Impossibile davvero collocare questa terza missione in una qualunque parte di un qualunque immaginario non fosse quello delle cose già viste. A determinare ciò almeno due elementi: il primo è la mancanza di un anima portante del film (ma va detto, il film stesso non dà mai la sensazione di volerne cercare una…), mentre il secondo, strettamente connesso al primo, e la mancanza di un idea, anch’essa portante di cinema, cosa inevitabile d’altronde quando si passa da due stili di regia riconoscibilissimi, quello di De Palma, un virtuoso della cinepresa e del piano sequenza, nel primo episodio, e quello di John Woo, un maestro dell’heroic bloodshed, delle coreografie, dei ralenti (Hunt che scalcia la pistola semisommersa nella sabbia, la pistola che inizia a salire, Hunt che la ghermisce si volta e spara al villain, il tutto in ralenti…), nel secondo, ad un’altro, quello di J. J. Abrams (Lost e Alias), nella migliori delle ipotesi troppo piatto per dire alcunché (un Michael Bay, discutibile per più di qualche verso, ci avrebbe di sicuro messo qualcosa di più…).

Anche la storia, che in tutte le interviste è stata spacciata come più attenta al lato psicologico, mostra tutta la sua pochezza, troppo concentrata com’è sul canovaccio “fanciulla in pericolo”, tema archetipico quanto si vuole, ma che riproposto tale e quale lungo tutto il film risulta alla lunga stucchevole.

Cosa rimane da segnalare di questo Mission: Impossibile 3? Un Tom Cruise alias Ethan proteso al massimo consumo calorico tramite corse a perdifiato, e una resurrezione, che magari in ideale classifica di resurrezione cinematografiche sarà da qualche zuzzurellone ricordata assieme alle due più celebri (per inciso quella di Ordette nel film omonimo di Dreyer e quella altrettanto bella di Mary Elizabeth Mastrantonio in The Abyss di James Cameron).