Più che mediocre ‘sto thriller (tra l’altro che aspettavo per un confronto col quasi simile Red eye). Mediocre perché gioca basso e sporco con lo spettatore nel senso che prima lo circuisce con un’atmosfera costruita per intero sulla fallibilità della percezione, al punto da insinuare più di qualche legittimo dubbio sulla reale esistenza della bambina scomparsa, ma poi preferisce ripiegare sul solito canovaccio che trasforma quello che appariva come un manifesto allo scetticismo in tutt’altro, con il villain che si cela nel più insospettabile di tutti.

Insomma, più che seminare dubbi (che a seminare certezze ci pensano altri…) Flightplan inocula certezze assolute, come la circostanza che vede lo spazio labirintico dell’aereo mandato a quel paese dal non trascurabile fatto che la Foster, in quanto progettista dell’aereo stesso, è tutt’altro che alle prese con un ambiente sconosciuto.

Certezze assolute dunque (nonché consolanti…), ma da un punto di vista cinematografico fastidiosissime…

La Foster, già, la Foster… La Foster strappa applausi mentali, capace com’è di giocare con la medesima bravura sia sul lato di madre in ambasce che su quello di madre coraggio.

Nei suoi occhi cerulei vi si legge tutto e il contrario di tutto a seconda delle circostanze; a momenti la si vorrebbe proteggere, in altri è lei a proteggere noi; in poche parole sfiora la perfezione.

Ma allora che ci fa in un film così, che grida vendetta?

Sergio Gualandi

Cattivi presagi, bare, corvi e flashback inquietanti: sola con la prole a Berlino l’ingegnere aereonautico (Jodie Foster) fa ritorno negli Usa dopo uno shock terribile: la morte del marito. L’accoglie un mastodontico velivolo a due piani e durante il viaggio s’appisola ma riaperti gli occhi, la figlia è scomparsa. Allarma le hostess e comincia la girandola di dubbi: è psicotica? Ha ragione? Tutto trama contro di lei. Come in Rosemary's Baby in Flightplan ogni personaggio pare trattenere un lembo della storia ma tirare le fila è impossibile: altrettanto lo è farla alla protagonista. S’inserisce un agente di sicurezza (Peter Sarsgaard) che malvolentieri si piega alle insistenti richieste. Si sa, la paranoia non è mai troppa ma nessuno pare aver notato la piccola e nelle liste passeggeri non è segnata. Il capitano (Sean Beam) è un brav’uomo e s’impegna nel coordinare le ricerche. La coincidenza è che la signora ha progettato l’aereo e conosce la struttura fin nel più piccolo pertugio. Le affibiano perfino qualche pugno quando esagera con l’aggressività (della quale ne fanno le spese un po’ tutti compreso un gruppo di passeggeri arabi che pagano il dazio di una madre/fiera ma soprattutto la retorica dell’intolleranza post undici settembre) e peggio ancora una psicologa (Greta Scacchi, quasi irriconoscibile). Il punto è che qualcuno davvero complotta: vuole dirottare l’aereo e quando le carte si scoprono nella rosa dei sospettati il colpevole è il più incolore. La tensione è lineare e tiene per tutto il tempo, aiutata anche da un montaggio serrato e dalla bravura della Foster. Pur depressurizzata da pretesti farraginosi e macchinosi e evidenti buchi di sceneggiatura, tiene alto il morale e l’attenzione. Finale stretta di mano ruffiana col fronte medio orientale e conclusivo passaggio plateale con la pargola in braccio che, fendendo la folla/animale che vociava imbufalita “Sparatele!”, finisce col salutarla con un “Non ha mai mollato”.

Daniela Losini