Il giallo svedese, dopo una fortunata ma breve apparizione negli anni Settanta con la coppia Sjöwall & Wahlöö, pubblicata nell’ultima serie dei “Gialli Garzanti”, è stato riscoperto sul finire degli anni Novanta grazie alla traduzione, presso Marsilio, della serie del commissario Wallander scritta da Henning Mankell. Sulla sua scia altri autori hanno avuto accesso al nostro mercato e uno degli scrittori più interessanti è senza dubbio Håkan Nesser, cinquantacinquenne ex insegnante ora dedito a tempo pieno alla letteratura. In un arco di dieci anni, dal 1993 al 2003, con precisione tutta nordica, ha pubblicato i dieci romanzi della serie dedicata al commissario Van Veeteren: ma solo nel 2001 la sua prima avventura è approdata in Italia. Poi, come accade spesso in Italia in modo poco rispettoso delle ragioni letterarie, ne sono state tradotte altre tre non seguendo l’ordine cronologico. Il commissario e il silenzio è la quinta e, come le altre, ci presenta un’ambientazione piuttosto insolita. Di norma infatti, uno dei motivi di fascino dei polizieschi europei, latino-americani, e perfino africani sta nello stretto legame con la realtà urbanistica, sociale e politica del paese in cui sono ambientate le storie. Rispetto a una certa uniformità di tipo industriale che si avverte nella produzione medio-bassa anglosassone (e anche in certi “noir” francesi più dozzinali), ogni giallo proveniente dalle province dell’Impero sembra far respirare al lettore il profumo di una civiltà sconosciuta ma degna di essere avvicinata attraverso il pretesto della storia di “detection”. Nesser ha imboccato un’altra strada. Il suo VV (così il commissario Van Veeteren viene familiarmente chiamato dai suoi collaboratori) si muove in una cittadina immaginaria, Maardam, in un non meglio imprecisato paese del nord Europa, anche se l’onomastica, la toponomastica e qualche indizio (l’uso dei gulden, i fiorini olandesi) potrebbe far pensare appunto ai Paesi Bassi. Ma spesso il paesaggio è ben diverso e ricorda nei suoi boschi, nei suoi corsi d’acqua e nei suoi fiumi piuttosto la Svezia, paese d’origine dell’autore, o comunque una nazione scandinava. La scelta di Nesser si giustifica, secondo una linea consolidata soprattutto nel poliziesco degli ultimi anni, tenendo presente che il giallo è un pretesto per parlare non tanto della società svedese con le sue orgogliose costruzioni sociali del welfare e il preoccupante dilagare di fenomeni di violenza (aspetto invece cario a Mankell) quanto dell’uomo “tout court” alle prese con gli eterni problemi esistenziali (chi siamo, dove andiamo, perché esiste il male nel mondo), irrisolvibili se affrontati dalla prospettiva laica del commissario e del suo creatore. Il suo VV qui è già sulla sessantina, piegato ma non domato da 35 anni di lavoro in polizia, sicuramente ferito da 25, inutili anni di matrimonio con Renate che gli ha dato un paio di figli raramente presenti e un’amarezza che neppure la separazione ha alleviato; egli attraversa i delitti (qui due bambine stuprate e strangolate in aggiunta al loro eccentrico capo setta dal passato non proprio immacolato) che il caso gli getta attraverso il cammino, cercando il senso profondo del suo agire, un indizio che dia alla sua vita e alla sua professione un senso, una qualunque ma sensata direzione. Certo il suo autore ce lo ha consegnato abbastanza eccentrico: ama giocare a scacchi con un amico poeta, Mahler, e a badminton con il suo sottoposto Münster; predilige ascoltare, in auto e in casa, musica classica e in questo romanzo lo scopriamo robustamente cinefilo; a queste qualità in verità un po’ eccentriche nel duro mondo della polizia, associa in ogni caso uno stile di vita decisamente più plebeo: fuma, beve e ha il fastidiossimo vizio di tenere sempre uno stuzzicadenti di legno in bocca. Egli ama agire soprattutto da solo e in questo caso, che lo coinvolge come individuo quasi inerme solo di fronte al Male Assoluto (e difatti con un suo amico giornalista si chiede retoricamente se questa non sia la prova che Dio non esista), ha modo di approfondire questa sua tendenza: la sua squadra infatti (i vari Reinhart, Jung, deBries, Rooth e altri che nel corso del tempo hanno mutato grado e funzioni) rimane a Maardam e solo i primi due lo raggiungono nell’idilliaco paesino tra i laghi dove si è consumata la tragedia.La vicenda svolge le sue volute in modo pigro: a Nesser, più che far andare avanti la storia, interessa dipingere un mondo che evidentemente non ama, quello di certe sette fondamentaliste che tuttavia hanno il diritto di essere considerate con equanimità specie quando di mezzo ci sono delle minorenni. A differenza della stampa, che sfrutta senza scrupoli il ghiottissimo boccone estivo, VV si pone spesso domande di ordine etico superiore sul suo agire, sull’agire degli altri e pur non provando quell’umana comprensione per il colpevole che rende grande l’inimitabile Maigret (al quale VV è stato sbrigativamente e impropriamente avvicinato), tuttavia cerca di sondare con delicatezza e partecipazione gli abissi dell’animo umano. Certo, il lettore drogato dai bestseller d’Oltreoceano tutti azione e psicologia da rotocalco, si troverà a disagio a seguire gli apparentemente pigri e inconcludenti vagabondaggi di VV: solo quando il colpo d’ala finale (che anche qui non manca anche se si resta un filino delusi) fa ripiombare il romanzo in medias res allora anche il fruitore più disattento e più “evasivo” troverà la sua consolante certezza nella scoperta del colpevole. Come diceva Oscar Wilde, chi guarda sotto la superficie lo fa a suo rischio e pericolo. Farlo con Nesser può essere pericoloso, ma è l’unico modo per apprezzarlo veramente.

Voto: 7.5