Deserto del Gobi. Al termine di un parto travagliato nasce un raro cucciolo di cammello bianco. Forse per via del colore del mantello la madre non ne vuole sapere di allattarlo rischiando così di farlo morire. I proprietari degli animali allora, rifacendosi a un’antichissima tradizione, chiedono l’intervento di un musicista che grazie al suono del suo strumento potrebbe risvegliare nella madre l’istinto materno…

 

Gli animali dispettosi, cani, gatti, pappagalli, pesci, finiscono tra frizzi e lazzi su Striscia, quelli invece più umani degli umani, in un documentario ambientato in un piccolissimo villaggio situato nel mezzo del deserto del Gobi  e girato da Byambasuren DavaaLuigi Falorni.

Suspense a novecentonovantasette anziché a mille perché anche se non sembra in questo La storia del cammello che piange si bordeggia zio Walt (Disney) e il lieto fine è assicurato.

Certo è che la preoccupazione che si stampa via via sulla faccia dei componenti la famiglia di pastori (nonno/nonna, padre/madre e figli) è di quelle che non lascia indifferenti.

Si finisce così appesi a un filo, anzi a due, quelli dello strumento che opportunamente pizzicato dal maestro di musica e con l’aggiunta di una voce femminile, ha il compito di resuscitare l’istinto materno della cammella finito chissà dove.

Ma il film non è soltanto "cure materne prima negate poi date", ma anche e soprattutto l’incrocio, anzi la coesistenza, di leggende sui cammelli (in origine avevano le corna ma una volta prestate per bontà a un cervo non furono più restituite) e di riti ancestrali con il moderno che avanza sotto i passi da gigante della globalizzazione (vedi la voglia di televisore-televisione che visto il luogo ha bisogno di una parabola gigantesca).

 

Chi vincerà alla fine, la pay-tv o le leggende? I reality-show o i musici? Questi ultimi, ammesso che sopravvivano, suoneranno ancora per i cammelli?

ps: ma Ingen Temee (la madre) e Botok (il cucciolo), si saranno resi conto che hanno sfiorato l’Oscar?