Prodotto da Andy Lau e vincitore di un’incetta di premi all’edizione del 1998 dell’Hong Kong Film Award (regia, miglior film dell’anno, miglior attore esordiente per Sam Lee), inserito inoltre fra i 100 migliori film cinesi di tutti i tempi e vincitore del FIPRESCI Award al Pusan Festival del 1997, il più importante festival cinematografico della Corea del Sud,  Made in Hong Kong di Fruit Chan è, insieme a Expect the Unexpected, uno dei film–simbolo del clima apocalittico che accompagnò un evento traumatico come quello della restituzione dell’isola alla Cina nel 1997, dopo più di ottant’anni di dominazione britannica. Pervaso da un simbolismo claustrofobico e da un’estetica nichilista, il film di Chan è una gemma da recuperare assolutamente per la dolente poesia funerea da cui è permeata e per la visione personalissima ed insieme universale che l’autore dona sulla morte e sulla vita. Incentrata sulla figura di un perdente, l’adolescente Metà Agosto, (Sam Lee), un balordo abbandonato prima dal padre e poi dalla madre, la pellicola segue l’evoluzione del personaggio nella sua personale ricerca del senso della vita e della catarsi, accompagnato dal suo protetto, l’autistico Jacky (Li Tung-chuen) e dall’amica affetta da una grave malattia Ah Ping (Yim Hui-chi), conosciuta per caso durante un “turno di lavoro” con il capo usuraio mentre cercavano di riscuotere il pizzo dalla madre della ragazza.

Metà–Agosto ha lasciato la scuola a 14 anni, viene seguito ogni tanto da un’assistente sociale e si barcamena con lavoretti saltuari per bande mafiose con furti, pestaggi e riscossioni varie di debiti. Un giorno, Metà–Agosto s’imbatte nel cadavere di una ragazza suicida, Hui Boshan, che ha lasciato una lettera al fidanzato e ai genitori. Il fantasma della ragazza, come in ogni tradizione cinese che si rispetti, sembra entrare nella vita di Metà–Agosto donandole nuovo senso, arrivando a fargli percepire la presenza costante della morte nei pensieri e nelle immagini di tutti i giorni, nella lotta costante con la sopravvivenza che sembra farsi ogni giorno più dura e più assurda, sgretolandosi come nuvole di fumo al passaggio del tempo. Finché la morte non diventa l’unica e ultima opzione, in un mondo che strappa gli affetti dal proprio corpo e dalla propria visuale.

Chiudendosi con un celebre discorso pieno di speranze del Grande Timoniere Mao Tze Dong, i cui contenuti sono ribaltati dal paesaggio circostante, Made in Hong Kong rappresenta al contempo un tentativo riuscitissimo di donare corpo e visione all’ansia dovuta alla restituzione dell’isola alla Cina e la grande prova autoriale di un regista caratterizzato da un gusto spiccato per lo sperimentalismo, la visionarietà e il mantenersi indipendente. In ossequio a una simbologia universale ma non per questo scontata, il film è permeato da immagini di ringhiere rosse (allusione al colore della bandiera della Repubblica Popolare Cinese), sbarre alle porte e alle finestre, inferriate che ritornano in maniera ossessiva perfino su una camicia a righe, che avanza nello schermo fino a riempirlo completamente. Attraverso gli occhi di Chan e del suo personaggio perduto e perdente, la classica veduta su Hong Kong dall’apertura di una finestra non è più immagine caleidoscopica fatta di specchi che rimanda a chi osserva l’elusivo fascino enigmatico dell’acqua e del vetro riflesso nell’acqua, bensì un reticolo di grattacieli che imprigiona lo sguardo, serrandolo nella morsa implacabile di una città senza futuro, colta in un momento in cui “tutti sono prossimi alla fine”. Come senza futuro è Metà–Agosto, perso in una parabola discendente che precipita in maniera ben più vertiginosa del tragitto che il Peak Tram (da cui fugge dopo un lavoro finito male) compie dalla zona collinare e residenziale dell’isola, simbolo di denaro e opulenza individualista, a quella commerciale e per questo “anonima” di Sheung Wan e Central. Ma quella che Chan ci presenta è anche una Hong Kong fatta di violenza soprattutto giovanile, dove i figli uccidono o seviziano i padri, e gli studenti, con le loro divise candide, torturano e accoltellano i più indifesi per soldi o per capriccio, senza un vero perché che dia senso all’esistenza, fatta di caos e colori chiassosi, di fronte alla quale soltanto la calma plumbea di un cimitero può donare conforto e rifugio per essere finalmente immuni dal frastuono che imprigiona e consuma.

Vedere anche recensione a Expect the Unexpected