Leggo – La vita della gente non è un granché, di solito...

Alzo gli occhi dal libro e quello che vedo conferma quanto inchiostrato sulla carta: un vagone di un treno regionale, senza scompartimenti, con la gente ammassata dentro, pendolari perlopiù, stressati, insoddisfatti, depressi, nella migliore delle ipotesi, rincoglioniti.

Di fronte a me siede Franco Limardi, l’autore di Anche una sola lacrima, il libro da cui ho tratto quella frase. Ha il sorrisino beffardo di chi riconosce la paternità di una citazione e di chi, forse, ha centrato una piccola verità. 

La vita della gente non è un granché, di solito...

- La vita della gente è una merda, di solito. Come la mia. – Interviene il tipo che mi è seduto accanto, completo gessato economico e occhiaie profonde – Mi presento: Mario Rossi, e non sto scherzando, proprio come la persona comune delle pubblicità, agente assicurativo in nero, cerco di appioppare al prossimo polizze inutili, per lo più ideate per calzare a pennello paranoie vacue, tipo assicurare il proprio pitbull in vista di risarcimenti a famiglie con bambini sbranati per strada... Vendo il nulla a caro prezzo, ne ricavo una miseria, quanto basta per riempire la pancia agli esseri infelici che mi vagano per casa, che poi sarebbero la mia famiglia. La vita della gente è una merda, di solito. Piacere.

E porge la mano a entrambi. Noi la stringiamo a turno, in faccia l’espressione stupita dopo l’ascolto dello sfogo di un tipo che, da quando era salito tre stazioni fa, non aveva detto alcuna parola. Di fronte a lui, e accanto a Franco, siede la moglie, che dice di chiamarsi Maria: una donna bella, ancora giovane, ma precocemente sulla via del disfacimento, basta guardarle le mani e gli occhi sfibrati dal lavoro.

- Scusate – dice Mario Rossi – vado a suicidarmi in bagno.

Sorride e scompare dietro la porta dello scorrevole del vagone.

* * *

Sto accompagnando Franco a una presentazione del romanzo in una libreria e ne approfitto per fargli un’intervista. La macchina ha deciso di andare in prepensionamento, ecco il perché del treno. 

Mario Rossi, l’uomo comune, sembra essere d’accordo con Lorenzo Madralta, il protagonista del tuo ultimo romanzo, che a proposito della vita dice: “Io so cosa intendo per vivere; si tratta di non aspettarsi nulla di straordinario, di avere coscienza di ciò che si è e di cosa si possa fare, ma che comunque, tra ciò che si sogna e ciò che accade, c’è sempre la realtà a farti abbassare le penne”. Quanti Lorenzi Madralta girano per il mondo, secondo te? Tanti? Oppure coviamo tutti un piccolo Lorenzo dentro di noi?

Madralta è un “carattere” che porta certe considerazioni al loro grado estremo, forse parossistico, ma credo che la sua visione della vita contenga una piccola verità; la fine delle illusioni, la constatazione amara della realtà della vita, fa parte dell’esperienza di tutti noi, o quasi, soprattutto al raggiungimento di una età che spinge ai primi bilanci.

Intanto ci fermiamo in una stazione di cui non si riesce a leggere il nome sui cartelli. S’è messo a piovere forte, e le gocce che scorrono sul finestrino piegano e distorcono il mondo che sta fuori, la stazione, la gente infreddolita che aspetta l’arrivo di un treno. 

Il nostro vagone si riempie come un uovo. Si intravedono, mentre cercano di spartirsi lo spazio, le tette spropositate di una ragazza, la faccia incazzata, presumo, del ragazzo e un paio di punkabestia, ragazzi mezzi addormentanti o reduci da una sbronza; stanno tutti dietro la porta del vagone, vicino al bagno dove Mario Rossi, il nostro Pinco Pallino disgraziato, magari si sta fumando una sigaretta clandestina seduto sul cesso.

I giovani: fai il professore in un istituto superiore, quindi ci sei a contatto tutti i giorni. Fanno capolino anche nel tuo ultimo romanzo, fancazzisti o catalizzatori naturali di sogni, pronti alla fuga, come Laura, la ragazza che fa perdere la testa a Madralta. Come li vedi, tu, questi giovani d’oggi? Che gioventù finisce tra le tue righe?

E’ anche quella che incontro quotidianamente; i miei sono degli studenti di un istituto tecnico industriale, gente quindi molto “pratica”; pochi di loro hanno sogni da inseguire che non siano la realizzazione immediata, i soldi in tasca per divertirsi. I giovani universitari del romanzo, anche Laura, appartengono a un altro tipo di “osservazione”, quella che faccio fuori dal mio ambito lavorativo, il mio “vagabondare” in mezzo alla gente.

Curiosità: i tuoi alunni hanno letto il romanzo? Se sì, che ne pensano? Avere un prof. che scrive noir non è una cosa comune...

I miei alunni ignorano l’esistenza del mio romanzo… a dire il vero ignorano l’esistenza di tanti altri romanzi molto più importanti. Poi ho una specie di pudore che mi impedisce di parlare con loro del mio scrivere, ho sempre il timore che si sentano in obbligo di leggere le mie cose per dovere… insomma non mi piace esercitare una possibile forma di “potere”.

La scuola italiana, per diversi motivi, galleggia nel torbido. A quale autore noir commissioneresti un romanzo per raccontarla? Scomoda anche i morti, se vuoi.

Noir significa, secondo me, anche emozioni forti, passioni, cose in grado di spingerti in situazioni lontane dalla vita quotidiana, comune. Nella scuola c’è più una dimensione da commedia, intesa nel senso retorico del termine; situazioni ora serie, talvolta drammatiche, ma anche farsesche se non addirittura comiche. La scuola l’ha descritta benissimo Starnone…forse le persone che animano la scuola potrebbero essere dei buoni personaggi, ma estratti dal contesto.

La signora Rossi scolla gli occhi dal finestrino, guarda prima l’orologio al polso, poi la porta in fondo. Ci rivolge un’espressione infastidita, sullo schifo andante, non si sa se per i nostri discorsi, i punkabestia, il ritardo del marito o le tette della ragazza. Poi si alza e dice – vado a vedere che combina quel maiale di mio marito.

Evidentemente, è il davanzale popputo a preoccuparla.

Mi scappa un sorrisino, che Franco ricambia velocemente.

Torniamo alla nostra intervista.

Giancarlo De Cataldo, scrivendo di Anche una sola lacrima, cita il noir americano anni ’50, soprattutto David Goodis e, riguardo alla “sociopatia del protagonista”, il film di Sorrentino, Le conseguenze dell’amore. Confermi e sottoscrivi? Ci sono altre influenze, come dire, sotterranee, non immediatamente manifeste?

Non confermo, perché sarebbe una botta di superbia insopportabile. Sono stato molto lusingato dalle parole di De Cataldo e anche dagli altri accostamenti che sono stati fatti per il romanzo con altri grandi autori del genere; il film di Sorrentino mi è piaciuto molto e si… il suo protagonista potrebbe essere il fratello maggiore di Madralta. Per quanto riguarda le influenze… ci sono molti autori di cui subisco il fascino, Manchette, Malet, Hammett, Chandler, Woolrich, ma anche Durrenmatt, e poi “gente” che non c’entra col noir Mishima, Celine, Camus e forse è meglio che mi fermi qui. C’è poi la mia passione per il cinema, per la narrazione cinematografica, per cui dovrei citare molti registi e uno l’ho ringraziato nel libro, Takeshi Kitano.

Intanto è tornata la signora Rossi, sistema il vestito gualcito e si siede al suo posto. Guarda per qualche istante fuori del finestrino, incrocia i nostri sguardi. I suoi muscoli facciali sono tutti un tremore, a metà tra il conato di vomito e la crisi di pianto.

Io e Franco restiamo a fissarla.

Lei improvvisamente ritorna impassibile e dice – È morto, in bagno.

* * *

Andiamo immediatamente a vedere.

La coppia di fidanzati e i punkabestia sono ancora là, troppo stonati o presi dai loro pensieri per accorgersi che del sangue scuro e denso sta uscendo dalla porta socchiusa del bagno ed è a un passo dai loro piedini.

Ci facciamo largo ed entriamo.

In sequenza:

Io - Oh...

Franco –... merda.

I punkabestia, in coro – Fiiigo! 

La ragazza – Che schifo!

Mario Rossi è per terra, tutto schiacciato contro l’angolo opposto al cesso. L’aria puzza di cordite, piscio e sangue. 

Dico - Lo hanno sparato, a giudicare dagli schizzi di sangue che ha sulla faccia, tra il collo e la clavicola.

Franco si gratta la capoccia e osserva – Noi però non abbiamo sentito nessuno sparo.

Interviene un punkabestia – A bello, da quarche annetto hanno inventato un gingillo che risponde ar nome de si-le-zia-to-re!

- Avete visto uscire qualcuno dal bagno?

- Sì – risponde l’altro, tutto preso ad ammirare un caccola appena estratta – n’ometto piccolo piccolo e scuro scuro. C’aveva n’paio de baffi che me pareva un tricheco. 

- Seh, Maurizio Costanzo. E non ti sembrato per niente strano, eh?

- Io me faccio li cazzi mia, non me interessano i gusti sessuali de li artri. Omini co’ omini, donne co’ donne: che me fotte a me?

- Da che parte è andato?

- Da quella parte – dice sventolando il dito in corrispondenza del corridoio opposto al vagone dov’eravamo seduti.

Gli raccomandiamo di non toccare nulla e li lasciamo - la ragazza che vomita sulle scalette del vagone, il ragazzo che le sorregge la fronte e il culo, i due punkabestia che ridono e si scaccolano allegramente – per andare in cerca del nostro assassino.

Franco, muoiono anche gli uomini comuni, è morto pure Mario Rossi, l’uomo comune per eccellenza, assieme al signor Bianchi, ovviamente. Sembra però che per la televisione non sia così, lì la morte è uno spettacolo, un varietà morboso. Pensi che negli ultimi anni

la TV abbia cambiato anche l’immaginario degli scrittori?

La televisione, se consideriamo i suoi “specifici”, cioè i programmi prodotti appositamente e non i film o ciò che essa prende da altre forme d’espressione non ha una grossa capacità di suggestione, almeno nei miei confronti. I modelli, i “tipi” proposti sono invece spaventosamente stimolanti e dico spaventosamente nel senso più diretto del termine.

Attraversare un treno locale alla sera equivale a farsi una bella gita sociologica tra la popolazione. Una gita incompleta però, i nuovi ricchi non prendono il treno. I nuovi poveri invece ce li abbiamo davanti: gente che si riempie comunque lo stomaco è vero, ma per i quali la fine del mese è thrilling tra l’accattare uno stipendio e spararselo nell’affitto.

In corridoio vedo un uomo “basso basso” tutto chino su una valigia. Lo prendo per le spalle e lo scaravento contro il finestrino. Non ha i baffoni da tricheco, solo la barba incolta e una faccia che dire incazzata è dire poco. 

Brandisce un salame a mo’ di clava, tra gli sputacchi, mi urla in faccia – M’ha cacatu u’cazzu, m’ha cacatu. Mannaja alla colonna!

Ho interrotto un lavoratore emigrato in piena preparazione di un panino. Con la coda tra le gambe, chiedo scusa e proseguo assieme a Franco nella ricerca dell’omicida baffuto.

Nel tuo romanzo è presente il topos della fuga da una vita mediocre. Pensa alla voglia di scappare di alcuni dei tuoi personaggi e alla fuga di migliaia di uomini e donne dai loro paesi d’origine; questi ultimi scappano per fame e disperazione, i primi, invece, perché scappano? Per la noia borghese di moraviana memoria o c’è dell’altro?  

Potrebbe sembrare irriverente accostare i drammi generati dalla necessità, dalla miseria, con il desiderio di una vita diversa da parte di chi non ha problemi a mettere insieme i pasti della giornata, tuttavia il malessere esistenziale è una realtà, quella sensazione di vuoto che galleggia nelle nostre vite e che sembra non riuscire a riempirsi di niente… i miei personaggi non hanno ancore a cui aggrapparsi, convinzioni, fedi o altre visioni totalizzanti della vita, così sono costretti a fare i conti con questo “fastidio allo stomaco” a cui provano a dare risposte… magari estreme, come Madralta.

Bum!

Una botta improvvisa che fa sobbalzare il treno. Io e Franco ci guardiamo perplessi. Di questi tempi, con la paranoia del terrorismo che c’è in giro e coi precedenti di attentati ai treni che abbiamo in Italia c’è poco da stare tranquilli e infatti...

Infatti veniamo sbalzati in avanti. Rotoliamo per il corridoio uno sull’altro, travolgiamo gente in un domino terribile. E la paura è veramente tanta. Troppa.

Siamo fermi. Stranamente in giro non vedo né fumo né gente dilaniata. Per fortuna. Sento solo una panzona di centocinquanta chili più in avanti che urla – A’ cojone, a’ trucido! Ma che cazzo te tiri il freno d’emergenza?! 

L’opera vivente di Botero si alza. Sotto di lei c’è un tipo basso basso e scuro scuro, con un solo baffo da tricheco, l’altro se l’è tagliato. Ha battuto la capoccia ed è svenuto.

* * *

Dopo il casino di polizia, ambulanze e verbali, il giorno dopo mi ritrovo con Franco al bar, pensate un po’, della stazione. La voglia di partire col treno per tornare a casa ce l’ho sotto le scarpe, quella di bere invece non m’è mai passata e mi ciuccio un doppio bourbon.

L’assassino nano e baffuto, che furbescamente si stava tagliando li baffi per non farsi riconoscere, aveva ben pensato, altrettanto furbescamente, di buttare la pistola dal finestrino, questa era finita sotto le rotaie e bum, lo scoppio. Così il nostro killer dilettante s’era fatto prendere dalla paura e aveva tirato il freno d’emergenza. Quando la polizia gli mise le manette ai polsi – dopo aver subito il trattamento boteriano – aveva ancora addosso il silenziatore, chissà perché poi.

Tento Franco con un altro cicchetto. Lui rifiuta, io mi lascio tentare volentieri da me stesso. 

Chiede – E il movente?

Rispondo – Indiscrezioni provenienti dal commissariato di polizia dicono che il tricheco baffuto fosse un killer pagato da un cliente del fu Mario Rossi. Pare che il mandante sia stato truffato su una polizza d’assicurazione sulla vita di un barboncino; il cane è finito sotto un tir e il mandante, tale signor Maurovich, ha preteso il pagamento che l’assicurazione non ha erogato, causa suicidio e non morte accidentale del cane, come scritto sul contratto. La polizza gliela aveva appioppata il signor Rossi, naturalmente. 

Grasse risate.

Terzo cicchetto.

Franco, un’ultima domanda, prima che perda il treno e forse i sensi, visto il bourbon che mi sto bevendo. Hai presente la paura paranoide che è venuta fuori durante lo scoppio sul treno? Sai, mi ha fatto pensare al terrorismo e alla guerra, che sono protagonisti in tutte le quotidiane rassegne stampa. Nel tuo romanzo la guerra c’è. Compare nei flashback del protagonista, Madralta. Ecco, io volevo sentire un tuo pensiero, un’opinione sulla guerra – al terrorismo, in Iraq, in generale - visto che in qualche modo l’hai descritta in Anche una sola lacrima.

Il Libano ha una doppia funzione; mi serviva un’esperienza dura, violenta, per giustificare alcuni tratti del carattere del personaggio e anche la sua dimestichezza con la violenza, le armi. Quel fatto storico poi ha delle assonanze, dei legami evidenti con questioni attuali che ci vedono coinvolti. Non credo che questa guerra abbia delle giustificazioni valide, ammesso che mai una guerra ne abbia avute; il terrorismo si sarebbe potuto combattere con altri e più efficaci mezzi, il conflitto in Iraq ha sempre più l’aspetto di un gioco politico ed economico in cui la cosa che sempre meno valore è la vita degli individui.