Se i protagonisti dei cicli polizieschi ambientati durante la seconda guerra mondiale e il dopoguerra ci offrono uno spaccato interessante della società di quel periodo, è pur vero che l’altro grande protagonista di questi romanzi è il conflitto stesso ed è interessante chiedersi quale rappresentazione ce ne offrano i giallisti italiani contemporanei.

La guerra presenta il suo volto più bestiale e cruento in diverse opere: abbiamo già citato i massacri del lucarelliano Guernica, colpiscono per la loro intensità le dure rappresentazioni delle rappresaglie degli uomini di Graziani in Etiopia descritte da Luciano Marrocu nell’ottimo Debrà Libanòs, ma è forse in L’uccisore di Eraldo Baldini che troviamo il suo volto più raccapricciante. La divisa nazista indossata offre al protagonista, il giovane Hermann Maag, il destro per seguire le sue inclinazioni sadiche e violente, esercitando una crudeltà senza limiti su uomini e animali che solo un contesto “malato” come quello nazista poteva invece considerare con favore, spingendoci ad una riflessione sul fatto che, a volte, gli stessi carnefici di Hitler potrebbero essere stati a loro volta delle vittime.

La guerra si rivela, dunque, terreno fertile per i predatori, anche se, più ancora della guerra, sono l'insicurezza, la solitudine e il disagio morale a favorire la metamorfosi di uomini comuni in spietati aguzzini.

Questa interpretazione si ritrova anche in Ombre di notte di Fabio Mongardi, un autore molto apprezzato in Germania, che descrive le vicende di una drammatica resa dei conti tra fratelli,  incorniciata dalle efferatezze della lotta tra partigiani di pianura e fascisti, mentre il sangue e l’odio appaiono sempre più come una maledizione atavica e inevitabile che grava sull’uomo di ogni tempo.

Hermann Maag, il serial killer di Baldini, oppure il sanguinario Nero di Mongardi potrebbero trovare un collega di tutto rispetto nel protagonista del sorprendente Il killer delle vedove di Pavel Kohout, ambientato a Praga e pubblicato recentemente da Fazi dove troviamo, durante gli ultimi mesi dell'occupazione nazista, un sadico assassino seriale che consuma la sua ossessione uccidendo vedove e mutilandone orribilmente i cadaveri. Le indagini vengono affidate al giovane e inesperto investigatore Morava, affiancato dall'agente della Gestapo Erwin Buback. In realtà per i nazisti il caso rappresenta solo un utile pretesto per riuscire a penetrare tra le file della polizia ceca, l'unica organizzazione armata ancora esistente nel Protettorato e capace quindi di colpire dall'interno gli occupanti. La fluidità degli eventi e l’insurrezione favoriranno sostanzialmente il gioco dell’omicida, capace di divenire addirittura il leader di un’ala estremista della Resistenza per poter operare più impunemente, sfruttando la confusione e la precarietà del momento storico, che paralizza l’azione dei due investigatori, per assecondare le proprie sanguinarie pulsioni di morte.

Abbiamo detto nella puntata precedente della guerra come ferita per le città: la Firenze di Gori, la Roma di Ben Pastor e di Augias sono scenari vividi, che portano la mente a recuperare e sentire nuovamente palpitanti immagini, suoni, volti di vecchi cinegiornali o di sgualcite fotografie in bianco e nero.

Così come grigia è la Torino dei primi giorni di guerra, tra oscuramento, bombardamenti, allarmi e coprifuoco, descritta con sapiente realismo da Corrado Farina in Il cielo sopra Torino, dove una tragedia d’amore giovanile si salda alla più grande tragedia delle discriminazioni razziali e del conflitto, per poi trovare una soluzione molti decenni dopo.

Assolutamente suggestiva è la Napoli che ci tratteggia Attilio Veraldi in Lo scicco, storia nerissima di un giovane che impara la dura e rischiosa arte di arrangiarsi nella Napoli dell’immediato dopoguerra, tra amlire, contrabbandieri, sciuscià, segnorine, militari alleati, capintesta della camorra e la varia umanità dei quartieri popolari partenopei. Veraldi si affida a una prosa colorita e pittoresca, intrisa di forme dialettali che contribuiscono a creare un taglio neorealistico di rara efficacia, capace di fotografare con i suoni e le parole l’essenza profonda della dura realtà che descrive.

Lo sperimentalismo linguistico caratterizza anche altri romanzi che si confrontano con storie legate alla guerra, ma radicate in un tessuto storico e sociale che si erge, in ultima analisi, a vero protagonista. Citiamo, per esempio, il romanzo di Gianfranco Miro Gori, Senza movente. Il libro di Miro tenta di ricostruire l’infuocato clima del dopoguerra emiliano, partendo dall’inchiesta sull'omicidio di una contadina; un assassinio che sembra presentare un intreccio di moventi: può essere stato un delitto d'onore, come uno strascico della guerra partigiana, oppure, addirittura, frutto delle due cause mescolate oscuramente assieme. I sospetti cadono sul marito, e a condurre le indagini ci sono - i due protagonisti del romanzo - il tenente Bastiani e il giudice Lombardi. Ma il protagonista vero - in assoluto - di questa prova letteraria è il linguaggio. Miro Gori tenta di restituirci l'amarezza di quei tempi attraverso un lessico sperimentale, di sua invenzione: una sorta di neo-lingua, in grado di rappresentare la quotidianità della vita romagnola, così come si appariva allora.
Faticosa, fredda e settaria. E' una lingua italiana poverissima di aggettivi, con innesti di dialetto e di termini presi dal linguaggio parlato di quei tempi o parzialmente inventati dall'autore, che trasforma continuamente l'idioma romagnolo in un italiano inedito.

 

La guerra è momento di scontro politico, ma anche etnico, e quindi di scelte dolorose e inappellabili, come ci testimoniano I misteri di Zara, vibrante e poco noto romanzo di Alessandro Moro, che ambienta una complessa e pericolosa indagine negli ultimi giorni di Zara italiana, descrivendo il dramma di una città bombardata dagli americani, circondata dai partigiani titini, impaurita e falcidiata anche da una serie di misteriose morti legate al commercio di rarità filateliche sulle quali deve fare luce il tenente dei Carabinieri Luciano Favaretto, il quale dovrà passare attraverso la riscoperta di sé stesso e la dolorosa rinuncia ad un amore intenso ma reso impossibile dalla differente appartenenza etnica. Efficace ricostruzione storica e ambientale, verve narrativa, originalità della vicenda poliziesca rendono il romanzo di Moro un libro interessante e  un’efficace testimonianza, priva di scoperte pregiudiziali ideologiche, di una pagina tragica e troppo a lungo rimossa dalla nostra memoria collettiva.

 

Il conflitto è anche l’esperienza centrale per una generazione che sotto le bombe si è formata, vivendo gli anni cruciali della propria crescita immersa in una tragedia di cui non sempre riusciva a cogliere l’enormità.

Ce ne parla molto bene, ad esempio, Bruno Muntoni nel suo Sotto il segno di Lyra, raffinatissimo giallo che unisce all’indagine sulla misteriosa morte di un giovane soldato tedesco anche l’attenzione per la dolorosa e faticosa maturazione di un gruppo di ragazzi sfollati nell’entroterra di Cagliari a causa dei bombardamenti.

Il 1944, anno che dà il titolo al romanzo di Vittoria Ronchey, risulta essere momento decisivo anche per le esistenze e i destini dei giovani protagonisti legati da oscure e a volte un po’ casuali vicende di sangue, collocate sullo sfondo di una Roma che passa dall’incubo della dominazione nazista ai nuovi aneliti politici ed esistenziali germogliati dalla ritrovata libertà, non senza che il peso degli errori e delle morti recenti esiga ancora il suo pesante tributo.

Pensione Eva, firmato da Andrea Camilleri, non è un giallo, ma è sicuramente un bel romanzo di formazione, ambientato in una casa di tolleranza a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, che si trasforma per i picciotti Nenè, Ciccio e Jacolino in un’autentica e fondamentale scuola di vita. Con la consueta ironia e l’abilità narrativa che gli sono proprie, l’autore siciliano ci restituisce una pagina di storia siciliana e nazionale, raccontandoci la partecipazione ad un conflitto assurdo per il quale eravamo impreparati materialmente e psicologicamente, come testimoniano le splendide pagine sull’arrivo degli Alleati, preceduti dai bombardamenti tutt’altro che intelligenti, contrastati da un esercito che non ha neppure divise per vestire le sue reclute, le quali, dal canto loro, di fronte a tanta disorganizzazione, pensano soprattutto a salvare la pelle: uno dei protagonisti infatti si chiede: 

 

“Era questa la sconfitta, la disfatta? Questo fui fui senza ordine, alla sanfasò, alla chi corre meglio arriva prima? E indove andava ‘sta corsa? Allo Stritto, a quella specie di tappo che avrebbe dato tempo all’aeroplani miricani d’ammazzarli a tutti?” (p.178)

E così vediamo i tre ragazzi racchiudere in sé come un tesoro prezioso il grande insegnamento di vita presente nei drammi collettivi e privati, nei momenti grotteschi, negli amori tragici e impossibili, nelle viltà, negli eroismi e nelle follie che la Storia ha proposto loro come a degli stupefatti spettatori.

C’è stato anche chi è si è abbeverato fino alla follia alla sorgente avvelenata della mistica fascista e Camilleri, memore forse dei propri entusiasmi giovanili, recupera i giovanili furori nel cupo La presa di Macallè, dove la morbosità e l’onnipervasività dell’azione di propaganda violenta e condiziona la crescita del giovane protagonista, rendendolo un disadattato e un criminale suo malgrado. Del resto, già nella raccolta Un anno con Montalbano, col racconto Un diario del ’43 era stata delineata una vicenda simile: un giovane avanguardista, non accettando l’invasione del suolo patrio, compie una strage che coinvolge militari americani e civili, e annientato dalle conseguenze del gesto si dà la morte. Due scritti significativi, che puntano il dito contro quelli che potrebbero essere definiti i “cattivi maestri” e contro gli indottrinamenti, letali almeno quanto la guerra stessa.

Ben altra visione ha della guerra e dello sbarco in Sicilia uno scrittore che è stato un vero e proprio caso editoriale sullo scorcio del 2005, vale a dire Pietrangelo Buttafuoco, autore di un thriller spionistico che offre, peraltro, diversi livelli di lettura: Le uova del drago.

Siamo di fronte, infatti, a un romanzo quasi provocatoriamente revisionista, che rovescia i consolidati luoghi comuni sulla guerra e sullo sbarco in Sicilia in particolare. Ne è protagonista Eughenia Lenbach, straordinaria agente dell’Abwehr che, coadiuvata da un eccezionale manipolo di combattenti arabi fedeli al Gran Muftì e da alcuni intrepidi fascisti locali, dà filo da torcere alle autorità di occupazione anglo-americane, esponendole non di rado a smacchi brucianti. Viene qui rovesciato lo stereotipo dell’americano liberatore, se ne denunciano i massacri, la complicità con la mafia, le mire egemoniche sulle fonti energetiche potenzialmente presenti sull’isola, il tutto condito con un linguaggio splendidamente barocco, che riecheggia i poemi epici cavallereschi e le tenzoni dei pupi. Non è un caso che i protagonisti portino nomi gloriosi come Orlando (che qui fa il doppio o triplogiochista, ma è comunque prode e valoroso), Rinaldo (il paladino dei tempi nuovi), Carlo Magno (è diventato un avvocato), Ferraù (è un prete), Bradimante e Agramante. C’è persino un generale americano che si chiama Durindan, e poi, naturalmente c’è la bella donzella amata da molti ma soprattutto da Orlando, Angelica La Bella. Ci sono armi da fuoco invece che lance e spade, ma focosi destrieri sono montati dai musulmani travestiti da frati cappuccini in un incredibile sincretismo religioso e non mancano riferimenti a personaggi reali (dal Professor Pio Filippani Ronconi al comico Franco Franchi), ma soprattutto si citano grandi misteri come il caso Mattei e l’affaire Majorana. Un libro senza mezze misure, premiato da un notevole successo di pubblico e dall’attenzione della critica, molto divisa sulla valutazione di quest’opera controversa, ma indubbiamente di grande presa.