bologna me lo sono letteralmente divorato. La storia del killer che vuole uscire dal giro e scopre che è molto più difficile di quello che pensa era un classico. Ma lo stile, il piglio, l’intrigo che era tutto urbno, parigino. Moderno, mordente (molto più del film che ne fecero con Delon, Il bersaglio, che non era malissimo ma secondo me non sfruttava al meglio gli spunti narrativi), mi catturarono completamente. Il ritmo narrativo, in particolare, mi colpì incisivo, mai una parola fuori posto. Eppure consapevole di una traduzione letteraria che (lo avrei scoperto in seguito) veniva dalla conoscenza approfondita di autori come Ross McDonald. Per me è sempre rimasto un modello, quel libro. Ne conservo ancora quell’edizione originale che, anzi ricomprai perché in quella ‘staffetta’ che Luigi mi aveva regalato c’era un sedicesimo stampato due volte. E io, quella piccola bibbia della narrativa noir, la volevo perfetta. Di Manchette in seguito avrei seguito le tracce nelle librerie parigine e al cinema. Per la pelle di un poliziotto diretto e interpretato da Delon ( che lo dedica al suo maestro Melville) è una non spiacevole trasposizione di uno dei romanzi dedicati all’ex sbirro Tarpòn (Piovono morti/Ques d’Os e Un mucchio di cadaveri/ Morgue Plein) così sfacciatamente fuori dagli schemi del romanzo noir francese da apparire bizzarri se non si comprende la passione dell’autore per l’hard boiled americano, sia nella forma che nel contenuto. Il film l’avevo visto da ragazzo senza collegarlo direttamente ai miei interessi letterari sul noir. Un prodotto molto action in cui aveva un ruolo fondamentale l’accompagnamento musicale anche qui curiosamente fuori tono con una storia francese, molto americano. Interessante seguire il percorso che aveva portato Manchette a concepire le due avventure di Tarpòn in maniera così esterofila nel ritmo e Delon a realizzare un prodotto in cui per un gioco strano di sceneggiatura Tarpòn diventava Choucas lasciando il nome a un personaggio secondario che, nel romanzo, era un giornalista ebreo e, nel film, era un poliziotto in pensione. Annie Parillaud ( la futura Nikita ma soprattutto magnifica e terribile Nadia in Gangsters di Oliver Marchall), al suo debutto aveva la sua parte nel fascino della storia che poi era una vicenda di trafficanti di droga ma anche di vecchi collaborazionisti del governo di Vichy. Insomma Manchette, scrittore politico entrato nella Serie Noire nel 1971 e poi passato per diverse esperienze editoriali sino alla morte prematura, mi aveva intrigato. Jazzista, polemista impegnato, sceneggiatore di fumetti, traduttore era un modello per me che iniziavo la mia corsa a ostacoli nel mondo editoriale. Uno di quegli esempi che per me -che all’epoca mi consideravo un giovane narratore alla ricerca di stimoli- divenne un mito. E ancora oggi lo è rimasto.