Nel 1973 esce nei cinema Serpico, il film di Sidney Lumet con Al Pacino; ed esce anche un altro Serpico: il libro-verità di Peter Maas, che racconta la stessa storia e da cui il film è tratto. Ma è di un altro Serpico che parlerò qui. È il romanzo mai scritto, che avrebbe lo stesso titolo del libro e del film, e le tinte del noir. Il libro di Maas non è un romanzo in senso stretto; non è finzione, ma non è nemmeno un semplice reportage, un libro-intervista o una biografia. È la storia di Frank Serpico, raccontata senza retorica e senza pretese letterarie. Questo racconto disadorno e dimesso ha la forza e la cogenza della realtà, che se ne frega della verosimiglianza e dei meccanismi letterari, dei dispositivi narrativi a tempo. La vicenda dell’agente Serpico è la storia di un uomo che vuole a tutti i costi essere onesto, che combatte e resiste alla corruzione dei colleghi e al lassismo dei superiori, e alla fine perde la sua battaglia, rinuncia e se ne va. L’elemento forse più nero del romanzo è proprio questo. Nessuna consolazione per l’uomo che voleva solo essere un buon poliziotto, diventare detective, aiutare la gente, fare il proprio dovere al meglio delle proprie capacità: c’è solo l’amarezza e il senso di impotenza di chi è stato isolato. Alla fine Frank Serpico, a soli 35 anni, abbandona il corpo di polizia. Le sue denunce hanno portato a un processo, ad arresti, a condanne; ma è il genere di processo che serve solo a mettere a tacere lo scandalo: si puniscono i pesci piccoli, i semplici agenti, e intatti rimangono i vertici, la dirigenza del Corpo, coloro che hanno permesso la diffusione della corruzione e l’isolamento di Serpico.

La storia del libro (che è quella del film) è nota.

La tenacia del protagonista, la sua resistenza alle lusinghe e alle minacce, è storia. La faccia di Al Pacino, barba incolta e capelli da hippie, vestiti da vagabondo e cappello lacero, è quasi un’icona. È anche qualcosa di molto diverso dai consueti eroi impacchettati, i ribelli da teleschermo, impiccati fra il sorriso di plastica e il profilo hollywoodiano, ultimi campioni del sogno americano che vede il singolo ergersi contro i mali del sistema e infine trionfare. Serpico non trionfa, perde. Peggio ancora: abbandona. Non è un “buono” né politicamente corretto, non crede nell’insita bontà delle istituzioni e men che meno nell’onestà profonda dei suoi superiori o dei suoi colleghi. Non è il ragazzo della porta accanto, gentile e servizievole: impreca, urla, rifiuta il dressing code rassicurante degli agenti in giacca, cravatta e calzini bianchi; assomiglia più a un delinquente che a un poliziotto. Non è neppure un eroe senza macchia, un esempio da seguire. Mente ai suoi amici del Greenwich Village, non vuole che sappiano cosa fa per mestiere, perché non si fiderebbero più. Rimane intrappolato nel suo doppio ruolo di agente onesto e isolato, e di fricchettone “sotto copertura”. Quando gli chiedono di testimoniare davanti al Gran Giurì, si rifiuta perché non crede che l’inchiesta servirà a cambiare le cose, e perché (in fondo) non vuole esporsi ancora di più alle vendette dei colleghi. Alla fine cede e testimonia, viene trasferito più volte e più volte minacciato e blandito (dai colleghi e, più velatamente, dai superiori), fino alla sera del 3 febbraio 1971, il momento in cui inizia il racconto di Peter Maas. Durante un’irruzione uno spacciatore fa fuoco su Serpico, colpendolo al volto.
Frank finisce in ospedale, fra la vita e la morte. Ne uscirà dopo tre settimane, guarito (a parte la sordità a un orecchio) nel corpo ma spezzato nella volontà. Dopo qualche mese darà le dimissioni.

Nella bella postfazione, scritta di suo pugno nell’autunno del 1996 (a più di 20 anni dalla prima edizione del libro) Serpico racconta la sua vita da ex-poliziotto: i viaggi in Europa, il ritorno negli Usa per testimoniare al processo contro i suoi ex-colleghi corrotti, la solidarietà dei poliziotti di tutto il mondo, la consapevolezza che nelle persone c’è una forte resistenza al cambiamento e che l’esito della sua decennale lotta è stato pressoché fallimentare.

Se Serpico fosse un romanzo racconterebbe la frustrazione e l’isolamento di un uomo sempre più deluso e disilluso, sempre più chiuso in se stesso, più sfiduciato, che però non molla e tiene duro nonostante le forze contrarie lo spingano lontano dal suo sogno. Il romanzo di Frank Serpico avrebbe toni malinconici, quasi crepuscolari, adatti alla storia di un eroe sommerso e sconfitto, imbarcatosi per anni in una guerra che non poteva vincere e che alla fine lo ha costretto ad abbandonare il campo e a cercare altrove una ragione per vivere. Ma avrebbe anche i toni accesi dell’ira, dello sfogo rabbioso, forse dell’odio. Avrebbe la forza della convinzione e la debolezza della resa.

Ci sarebbero, nel romanzo di Serpico, la violenza della strada, della droga, del gioco d’azzardo; ci sarebbe il denaro dei criminali, la povertà dei tutori dell’ordine, l’azione e la riflessione, gli inseguimenti, le sparatorie, le puttane, i papponi, gli allibratori, i mafiosi, i tossici. Sarebbe un noir nel vero senso della parola, questo Serpico mai scritto, perché la storia di Frank ha i tratti essenziali del noir: non procede come un’indagine poliziesca, non conta sulla suspense, sull’intrigo o sui colpi di scena. Scorre lenta, ripetitiva, prevedibile, senza catarsi, senza redenzione o soluzione. È la storia, forse tragica, di una sconfitta, di una lotta impari del singolo contro il sistema, quasi un elenco di passi falsi e speranze malriposte.

È una storia che appassiona perché parla di iniquità, di conformismo, di miseria, delle scelte, dolorose, che di tanto in tanto, nella vita, è necessario fare, e degli errori a cui spesso queste scelte conducono. La scelta di Frank Serpico è quella di perseverare nella battaglia, finché un proiettile nel cranio non gli fa capire che tutto è stato vano e lui, protagonista di questo romanzo mai scritto, rinuncia e si ritira. Tutto quello che è venuto dopo: il film con Al Pacino, il serial televisivo, i discorsi nei college, la normalizzazione, non farebbero parte del romanzo. Serpico si concluderebbe con l’immagine del protagonista sul ponte del transatlantico che lo porta in Europa, lontano dal processo-farsa e dal campo di battaglia.