Fine marzo 1979

Ce ne stiamo tutti e quattro in una 128 bianca con il motore acceso, come ne girano tante, anonima ma comoda per le quattro porte. L’ha rubata un paio di giorni prima dalle parti di Genova il Tedesco, che di tedesco non ha niente oltre al soprannome, vista la carnagione olivastra e talmente piccolo da essere scartato alla visita di leva. E’ un mezzo alcolizzato amico di Roipnol, e qualche volta rubano insieme delle macchine, ma solo quelle dei medici. Il Tedesco si tiene la vettura, l’altro la borsa del dottore, quando c’è, e usa i ricettari per andare in farmacie fuori città a comperarsi tutto quello che è possibile infilarsi in vena. Magari baratta delle fiale a base di morfina con roba di più pesante. Altrimenti non porta a casa niente. Solo il gusto di fare qualcosa di illecito, o l’idea di ferire la società e le sue regole. Questa volta però la macchina serve a noi. E il Tedesco si è convinto di aver chiuso così tutti i suoi debiti con lui.

Roipnol gracchia una risata, nel silenzio della vettura, con  un filo di saliva ai lati della bocca, e la testa che ciondola a destra e sinistra senza un attimo di sosta. Al volante Lorenzo, quello che ne capisce un po' di più di macchine e motori. Dietro io e Mariano. Ci guardiamo e ci sorridiamo, con la tensione che ci luccica negli occhi. Leggo sulla sua bocca indurita, e sulle labbra carnose la convinzione di essere nel giusto. Io mi sento la pelle della faccia calda e tirata come dopo una giornata di vento in alta montagna.

Tra me e Mariano c’è un’intesa segnata da anni di amicizia. Stessa famiglia operaia, stesse strade del centro, stessa scuola. A quattordici anni volevamo fare i musicisti. A diciotto abbiamo scelto la politica. Due anni dopo la rivoluzione. Unica risposta possibile agli assalti frontali dello stato, e dei suoi apparati repressivi. A qualunque costo, nessuna soluzione intermedia, niente compromessi con i traditori della sinistra, e della lotta antifascista. E poi, secondo noi, i tempi sono maturi per tirare fuori le armi e dare il via ad uno scontro diretto, anche per la forte spinta che arriva da gruppi sempre più numerosi che si agitava all’interno del movimento, e della classe operaia.

Quel giorno a noi due spetta la parte più difficile. Entrare in banca. Mentre Roipnol deve starsene fuori a fare il palo. Entreremo tra pochi minuti, a volto scoperto, un’operazione di autofinanziamento per gestire piccole azioni di disturbo contro obiettivi già individuati. Poi, forse la clandestinità. Dentro di noi siamo pronti, se la scelta si renderà necessaria.

Siamo armati solo noi tre. A Lorenzo una pistola non serve. E poi non ne abbiamo un’altra. Roipnol ne ha recuperata una non si sa bene come e dove. E’ un’arma cecoslovacca, grande, piuttosto scomoda per le sue mani piccole. Però funziona, dice lui, che l’ha provata in collina, in una sera di luna piena. Io ho un fucile con le canne segate, una vecchia doppietta risistemata a dovere dal nostro amico Fortunato. Mariano invece si porta dietro una beretta con sei colpi, rapinata ad una guardia giurata qualche tempo prima. Si tornava da Torino, di sera. Avevamo adocchiato il tipo passando per un paese, e, deciso lì per lì che poteva essere l’occasione giusta. Lo avevamo seguito e sorpreso nel portone di casa. Gli avevo puntato quel che restava della doppietta sotto il mento con una rapidità tale da sorprendere tutti, lui e noi. Ma soprattutto me. Mariano era stato altrettanto rapido a prendergli la pistola, e se l’era tenuta senza troppe discussioni.

Otto colpi in due. Non uno di più. Ma non è nostra intenzione usarli, quindi quelli che abbiamo sono più che sufficienti per creare panico in banca e uscire con il bottino. Non siamo banditi, e non dobbiamo sparare a nessuno. Si tratta di un’azione dimostrativa, oltre che di autofinanziamento, e deve essere chiaro che un nucleo combattente si sta organizzando anche in provincia.

La banca è dall’altro lato della statale. Per primo scende Roipnol. Aspettiamo che si fermi. Si guarda in giro, poi nell’atrio, attraverso l’ampia vetrata fumé. Si sposta di lato e si mette spalle al muro. Come al solito sta ridendo. Sembra sempre l’unico contento. A quel punto scendiamo anche noi due. Appena metto i piedi fuori dalla macchina provo un’improvvisa sensazione di freddo negli occhi, come se dalla strada una qualche presenza invisibile ci soffiasse dentro aria gelata. E subito dopo il vuoto nello stomaco. Ma non dico niente. Spero di trovare la voce entrando nel locale, giusto per gridare, fermi fermi state dove siete questa è una rapina siamo comunisti combattenti e non vogliamo fare del male a nessuno, cercando di tenere sotto controllo la situazione, mentre l’altro dovrà razziare il denaro.

Aspetto che Mariano mi si avvicini, dopo aver fatto il giro dell’auto. La strada mi sembra deserta. E con le mani guantate sembriamo due cavalieri dalle lunghe ombre. Manca solo il vento forte e cumuli di erba secca e polvere che svolazzano nell’aria, e un cavallo pronto a fuggire sfondando la vetrata della banca. E tutto mi sembra muoversi al rallentatore. In realtà attorno a noi si agita la limitata vita mattutina di un paese di nemmeno mille anime. Poche macchine posteggiate, sulla destra la schiena di qualcuno che cammina. Non vedo altro.

Ci muoviamo, con la gamba rigida per l’arma che preme contro la coscia, nascosta dalla giacca abbottonata. La mia di pelle scamosciata, la sua di velluto color biscotto a coste larghe.  Rallentiamo a metà della strada per far passare un ciclista che sta arrivando dalla corsia opposta. Io e Mariano ci guardiamo ancora una volta prima di salire sul marciapiede.

E lo schianto ci arriva secco e prepotente nelle orecchie.

E’ un rumore metallico, al quale segue uno stridio forte, di ruote che si incollano sull’asfalto. Ci giriamo tutti e due, di scatto. Io mi sento lo stomaco che tutto d’un colpo mi sale in gola, e la testa rimbombare per le pulsazioni che mi rimbalzano da una tempia all’altra. Il ciclista che abbiamo fatto passare un attimo prima è a terra, non si muove, e la bicicletta rovesciata poco distante. Un’alfa rossa è fuori per metà da una stradina secondaria. L’autista scende e guarda il muso della sua macchina, dando le spalle all’uomo investito. Io e Mariano ci facciamo dei segni quasi impercettibili con gli occhi spalancati. Cerchiamo anche quelli di Roipnol. Ma vediamo solo la sua schiena. Ha lasciato il suo posto e si sta avvicinando al luogo dell’incidente. Non riusciamo a capire cosa stia facendo. Continuo a guardarmi in giro, con la bocca che si riempie di saliva acida.

“Brutto stronzo, ammazzi uno e ti preoccupi della tua macchina di merda.” La voce di Roipnol è lenta, e il filo di disprezzo che lega le sue parole si attorciglia nell’aria, e ci stringe la gola come un cappio. Lo vediamo togliere la mano di tasca, lento come le sue frasi, mentre si porta in avanti con il busto. Lo sentiamo gridare ancora una raffica di insulti, con rabbia, con la voce che cresce piano piano, fino a diventare un urlo acuto, quasi femminile. Poi nell’aria esplodono tre colpi che si mescolano al rumore della lamiera che va in frantumi, dei vetri del fanale che schizzano in aria, e il tonfo sordo di una gomma che si affloscia a terra. Grida l’autista, gridano le persone che stanno accorrendo, qualcuno si gira per tornare indietro, un altro si getta a terra. Mariano grida anche lui, più forte di me. Prendiamo Roipnol per le spalle, e riusciamo a infilarlo dentro la  macchina che Lorenzo ha guidato quasi sui nostri piedi. Riparte sgommando, con un’inversione che lo fa salire sul marciapiede.

 

Ottobre 2000

Spingiamo la mia Bravo dentro l’officina.

“E’ saltata la frizione, credo. - Mi dice il meccanico. Sono stato fortunato a trovarne subito uno. - Si faccia un giro. Mi dia un’oretta di tempo e gliela rimetto a posto.”

“Dove trovo un bancomat?” gli chiedo dopo averlo ringraziato.

“Qui di fronte. C’è una banca.” Facendogli un cenno di saluto con la mano vedo una 128 bianca ferma in un angolo. Mi avvicino. La tocco.

“Ha venticinque anni quella macchina, - mi dice dal fondo il meccanico - è ancora un gioiellino. Va che è una meraviglia. Era di un pensionato morto il mese scorso.”

Esco senza ascoltare nient’altro. Sento solo la voce di Lorenzo ronzarmi in testa, come allora, come quel giorno di fine marzo. Mi ritornano le sue parole urlate in faccia a Roipnol, mentre gli vomitava addosso di essere un paranoico isterico, una gran testa di cazzo, che non ci dovevamo fidare di lui, e batteva le mani sul volante, con lo sguardo fisso sulla strada, e bestemmiava, mentre Mariano cercava di calmarlo dicendo che eravamo stati fortunati, che potevamo già essere entrati in banca, e c’era ancora andata bene così, e Roipnol che continuava come una lagna, con la sua voce lenta, a dire che quello stronzo se lo meritava, che doveva sparargli in bocca, e non sulla sua alfa di merda, e Lorenzo che non voleva più saperne niente, che aveva paura, che voleva andarsene via, lontano da noi, che non voleva andare in galera come un imbecille per colpa di uno stronzo.

E rivedo gli occhi lucidi di Mariano, la sua faccia sudata, e la testa che si china piano piano, fino a nascondermi le sue labbra carnose.

Lorenzo era partito qualche giorno dopo, e da allora non l’ho più visto. E non abbiamo più avuto sue notizie. Roipnol invece l’abbiamo visto un mese dopo, ricomposto nella bara prima del funerale, con la sua faccina pallida, da adolescente perenne, come quando era vivo. L’avevano trovato nei giardini della stazione con un ago in vena.

Io e Mariano ci eravamo abbracciati all’inizio dell’estate per un saluto. Avevo deciso di stare via qualche mese, di farmi un viaggio in Sud America. Da allora lo sento al telefono di tanto in tanto, lo sento più spesso per radio, fa il giornalista per la rai, e conduce delle trasmissioni dove continua a parlare come un tempo, con la stessa voglia di cambiare il mondo, e di farne uno migliore. Ha cambiato solo lo strumento per raggiungere il suo scopo.

Sono fuori dall’officina, in mezzo alla strada, e mi sento la faccia accaldata. E la stessa aria gelata di allora mi penetra negli occhi. Li socchiudo, e vado verso la banca. Mi guardo attorno. La strada mi sembra deserta, nonostante il traffico, tutto è rallentato, e una polvere inesistente torna ad agitarsi in aria. Vedo la giacca di velluto color biscotto a coste larghe al mio fianco, e io ho l’impressione di camminare con la coscia irrigidita. Zoppico, e mi assale lo stesso vuoto nello stomaco. Lo stesso spasmo freddo di quel giorno. Di fronte, appoggiato al muro della banca, a pochi metri dal Bancomat, Roipnol sta ridendo.

E questa volta  rido anch’io.