Renzo Madralta, veterano di guerra sopravvissuto al Libano, lavora come responsabile della sicurezza in un grande supermercato nella provincia romana. Distaccato e indifferente, senza amici o desideri, procede nella sua sopravvivenza portandosi a letto la moglie del capo. E proprio il suo capo, direttore responsabile del supermercato, lo sottrae un giorno alla sua routine proponendogli di rapinare il supermarket in cui lavorano.È, questo Anche una sola lacrima, un romanzo al crocevia che tocca diversi generi e sta a cavallo fra thriller e noir, con un debito nei confronti dei film di Kitano e di un certo crepuscolarismo dell’eroe di(s)messo e stanco, che può esser fatto risalire tanto al western di Peckinpah quanto allo hard-boiled delle origini (Philip Marlowe con meno sarcasmo e un po’ più di italica rassegnazione).

La ragione per cui questo romanzo sta a cavallo fra noir e thriller è che Limardi fa uso, in più di un momento, di un meccanismo narrativo sospeso che crea situazioni di tensione simili a quelle del poliziesco (le indagini dell’ispettore Martello sulla rapina) e del thriller (i colpi di scena disseminati per quasi tutta la seconda parte del romanzo).

Più di tutto, però, è il modo di raccontare che rende Anche una sola lacrima una via di mezzo fra diversi generi, un noir atipico. Del noir ha la concentrazione su un unico protagonista, narratore in prima persona, che gradualmente e inesorabilmente (come si intuisce dopo l’inizio) si troverà coinvolto in situazioni sempre più estreme e senza via d’uscita; del noir ha anche il tono, disperato a tratti, disilluso sempre, che rende l’atmosfera del racconto cupa e greve come dev’essere. Diversamente dal noir puro, però, Limardi non rinuncia a una scrittura proiettata in avanti, che cioè spinge il lettore a proseguire leggendo “per vedere come va a finire”. Certo, questa “proiezione” non è sufficiente a fare del romanzo un thriller o un poliziesco, ma lo è per dargli sfumature che lo allontanano dal noir vero e proprio.

Il debito verso i film di Kitano (Brother in particolare, come scrive l’autore stesso nei ringraziamenti) è forse quello più interessante da indagare. La poetica del regista di Hana-bi è infatti fra le più rappresentative del rilancio del genere a livello cinematografico avvenuto negli anni Novanta (grazie a film come Le iene e Pulp fiction, come Little Odessa, Heat, e Tre giorni per la verità).

Gli eroi impassibili e ieratici del regista giapponese sono il controcanto di quelli chiassosi e volgari di Tarantino, così come dei crepuscolari di Peckinpah e Raymond Chandler: Nishi-san, protagonista di Hana-bi, è un ex-poliziotto taciturno e inespressivo (interpretato dallo stesso Kitano, che qui porta già sul volto le cicatrici dell’incidente di moto che gli ha lasciato la faccia paralizzata per metà) ritiratosi dopo la morte di un collega e il ferimento e la condanna alla paralisi dell’amico Horibe (anch’egli poliziotto). Per aiutare la vedova del collega morto, Nishi rapina una banca. Poi fugge portando con sé la moglie, malata terminale. Insieme girano per il Paese quasi senza rivolgersi la parola ma condividendo ogni istante (e sarà la moglie stessa a ringraziarlo di questo, alla fine). La polizia, cioè gli ex colleghi di Nishi, gli sono presto alle calcagna (lui non si è premurato di nascondere il proprio volto durante la rapina) e quella di Nishi e la moglie diventa subito una falsa fuga, movimento illusorio che non li porta in nessun luogo e ribadisce anzi sempre più apertamente l’impossibilità di sfuggire alle conseguenze di ciò che è stato fatto.

In che misura questo impianto può essere ritrovato nel romanzo di Limardi? Sebbene lui faccia riferimento a Brother (per la verità uno dei film meno convincenti di Kitano) è forse proprio Hana-bi quello che più gli somiglia. Certo non nello stile, che nel romanzo è molto ricercato e a tratti enfatico (contrariamente a quello asciutto e minimale del regista), bensì nella struttura, nel senso di ineluttabilità che da un certo punto in avanti (l’inizio della fuga, nel film; il ritorno al lavoro dopo la rapina, nel romanzo) diventa dominante fino a essere opprimente. Il film di Kitano mantiene una leggerezza nel tracciare la parabola autodistruttiva del suo eroe; leggerezza che nel romanzo è assente.

Limardi infatti pesca a piene a mani dal repertorio noir-hardboiled, dalla riserva di situazioni cui il genere ci ha abituato, e calca molto sugli aspetti più disperati della storia e del protagonista, che da un certo punto in avanti inizia a ricordare molto da vicino i losers di tanto cinema americano (dal Pike del Mucchio selvaggio ai Marlowe di Robert Mitchum e Elliot Gould).

Il romanzo di Limardi ha una struttura solida e compatta, che non cede alle sirene della suspense se non in alcuni episodi, e mantiene desta l’attenzione del lettore fino alla fine (qualcosa ci sarebbe forse da ridire, ma è un appunto minimo, sul colpo di scena finale, che sa un po’ di scorciatoia). Soprattutto, il romanzo non scade mai nella banalità e nel già visto; l’autore non cerca la soluzione a effetto o il colpo di teatro semplificatore: avanza invece gradualmente e inesorabilmente verso la risoluzione della tragedia tessendo un ritratto efficace e indelebile che rimane, alla fine di tutto, come l’elemento più sincero e originale di Anche una sola lacrima.

Concludendo, questo di Franco Limardi è un noir con venature poliziesche (o thriller) che punta tutto sul protagonista per costruire una storia tesa e dolorosa che accoglie in sé elementi del noir nipponico di Kitano e dell’hardboiled delle origini integrandoli con una rassegnazione e consapevolezza di sé tutte italiane.