Per il suo ritorno alla regia dopo sei anni di silenzio, Giuseppe Tornatore ha scelto il noir, genere evidentemente da lui ritenuto il più adeguato per raccontare una storia, che trae ispirazione da un fatto di cronaca avvenuto alcuni anni fa. Ma, La sconosciuta non è un film di denuncia, come Il camorrista, opera prima del regista di Bagheria. Fin dall’inizio non traspare alcun intento moralistico, alcuna volontà di indagare tra le pieghe di un Nord-Est, dove tutto si vende e si compra. Tornatore mira a mettere in scena una vicenda di forti passioni, di solitudine, di maternità, rimorsi e rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.

La sconosciuta del titolo è Irena, una trentenne ucraina, fortemente determinata a chiudere i propri conti col passato. Grazie all’aiuto di un portinaio, la donna trova lavoro come addetta alle pulizie in un palazzo di fronte al quale è andata ad abitare. La vediamo lustrare con dedizione le scale a chiocciola, attenta in particolare al tran tran familiare degli Adacher, una coppia, non proprio felice, di orafi. I due hanno una figlioletta, Tea, affetta da una cronica incapacità di difendersi. Pur di lavorare da loro, Irena conquista la fiducia della vecchia domestica Gina per poi prenderne il posto, conquistandosi ben presto la fiducia dei coniugi e, soprattutto, quella della piccola. Sembra cominciare a trovar pace dalle mitragliate di flashback che continuamente la travolgono (e noi con lei), ma ecco che si ripresenta il male, che ha deciso del suo passato e che ha le sembianze dello spaventoso aguzzino, del tutto implume, Muffa...

La storia, dunque, si snoda su due piani temporali, presente e passato, attraverso un abile montaggio analogico e una strategia narrativa caratterizzata dalla rielaborazione di quei topoi peculiari del cinema di genere italiano degli anni Settanta, quali una colonna sonora (di Ennio Morricone) ossessiva e ostentata, sempre pronta a sottolineare i momenti di climax, e una certa compiacenza per la messa in scena di momenti "forti", che si succedono molto rapidamente per accumulazione, uno di seguito all'altro. Si pensi alla sequenza iniziale con la parata delle giovani coperte solo da una maschera, che sfilano davanti a un osservatore nascosto; o a Irena, che scava a mani nude in una immensa discarica a cielo aperto; ai due uomini mascherati da Babbo Natale, che la pestano selvaggiamente nella notte mentre cade morbida la neve; alla vecchia domestica che viene fatta rotolare lungo uno scalone a spirale, giù, giù, senza fine, fino alla pozza di sangue finale; alla bambina legata come un salame con dei foulard colorati e costretta a cadere più e più volte, sul letto e poi sul pavimento, fino a farsi male, perché impari a reagire, a usare i riflessi assopiti, a lottare e difendersi; alle forbici assassine; ai selvaggi stupri di gruppo; alle sevizie di ogni tipo; al parto avventuroso in un locale buio, sporco e desolato, mentre all’esterno un gruppo di giovinastri balla e si ubriaca sulle note di una musica tecno. Nulla viene risparmiato all’immaginazione dello spettatore. Tornatore non rinuncia al dettaglio macabro, all’effettone, all’urlo, forte dell’idea del regista, che può disporre a piacimento, anche con punte di notevole sadismo (alla Lars von Trier), dei suoi personaggi, facendo fare o subire loro ogni cosa. E in questo senso è emblematico il personaggio di Muffa, un supercattivo da fumetto, che non muore mai, ruolo che consente a un Michele Placido in versione Lex Luthor di gigioneggiare alla grande.

Analogamente, il regista si lascia sedurre anche dai mille rivoli del plot, da lui scritto, ignorando quella regola aurea che attribuisce pari importanza al detto e al non detto. E la cosa che lo costringe ad un lungo e complesso epilogo, in cui vengono tirate tutte le fila del racconto.

Tuttavia, non si può non riconoscere all'autore di Nuovo cinema Paradiso quella perfetta conoscenza dei tempi e dei modi cinematografici, che lo ha portato ad essere uno dei pochi registi italiani in grado di muoversi in un orizzonte di attesa di tipo internazionale. Così come non può non essere sottolineata la grande qualità del cast – Favino, Gerini, Placido, Degli Esposti, Buy, Molina – capace di ruotare con grande understatement, senza eccedere in protagonismi (con l'eccezione del personaggio di Placido, concepito proprio per essere sopra le righe), intorno alla straordinaria attrice protagonista, Ksenia Rappoport, interprete russa di scuola teatrale, presente pressoché in ogni inquadratura del film.

Vito Santoro

Deludente, nonostante l’accompagnamento in pompa magna e la vetrina romana, La sconosciuta, che segna il ritorno al cinema di Giuseppe Tornatore a sei anni da Malèna. Forse perché reduce da una lunga pausa e con la voglia di lasciare il segno, Tornatore va giù duro, abolisce le mezze misure, sceglie i toni forti: la denuncia sociale (lo sfruttamento di giovani donne dell’Est costrette a prostituirsi), la non banalità del Male (la performance di Placido), il desiderio di maternità nella sua dimensione non negoziabile.

Il risultato però delude, e parecchio.

La denuncia sociale va bene, ma il tutto si ferma all’ultimo anello della catena, la strada (e prima?). Il Male, incarnato da Placido/Muffa (il riferimento perlomeno a livello di sembianze è Kurtz/Brando e al posto del Vietnam c’è Trieste…), non è mai stato così sopra le righe, finendo con l’assumere i contorni della macchietta. La maternità, il vero motore della vicenda, cercata a tutti i costi ed esposta a fraintendimenti proprio perché non negoziabile, forse è l’unica cosa che funziona, seppure sempre in procinto di scivolare nel lacrimoso. Della storia si intuisce che era stata pensata come un coup de théâtre infinito, ma sbraca subito per la sovrabbondanza delle informazioni spiattellate, colpa di una scelta di montaggio che sistematicamente procede a raccordare il presente col passato attraverso una miriade di flash-back che spiegano di continuo l’oggi con lo ieri: uno sguardo, un luogo, un rumore, un cibo un particolare, tutto è ricondotto alla sua fonte originaria, come in una seduta psicoanalitica da manuale (che in quanto tale esiste solo e soltanto sui manuali…).

Infine, come già notato dal collega Vito Santoro, alcune scene appaiono più che sgradevoli per via di uno smaccato compiacimento che le attraversa (la protagonista martirizzata da due Babbo Natale, la ragazzina legata, sbattuta per terra, fatta rialzare, sbattuta di nuovo a terra…).

Forse a Tornatore si addice di più il racconto ad ampio respiro, la vita sospesa di un cinema, il viaggio di una nave o quello che verrà di una città che si chiamava Stalingrado.

Sergio Gualandi