Un giallo onesto, senza trucchi e senza inganni, senza effetti roboanti, senza inseguimenti, senza spargimenti di sangue, senza serial killer o omicidi efferati. Senza segreti misteriosi, teorie del complotto, trame politiche o chissà quali oscure macchinazioni di iperboliche sette segrete. Senza orpelli inutili.

Una città che si staglia sullo sfondo vigorosa, tratteggiata con l’amore e la comprensione di chi in quel luogo non solo ci ha vissuto, ma l’ha respirato, l’ha “abitato”, se ne è permeato nel profondo, ascoltando i ricordi e le memorie dei vecchi, dei genitori, degli zii, dei vicini di casa, le chiacchiere al bar …

Angelo Marenzana schiude con Legami di morte il baule della memoria per raccontarci il periodo italiano del ventennio fascista, visto attraverso gli occhi del commissario Augusto Bendicò, quasi esiliato nel suo lavoro, ben contento di essere ridotto a fare da passacarte e da burocrate, in quell’isolamento quasi volontario in cui è stato relegato dalla morte della moglie Betti, recentemente scomparsa per una malattia infida, subdola, sottile e imprevedibile.

Una banale difterite che poteva risolversi in pochi giorni e che invece se l’è portata via senza che nessuno potesse far niente. Si può morire così o in modo più violento, come nel caso di Dora, la ragazza più bella del quartiere, che canta in un night club, anche se all’epoca le parole straniere, come i delitti, sono assai sgradite al regime, che vorrebbe imbavagliare la pubblica opinione e gli organi di stampa, giungendo fino al punto di istruire le forze di polizia in merito all’esito “desiderato” di certe indagini troppo scottanti o scomode, per l’immagine di un’Italia che deve apparire sul panorama internazionale limpida e pura, retta e nitida come una fotografia in bianco e nero, senza ombre e senza oscurità.

È da qui che si parte. Da una ragazza morta, che ricorda al commissario la moglie morta e un’altra donna morta poco tempo prima, il cui apparente suicidio, come da istruzioni, è stato camuffato da incidente domestico, compiacendo le disposizioni del regime.

Però qualcosa non funziona, quando i superiori di Bendicò vogliono far passare Dora come una donna equivoca, di malaffare, che ha fatto la fine che ha fatto perché cantava canzonette leggere nei locali.

Infatti indagando viene fuori invece che, per opinione unanime del quartiere, malelingue comprese, Dora era davvero una ragazza con la testa a posto e che i locali in cui cantava non erano poi così equivoci. Anzi. Ecco che allora Bendicò rimugina sul caso, ripensa a quella vita che si è spenta così improvvisamente, e … parla con sua moglie.

Già, perché come capita ai coniugi che hanno vissuto tanti anni assieme, il commissario quando si sente incerto sul da farsi ha come l’impressione di sapere, per puro istinto, cosa avrebbe detto la sua Betti se solo fosse stata lì, come l’avrebbe rimproverato per essere stato magari troppo frettoloso in un interrogatorio, troppo prevenuto con un testimone, troppo brusco con un collaboratore.

Come un angelo custode, l’ombra di Betti accompagna il commissario per tutto il corso dell’indagine e scompare, sfumando, come nella migliore tradizione cinematografica, quando questi arriva non solamente alla verità ma anche a una svolta nella sua vita personale.

Conclusa un’inchiesta che lo pone, solo, contro il regime e contro i superiori, rischiando di farlo finire anche nella lista nera della polizia politica, Bendicò ritrova la sua dignità, il suo rigore, il suo spirito, il coraggio di essere se stesso sempre e comunque, indipendentemente dalle circostanze.