Si rimane perplessi di fronte a La bestia romanzo dell’ennesimo scrittore svedese (questa volta in verità una coppia con all’attivo un paio di noir).

Va bene che siamo abituati, dai tempi della prima apparizione dei romanzi di Henning Mankell, ad aspettarci dettagliate analisi della società svedese, un tempo felice e ora assediata da mali oscuri che le altre società del mondo occidentale hanno imparato a conoscere: violenza metropolitana, razzismo, problemi migratori, crimini telematici e pedopornografia; va bene che un noir svedese spesso è un trattato di sociologia che sfrutta l’appeal dell’intreccio romanzesco per meglio veicolare le idee dell’autore sulla società contemporanea; e possiamo anche capire che il background culturale, in senso lato, di Anders Roslund & Börge Hellström (giornalista di successo il primo ed ex detenuto, anch’egli di successo, il secondo, convertitosi al recupero dei suoi ex compagni) li spinga a usare il miele del noir per farci ingoiare l’amara medicina delle loro verità.

Però c’è più di un elemento che non quadra.

Cominciamo dalla storiaccia di un pedofilo serial killer, Bernt Lund, le cui prodezze sono narrate con dovizia di efferati particolari: ci può stare che il pugno nello stomaco del lettore serva a risvegliare i suoi anticorpi, ma rimane il fondato sospetto che una certa morbosità di fondo sia in gran parte gratuita, visto che la vicenda di Lund ha termine poco dopo la metà del romanzo.

E che dire di Lennart Oscarsson, guardia penitenziaria, straziato sul piano professionale per la fuga di Lund che porterà al massacro di una bimba e su quello privato per la passione che nutre, contemporaneamente, per l’affascinante moglie e per un suo altrettanto affascinante collega? Visto che il suo personaggio poi si perde nei meandri della vicenda, anche qui l’insistenza su questa ambigua bisessualità sembra un po’ sospetta.

E come spiegare l’improvviso calo di tensione narrativa nella seconda parte del romanzo quando i protagonisti sembrano marionette senza troppa profondità psicologica costrette a discutere se in questi casi debba prevalere la legge dello stato o quella del privato?

Per larga parte della storia (una sorta di astuto romanzo a tesi che, modernamente, si guarda bene dall’esprimere una morale esplicita) si ha l’impressione che ogni personaggio abbia da un lato un ruolo preciso nell’intreccio, come nei romanzi a incastro della mai troppo rimpianta Agatha Christie, dall’altro un cono d’ombra, che risale a traumi infantili e/o a esperienze adulte, che in qualche modo giustifica le sue azioni.

Il pedofilo Lund è ributtante, ma anche lui ha subito violenze da piccolo; lo scrittore Fredrik Steffansson, che si trasformerà in un acclamato giustiziere, ha un’infanzia segnata dalle botte del severissimo padre e dalla morte del fratello; Stig “Dickybird” Lindgren, più avvezzo al carcere che alla vita normale, è ferocissimo contro i pedofili (fino al tragico fraintendimento nel finale) ma anche lui è stato violentato da piccolo e ha una figlia là fuori, potenziale preda dei maniaci.

I due investigatori, l’esperto Ewert Grens – duro, cinico, solo, ma innamorato di una sdolcinata cantante degli anni Sessanta, gli anni dell’innocenza – e il più giovane Sven Sundkvist, debbono rispettare e far rispettare la legge, ma non si nascondono che talvolta questa loro attività ha poco a che fare con la giustizia.

Il giustiziere in sedicesimo Bengt Söderlund, appare più vittima dell’angustia mentale di una cittadina di provincia come Tallbacka, che di una nietzscheana volontà di potenza; mentre l’unico che dovrebbe impersonare la serena interpretazione della legge, il pubblico ministero Lars Ågestam, finisce per essere ridicolizzato dagli stessi autori come un manichino pieno di sé, di pregiudizi e infine di paura.

In ogni caso, superata la seconda parte ampiamente didascalica, il romanzo termina con un’improvvisa piroetta che funge da apologo amaro della vicenda: come a dire che violenza cieca chiama violenza cieca senza che nessuno, proprio nessuno, si salvi.

Lungi da noi invocare finali consolatori ormai inaccettabili persino nei classici: ma questa dura volontà degli autori di vedere tutto nero (quantunque prudentemente giustificata in una postfazione, che sa molto di mettere le mani avanti), di denunciare il marcio del sistema senza suggerirne soluzioni, di spogliare ogni eroe (vero o presunto) della fulgida armatura garantita dalla sua letterarietà, sa molto di abile scelta narrativa: con la scusa di dettare un impietoso referto sulla società svedese, imboccano infatti la narrativa di genere strizzando contemporaneamente l’occhio a psicologi, assistenti sociali e sociologi in servizio permanente effettivo.

Troppa carne al fuoco dunque, magari giustificata (nel caso di Hellström) dalla sua nuova missione. Ma alla fine più che pensare alle macerie che ci circondano (come avrebbe dovuto indurci a fare un buon romanzo non consolatorio) ci sorprendiamo a pensare a quali capriole di marketing si siano inventati autori, editor ed editore.

Per stavolta allora dovremo proprio sospendere il giudizio.

 

Voto: n.c.