Bologna, futuro prossimo. Così prossimo che l’ambientazione, appena avveniristica, conserva i suoi marchi non solo attuali, ma anche passati.

Una città turrita a nuovo, neve fosforescente, porte barocche, atmosfere a tratti metalliche a tratti conosciute, come le fontane con le ninfee, una città che diventa libro nel momento in cui le sue strade ne scandiscono i capitoli. Anche i vizi sono quelli di oggi: stesse marche di sigarette – dalle Camel alle Chesterfield –, stesse fughe da scuola, stesse insicurezze,  stessa condanna al mistero – morti assurde di gente che si butta giù dalle torri e sparizioni inspiegabili –  stesso male fisico. É proprio il male terminale quello con cui si misura Mara, la protagonista collezionista di echi, nelle sue visite ai moribondi, visite che la pongono in una condizione inesorabilmente vicina alla morte: «Le hanno insegnato cose sul coma, gli stati di coscienza, il passaggio dalla vita alla morte; conosce il dilatarsi delle pupille, l’agonia, gli occhi che si rovesciano indietro. Sa in cosa consiste il suo lavoro, ma farebbe fatica a descriverlo. Non è un lavoro sanitario, non è un lavoro religioso: sta semplicemente lì, come se fosse sulla porta.» (p. 17)

Silvia Tebaldi, in Vuoto centrale edito da Pedisa, tradisce la sua attenzione per la musica dai rimandi acustici con cui spesso vengono rappresentate situazioni, in una sorta di istantanea rumoristica: «Ti hanno mai telefonato da una sala macchine? A Mara è successo. Quando ancora non stavano insieme, Elia l’aveva chiamata da un centro informatico: sotto la sua voce –era già innamorato, e neanche poco- c’era un coro di voci senza corpo. Soprani, alti, tenori. Un basso ossessionante. Una polifonia solenne, ma erano solo ventole e apparati.» (p. 40)

La duplicità temporale di cui parlavamo sopra permette all’autrice ferrarese un doppio gioco sul tempo: è schiacciato dai luoghi ma negli stessi continua a fluttuare. E, a proposito di tempi e di luoghi, in questo libro si trova una delle più belle descrizioni degli effetti di una fotografia, apoteosi illusoria dell’uomo di fissazione dello spazio nel tempo, appunto. Vi rimando alla pagina 61 che, se mi è permesso, intitolerei “Cosa si prova quando si guarda una vecchia foto”, e di cui concedo appena un assaggio: «Guardandole (delle vecchie foto, ndr) si ha una sensazione che sparisce subito, senza quasi affiorare alla coscienza, perché vediamo solo quel che sappiamo già.»

La lingua è pulita, intensa e carica, nel messaggio, di significati subliminali. La scrittrice predilige frasi nominali, essenziali, efficaci. Le citazioni colte presenti all’inizio di ogni capitolo confermano il sospetto che lei, bibliotecaria presso l’Università di Bologna, sia anche una grande lettrice. E questo è un dato confortante in una realtà in cui, perfino tra gli autori, si legge sempre meno.