Cosa si nasconde dietro l’inscenato suicidio di Brian Slade (Jonathan Rhys Meyers), star-emblema del glam rock anni ‘60-‘70 di cui si sono ormai perse le tracce? A questo e ad altri misteri cerca di far luce Arthur Stuart (Christian Bale), giornalista inglese di Manchester che viaggerà fra Londra e gli Stati Uniti per intervistare le persone che conoscevano bene la star scomparsa, fra cui il collega e amante Kurt Wilde (Ewan Mac Gregor), riuscendo forse a far riemergere il passato dall’oblio. Velvet Goldmine - il cui titolo allude a una celebre b-side di David Bowie, che purtroppo non ha dato il suo consenso per l’utilizzo del brano nella colonna sonora - imbastisce un’indagine giornalistica per renderla lo sfondo ideale della ricostruzione di un’epoca, irripetibile nel suo mescolare le carte della musica anglosassone con quei giochi apparentemente innocui di ambiguità sessuale, lustrini e paillette, che viceversa s’imprimeranno per sempre nella memoria di molti, a cominciare da Arthur (probabile alterego del regista) per il quale quella stagione musicale si trasformò presto in un preludio alla libertà sessuale e alla scoperta di sé.

Meravigliosamente colorato e pienissimo di sequenze da videoclip sugli hit di Brian Slade - un grandioso Jonathan Rhys Meyers che esegue impeccabilmente le cover di molti brani famosi dell’epoca glam - e contornato da episodi magici come l’infanzia di Brian, novello Oscar Wilde in erba, o dalle esecuzioni ruvide delle canzoni di Kurt Wilde, un Ewan Mac Gregor davvero strepitoso, il film sicuramente perde molto della sua sfavillante bellezza rivisto sul piccolo schermo. In compenso, una più attenta visione, scevra da ogni probabile ubriacatura musicale, rivela una scelta politica molto consapevole. Innanzitutto da parte della produzione - la Single Cell del cantante Michael Stipe - che, optando per un regista dichiaratamente gay come Todd Heynes, ha voluto dare un’impronta d’autore ben lontana dalla frivolezza apparente che la materia potrebbe in sé suggerire. Ma soprattutto, è Todd Haynes stesso a compiere una scelta politica consapevole, facendo emergere il film, al di là delle canzoni eseguite a ritmo frenetico, come una visione personalissima del legame fra due rock star vere e presunte - Slade e Wilde, così simili a David Bowie e Iggy Pop - e nello stesso tempo come una rivendicazione dell’anima più autenticamente gay di un fenomeno come il glam, opportunamente ricondotto sui binari della facile ambiguità sessuale da molti dei suoi protagonisti, David Bowie in primis. Così, di fronte alle dichiarazione frequenti del Duca Bianco, che liquida i suoi anni ’70 come epoca dedita a “tanto shopping”, e minimizza le sue incursioni sulla bisessualità come strategie di travestitismo contro la noia, ben vengano le visioni di Haynes, con le due rock star che giocano sperdute a Ken e Big Jim imprigionati nei propri sogni d’amore, o con le brevi, luminose intensità di un incontro consumato tra il fan-giornalista e il suo idolo di sempre su un tetto di mattoni rossi. L’idea di affiancare la vicenda principale con quella parallela di Arthur, giovane che si scopre gay proprio nell’atto di consumare la musica dei suoi cantanti preferiti, non fa che amplificare la rivendicazione di autenticità del regista, tanto più che le sequenze fra Arthur e Kurt sono le più intense del film. Da non perdere.

Extra

Trailer originale, Speciale Velvet Goldmine, Note di produzione, Cast e filmografie.