Willy Wonka, il misterioso proprietario di una fabbrica di cioccolata i cui prodotti riscuotono molto successo tra i bambini, indice un concorso: i cinque fortunati che troveranno gli altrettanti biglietti d’oro nascosti nelle tavolette di cioccolato potranno varcare i cancelli della fabbrica accompagnati da Willy Wonka in persona…

 

Quella che sembra una battuta cioè il lato oscuro della cioccolata, ha più di qualche ragione per essere presa sul serio visto che è proprio il lato oscuro a montare prepotente dal secondo remake nella filmografia di Tim Burton (Il pianeta delle scimmie il primo) che recupera, reinventandolo, il precedente quasi omonimo del ’71 di Mel Stuard tratto anch’esso dal romanzo di Roald Dahl.

Il lato oscuro è quello celato dietro e dentro l’apparente efficienza di una fabbrica oramai post-fordista, come illustra l’ipnotico incipit che riassume in una manciata di minuti il percorso dal liquido al solido del cioccolato stesso, ma anche quello che si scorge dietro la figura da dandy con occhiali a lenti bombate dell’inquietante Willy Wonka, un Johnny Depp geniale alle prese con una interpretazione geniale, perfetto uno nessuno e centomila, industriale, gourmet del cioccolato per reazione ad una privazione infantile da parte di un padre dentista, sadico e paranoico disposto a rinunziare agli operai in blocco per timore delle spie, benefattore e despota, democratico e imperatore autoproclamatosi della tribù degli Umpa Lumpa, pigmei che hanno la non trascurabile particolarità di essere uno identico spiccicato all’altro (Deep Roy moltiplicato digitalmente per mille).

In La fabbrica di cioccolato il lato dark serve a far piazza pulita in modo acconcio dell’arrivismo, del cinismo, de “la carriera prima di tutto”, elementi dei quali si fanno portatori quattro dei cinque odiosissimi bambini ammessi al cospetto di Willy Monka, piazza pulita che avviene, senza andare troppo per il sottile, attraverso tuffi in discariche e mutazioni corporee sostanziali.

Ma il lato dark significa anche mettere in scena fantasmagoriche scenografie dove sbalordirsi è d’obbligo, dove Bosch convive con Dickens e le coreografie liquide-acquatiche-cioccolatesche di Esther Williams lasciano spazio al lucore di una stanza dove un monitor trasmette le scimmie di 2001: Odissea nello spazio alle prese con il monolito-barretta di cioccolato (ma è omaggio anziché scherno…).

Infine, il lato dark serve ancora una volta a illustrare come il conflitto fantasia vs realtà, leitmotiv dell’intero cinema di Tim Burton, sia ancora lontanissimo dall’avere esaurito la sua spinta creativa.