24 maggio 1979 – 0re 19.53

L’uomo entrò nel negozio con passo pesante, testa bassa e spalle contratte. “Due pacchetti di nazionali senza filtro e una scatola di cerini.”

“Subito.” Il tabaccaio si voltò veloce verso lo scaffale scelse le sigarette, le poggiò sul bancone, allungò la mano per prendere i cerini e…

La pistola era a pochi centimetri dal suo viso.

“Alza le mani! Un passo indietro e alza la mani!” L’uomo aveva alzato la testa e urlava feroce.

“S-s-si, va bene” il tabaccaio mosse lento le mani verso l’alto.

Due uomini entrarono rapidi nel negozio, il primo tirò fuori una pistola, il secondo abbassò per metà la saracinesca in modo che dalla strada fosse ostruita la visuale.

“Questa è una requisizione proletaria del fronte stalinista combattente per finanziare la rivoluzione armata dei nostri compagni oppressi dal capitalismo borghese di questo stato fascista.” Il primo uomo ripeté veloce e scattante il suo messaggio promozionale mentre il tabaccaio deglutiva nervoso continuando a tenere le mani alzate.

“Caccia subito tutti i soldi e i valori bollati! Muoviti stronzo!” Strillò il secondo uomo puntando la pistola.

Il tabaccaio esitò abbassando lo sguardo.

“Cazzo guardi? Caccia i soldi!”

“Si, si, subito.” l’uomo aprì la cassa, sollevò il cassettino degli spicci e con le mani tremanti arraffò tutti i pezzi da diecimila che aveva. Uno dei rapinatori glieli strappò di mano. “I valori bollati! Caccia il libro dei valori bollati!” L’uomo diede loro quello che volevano.

“Andiamo. Veloci!”

“No! Aspettate. Dimentichiamo una cosa.” Era il primo uomo a parlare. Per tutto il tempo aveva tenuto sotto tiro il tabaccaio ed ora felice e sorridente si fece avanti. “Le sigarette. Siamo venuti apposta no?”

Gli altri due sorrisero maligni. “Va bene. Ma sbrigati una cosa veloce.”

“Hai sentito cosa hanno detto i miei amici? Muoviti! Due stecche di Marlboro che ho voglia di darmi al lusso.”

Il tabaccaio chinò la testa e…

“Cosa cazzo guardi? Alza la testa, guarda a me e prendi le sigarette!”

L’uomo si mosse lento chinandosi, si rialzò poggiando le due stecche sul bancone. L’uomo con la pistola si avvicinò e… tutto avvenne in un attimo.

Il tabaccaio allungò impercettibilmente una mano sotto il bancone, l’altro fece un salto indietro spaventato, tese le braccia, chiudendo le mani sul calcio della pistola e fece fuoco.

Due colpi ravvicinati. Petto e gola.

Il tabaccaio fu sbattuto contro lo scaffale delle sigarette. Una rosa di sangue si aprì sul suo petto, alcuni pacchetti caddero a terra, mentre lui scivolava lento contro la parete, finché un leggero tonfo lo fece sparire dietro il bancone.

I due uomini alla porta erano rimasti immobili con la bocca spalancata dallo stupore. “Ma che cazzo hai fatto?”

Il primo era ancora immobile braccia tese e viso contratto dall’odio. “Quello stronzo voleva prendere qualcosa sotto il bancone, c’aveva la pistola il capitalista di merda. Dai andiamo via.”

I due scomparvero veloci passando sotto la serranda. L’uomo con la pistola fece un passo e subito si fermò. “Ah già, dimenticavo le sigarette!” Fece un passo indietro e sorridente prese le due stecche di sigarette.

Dopo un istante le ruote di una 1100 sgommavano sull’asfalto davanti alla tabaccheria.

Il tabaccaio era a terra. Il viso schiacciato contro il pavimento. Il braccio disteso dinanzi a se. Con lo sguardo fissava suo figlio Matteo rannicchiato sotto il bancone.

Il bambino era seduto con le ginocchia al petto e gli occhi spalancati. Nelle mani stringeva la macchinina con la quale stava giocando quando tutto era cominciato.

Non parlava, non strillava, non piangeva. Tremava!

Tremava e fissava la macchia di sangue che si andava allargando sotto il corpo di suo padre.

“Tranquillo Matteo. Non è successo niente.” L’uomo parlava con gli occhi socchiusi e la sua voce era flebile. Quasi un sussurro.

“Tranquillo Matteo. Non è successo niente.” L’uomo continuò a ripeterlo ancora e ancora, fino a che tutto divenne freddo e la macchia scura smise di allargarsi sul pavimento.

Matteo tremava in silenzio!

 

11 maggio 2009 – 0re 19.53

L’uomo entrò nel negozio con passo pesante, testa bassa e spalle contratte. “Due pacchetti di nazionali senza filtro e una scatola di cerini.”

Un brivido percorse la schiena di Matteo mentre sistemava lo scaffale delle sigarette. Rimase immobile spalle all’ingresso e mani alzate appoggiate allo scaffale. Gli occhi erano serrati con forza mentre le gambe tremavano nascoste dal bancone.

“Oh. Ma che sei sordo? Due pacchetti di nazionali. Dai che ciò fretta.” La voce si era leggermente incrinata dalla rabbia. Una punta feroce si era fatta strada fra le parole.

Matteo si mosse lento lungo lo scaffale, prese le sigarette e si voltò verso il suo interlocutore.

Era un uomo sui cinquant’anni portati male, dallo stomaco prominente e dai radi capelli lunghi che scendevano sulle spalle. La sua carnagione era scura in modo innaturale e i suoi occhi erano segnati da pesanti occhiaie e dalle molte vene rosse di chi ha con la bottiglia un’eccessiva confidenza.

“Ah dammi pure un gratta e vinci che ho voglia di darmi al lusso.”

Matteo gliene allungò uno mentre continuava a fissarlo con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa.

“Oh, ma che cazzo guardi?” La voce dell’uomo si fece dura ed il viso si contrasse in una smorfia.

“Niente. Mi scusi è tardi, stavo chiudendo e sono un po’ stanco.” farfugliò Matteo.

“Si. Si, vado via.” l’uomo irritato e infastidito fece per allontanarsi con il suo tagliando in mano ma subito si fermò. “Ah già, dimenticavo le sigarette.”

Matteo senti di nuovo un brivido attraversargli tutto il corpo. L’uomo uscì dal suo negozio scomparendo veloce lungo il marciapiedi. Matteo sbuffò appoggiato al bancone cercando di calmare il suo respiro, fece per muoversi e solo allora si accorse che le sue gambe stavano ancora tremando.

 

18 maggio 2009 – Ore 22.47

La pioggia cadeva fitta e monotona. Sembrava che l’autunno avesse deciso di sostituirsi alla primavera. Le strade erano poco illuminate e le auto procedevano lente e annoiate lungo il viale alberato. Matteo guidava come un automa. I suoi occhi erano fissi sulla strada ma la sua mente era altrove…

 

…era rimasta lì, sotto il bancone della tabaccheria di suo padre.

Matteo si fermò diligentemente al semaforo rosso.

Ripensò al funerale, la bara, i fiori, gli amici. Sua madre che piangeva in silenzio mentre il prete parlava di riposo eterno e amore divino.

Verde. La macchina riprende la sua marcia.

Gli anni passarono impietosi. Gli affari andavano male, sua madre fu costretta a vendere l’attività, i presunti amici scomparvero miracolosamente nel momento del bisogno, lo Stato aveva altro a cui pensare e indecentemente guardò altrove. Erano rimasti soli: lei trent’anni e l’animo distrutto, lui sette e l’impossibilità di capire.

La macchina mise la freccia a destra e svoltò docile.

Lei aveva cercato di reagire, ma il dolore e l’indifferenza altrui avevano preso il sopravvento e così mese dopo mese, anno dopo anno, si era lentamente consumata nell’animo e nel corpo. Fino a quando un implacabile male l’aveva portata via da suo figlio.

L’auto accelerò bruscamente sull’asfalto bagnato.

Matteo si era ritrovato solo. Poco più che adolescente fu inviato in un istituto. Senza parenti e amici disposti a prendersi cura di lui, la sua vita si trasformò in un immeritata condanna. Orari, regole, nessun affetto, burocrati indifferenti e suore inflessibili. Finché la maggiore età lo rese di nuovo libero. E allora fu il momento della fatica e del lavoro. Di qualsiasi tipo di lavoro, a qualsiasi ora del giorno e della notte, tutto per riannodare un filo che si era spezzato tanti anni prima.

Le luci della macchina davanti a lui si allontanarono di nuovo. Matteo accelerò ancora.

Era convinto che la sua vita fosse rinata, che il passato fosse solo un incubo da dimenticare il prima possibile.

Una vita in una nuova città. Una nuova attività, la stessa di suo padre di tanti anni prima. Nessun  rimpianto, nessun rancore, nessuna vendetta, solo la voglia di lasciarsi tutto dietro il più in fretta possibile. La necessità di vivere una vita normale fatta di cose inutili, banali, rassicuranti. Tutto sembrava finalmente tornare a posto.

Fino a quella sera di maggio.

Una voce. Quella voce. Era tornata dal passato. Nessun dubbio, nessun margine di errore, nessun ripensamento.

La macchina di fronte rallentò. Gli stop rossi accesi nella pioggia.

E allora aveva cominciato a fare delle domande alle persone giuste. Mezze parole e frasi sussurrate, discrete confidenze e improvvise amnesie, avevano riempito le sue giornate. Nessuno sapeva molto di quell’uomo, si diceva fosse tornato in Italia dopo decenni di emigrazione in sud america. Era taciturno e scontroso, non dava confidenza e aveva una luce cattiva negli occhi.

La macchina di fronte svoltò infilandosi nel parcheggio sotterraneo di un palazzo. Matteo la seguì scendendo la lunga rampa del parcheggio.

 

L’uomo parcheggiò la sua auto e si avviò verso l’ascensore interno. Matteo lo segui facendo finta di cercare qualcosa nelle tasche della giacca, lo raggiunse mentre aspettava l’ascensore.

“Scusi ha una sigaretta?”

L’uomo alzò lo sguardo verso quel ragazzo alto e magro dall’aspetto familiare. Lo guardò torvo mentre svogliato si infilava una mano nella tasca interna del giubbotto, chinò il capo per cercare meglio e…

Il pugno lo colpì allo zigomo.

Cadde a terra come un sacco di patate. Le gambe non fornirono il minimo sostegno, cedettero di schianto. Provò a mugolare qualcosa, a tirarsi su sulle ginocchia.

Matteo lo colpì con violenza. Uno, due, tre calci fra stomaco e costole. L’uomo urlò di dolore rotolandosi a terra per sfuggire al suo aggressore. Matteo lo seguì in silenzio continuando a colpirlo. L’uomo si appoggiò a una parete coprendosi il volto con le braccia, mentre un rivolo di sangue gli colava giù dallo zigomo tumefatto.

“Ma che cazzo vuoi? Chi sei?” urlò con un misto di rabbia e paura.

Dopo un istante di apparente calma l’uomo provò a sollevarsi. Matteo gli puntò in faccia la pistola che aveva estratto dalla giacca.

“Fermo! Resta giù.” Le parole erano pronunciate quasi sottovoce, calme, decise e per questo ancor più pericolose. L’uomo si lasciò cadere a terra fissando incredulo il suo aggressore.

“Ma chi diavolo sei? Che c…” adesso il tono dell’uomo si era fatto piagnucoloso.

“sssttt…” Matteo si pose un dito dinanzi alla bocca continuando a puntargli la pistola alla testa. Nel parcheggio vi furono alcuni istanti di irreale silenzio. L’uomo a terra guardava Matteo con gli occhi spalancati dalla paura. Matteo lo guardava incuriosito, come se vedesse un cane volare.

“Tu hai ucciso mio padre.” la frase risuonò semplice e crudele fra le auto e le colonne del parcheggio.

“Ma che c…”

“sssttt…” l’uomo tacque subito e Matteo riprese calmo, quasi rassegnato. “Tu il 23 maggio 1979, verso l’ora di chiusura, sei entrato nella tabaccheria di via del Baluardo a Roma, hai rapinato il tabaccaio e gli hai sparato due colpi, uno al petto e una alla gola, e prima di uscire ti sei ricordato di prendere le sigarette. Il tabaccaio era mio padre ed è morto lì sul pavimento del suo negozio.”

“Calma bello. Io non so chi sei, cosa vuoi, chi era tuo padre e…”

“Io ero nel negozio!”

L’uomo per un impercettibile frazione di secondo rimase muto sbarrando gli occhi.

“Ero sotto il bancone” riprese Matteo. “Giocavo con le mie macchinine e aspettavo che mio padre chiudesse il negozio e ti ho sentito ucciderlo.”

“Senti ti ripeto che io non ti conosco. Mi dispiace per tuo padre, ma…”

Il colpo di pistola esplose fragoroso, rimbombando ossessivo nel garage. L’uomo rimase immobile con le ultime parole morte in gola e il proiettile conficcato nel muro a pochi centimetri dalla sua testa.

“Io non credo che sia stato tu.” riprese calmo Matteo. “Io so che sei stato tu!”

L’uomo a terra deglutì continuando a fissare la pistola. La sua testa era completamente vuota, non un’idea su cosa dire, non un’idea sua cosa fare. Rimase lì a terra. Immobile.

“Adesso non ti chiedo nulla di particolare, voglio solo sapere il perché. Il perché lo hai ucciso, solo questo. E ti avverto. Non provare a negare. Ogni volta che negherai ti sparerò un colpo, prima alle gambe, poi alle braccia e infine in testa. Hai un’unica possibilità di uscire vivo da qui: dirmi subito il perché. Fallo e me ne andrò di qui e non mi vedrai mai più.”

L’uomo a terra rimase ancora in silenzio, con gli occhi si guardava intorno cercando un aiuto che non c’era. Fece per aprire la bocca. Matteo gli puntò la pistola alla gamba. L’uomo attese ancora qualche istante. L’innaturale calma del ragazzo gli faceva gelare il sangue. Lo guardò negli occhi e poi buttò fuori l’aria quasi dovesse vomitare.

“Eravamo giovani!” si fermò un attimo e riprese fiato “Giovani e stupidi.”

Matteo lo fissava inespressivo. “Vai avanti.”

L’uomo a terra chinò la testa e riprese a parlare. “Avevamo la testa piena di cazzate. Tu eri piccolo non puoi capire. Si parlava di rivoluzione, di lotta di classe, di proletariato. Vedevamo nemici ovunque. Nello Stato, negli estremisti di destra, nella polizia…

“In un tabaccaio!”

“S… si… anche, in chiunque rappresentasse qualcosa, credevamo che lottando con le armi avremmo cambiato la società verso un ideale di giustizia sociale e…”

“Che cazzo dici!” ruggì improvviso Matteo “Che ne sapevate voi di proletariato e giustizia sociale. Che facevi tu in quegli anni? Dimmi che facevi in quegli anni?”

L’uomo rimase in silenzio impietrito da quello scoppio di rabbia.

“Dimmi che cosa facevi!” urlò di nuovo Matteo mentre la pistola prese a tremargli nelle mani.

“F… facevo l’università… scienze politiche.”

“Mio padre aveva cominciato a lavorare a quattordici anni come muratore, a casa non c’erano soldi per studiare, bisognava lavorare. E lui ha lavorato fino a rompersi la schiena, tutto per poter aprire quella tabaccheria e poi sei arrivato tu, pezzo di merda figlio di papà, non hai mai lavorato un giorno in vita tua e parlavi di operai e sparavi e uccidevi in nome della giustizia sociale.” la voce di Matteo aveva preso a tremare più della sua mano.

“Perchèèè? Perché l’avete fatto? Dimmi perché!” le urla di Matteo risuonavano nel garage deserto. L’uomo a terra rimaneva in silenzio.

“Dimmi perchèèè!” le parole erano deformate dalla rabbia. La composta freddezza di Matteo era completamente svanita. I suoi occhi divennero lucidi.

“Perchèèè?” piagnucolò ancora mentre abbassava la pistola.

L’uomo a terra alzò lo sguardo verso di lui, lo fissò negli occhi e finalmente disse “Non lo so!”

Matteo lo fissò ancora un istante, vide un uomo segnato nel fisico e nell’animo, senza presente e senza futuro, dal volto sanguinante e dalle gambe che tremavano. Il ragazzo si asciugò gli occhi, trasse un profondo respiro, voltò le spalle al vecchio terrorista e si avviò verso la sua auto.

L’uomo rimase a terra in silenzio fin quando non vide l’auto del ragazzo uscire dalla rampa del parcheggio, allora si alzò lentamente appoggiandosi al muro e trascinando una gamba si avviò verso l’ascensore.

 

21 maggio 2009 – Ore 23.15

L’uomo uscì dal portone del palazzo. Cercò e trovò il pacchetto di sigarette in una delle tasche del giubbotto spiegazzato. Guardò il cielo maledicendo l’umidità e quella pioggerellina di merda che continuava da giorni, si tirò indietro i pochi capelli che gli erano rimasti e si avviò verso le strisce pedonali mentre tirava le prime boccate di fumo.

La macchina partì veloce. Le luci spente. Le ruote che non fischiarono sull’asfalto bagnato. L’asta del contachilometri saliva veloce. Il passaggio pedonale si avvicinava frenetico.

L’uomo sulle strisce cacciò una lunga boccata di fumo, mentre istintivamente si girava a guardare il viale deserto.

Le luci della macchina si accesero d’improvviso, fredde e abbaglianti. L’uomo le vide comparire quando erano a pochi metri da lui, non ebbe il tempo di fare nulla. Rimase lì con la bocca aperta e la sigaretta in mano.

L’impatto fu devastante. Il paraurti dell’auto lo prese sulle gambe rompendogliele di netto. Il corpo fu sbalzato in avanti e investito. Le ruote ruppero e spezzarono tutto quello che c’era da rompere e spezzare.

Matteo guardò il corpo morto sull’asfalto che lentamente scompariva dallo specchietto retrovisore della sua auto.

Tiro un grande sospiro. Tornò a guardare la strada dinanzi a lui e prese a mormorare monotono e allucinato la stessa identica frase.

“Tranquillo Matteo. Non è successo niente.”

“Tranquillo Matteo. Non è successo niente.”

“Tranquillo Matteo. Non è successo niente.”