Nuova uscita per Claudia Salvatori a pochi mesi di distanza dal suo La donna senza testa, pubblicato da Alácran.

Si tratta del secondo episodio della serie iniziata con Sublime anima di donna (Tropea), che - lo ricordiamo - fu premiato con lo Scerbanenco nel 2001. Riprende i personaggi di Mariarita Fortis e di Stella del Fante, le detective dell'immaginario. Ha due livelli temporali: attuale e Berlino anni '30.

A commento di Nessuno piange per il diavolo, l’autrice spiega: “Fa parte della mia produzione meno astratta e simbolica, quella in cui però esploro tutte le potenzialità di orrore, meraviglia e divertimento del thriller. Il personaggio in cui mi identifico è Nero Haller, il ballerino innocente/colpevole, l'artista che combatte la sua guerra per esistere.”

Riportiamo di seguito la trama, come sintetizzata dall’editore nel risvolto di copertina:

Milano, epoca attuale.

Reduce da un brillante successo investigativo, le detective Mariarita Fortis e Stella del Fante si godono – loro malgrado – qualche giorno di forzata inattività. La prima continua a scrivere discorsi a pagamento per uomini politici, la seconda freme per tornare in azione.

Le cose stanno a questo punto quando un eccentrico tedesco, Nero Haller, si rivolge a loro. Un bel vecchio, con un fisico da ballerino. Danzava nella Berlino degli Anni ’30, ha conosciuto tutti gli artisti dell’epoca, ha vissuto una favolosa giovinezza. E si sente perseguitato dal Diavolo.

Un paranoico? Un mitomane? No: il Diavolo, o chi per lui, è davvero all’opera. Vengono profanate alcune tombe ebraiche; un estremista di destra è brutalmente assassinato; una foto d’epoca mostra Nero vestito da SS…

Haller è stato un criminale nazista? Di sicuro, soffre di un grave disagio. La sua memoria vacilla, ne emergono flash confusi e terribili. Soltanto, nella sua testa, questi orrori sono miscelati a immagini di vecchi film, Il Dottor Mabuse, Nosferatu… Come distinguere la realtà dalla finzione? Come sciogliere l’enigma celato nei suoi ricordi? E, soprattutto, come interrompere una catena di sangue che sembra non avere fine?

Magistralmente sviluppato su registri narrativi e piani temporali diversi, Nessuno piange per il diavolo è un thriller come se ne leggono di rado. Un racconto che è impossibile dimenticare e che, attraverso il giallo, illumina il cuore di tenebra del ‘900: un cuore ancora vivo, pulsante, colmo di inauditi orrori e truci meraviglie, come pure di un sentimento del Bene che non rinuncia a combattere l’egemonia del Male, correndo mille pericoli e accettando qualunque costo. Compreso quello della vita.

La Salvatori, oltre che scrittrice, è insegnante, saggista, sceneggiatrice di fumetti e cinema. Di lei, oltre ai libri già citati, ricordiamo inoltre i romanzi Superman non muore mai, Il sorriso di Anthony Perkins, La canzone di Iolanda, Schiava e padrona (che ha ispirato il film Amorestremo) e la biografia Ildegarda: badessa, visionaria, esorcista.

Per gentile concessione dell’Autrice e dell’Editore (Hobby & Work), siamo lieti di anticiparvi l’incipit del romanzo.

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Io non so chi sono.

So che sto sognando; ci sono due persone in me, io-che-sogno e quell’io non-so-chi-sono che forse sono stato, e che ridivento sognando. Diviso in due, ma riunito in un sonno che mi fa scendere nelle zone più profonde di me, sono di nuovo laggiù. Laggiù.

È primavera, e non ricordo di aver mai visto o vissuto altre primavere. Ogni cosa mi procura gioia, una gioia forte, innocente e furiosa, tarpata da un presagio assassino. Come se il mio io di adulto, quello che ancora deve formarsi e che saprà di sognare, inquinasse l’essere ignaro, leggero e danzante che non ha ancora consapevolezze. La gioia che sta per rovesciarsi in orrore mi è ancora più cara per questo, l’assaporo con più voluttà proprio perché la indovino avvelenata.

È qualcosa che ha a che fare con la sorellina. E con il dottore.

La sorellina è in realtà più grande di me: graziosissima, la pelle molto chiara, i capelli d’oro scuro, e gli occhi verdi: color verdemare. È stato il dottore a dire che lei ha gli occhi verdemare, e aveva sulle labbra quel suo sorriso lieve, quasi malinconico, segreto, di uno che ha scoperto qualcosa di grosso, da innamorato che non si accontenta e cerca ancora, oltre il suo stesso amore.

Il dottore ci regala spesso palline di zucchero rosa. Non so con chi vivevamo prima, o se c’è mai stato un prima; so che stiamo bene noi tre, così, come una famiglia terribile, ma unita e affiatata.

È alto, bruno, snello, bello. I suoi gesti sono esatti ed essenziali. Sui suoi vestiti non c’è la minima macchia. Ha mani curate, pulite; non alza mai la voce; è sempre estremamente cortese. E non emana alcun odore, né gradevole né sgradevole. Una mancanza di odori che identifico nel profumo essenziale della perfezione.

Non ho mai visto i suoi occhi; lui del resto se ne sta quasi sempre con le palpebre dalle ciglia folte semichiuse e la testa leggermente china, nell’atteggiamento di chi è immerso in una fantasticheria interiore vicina alla preghiera.

Il dottore mi porta a visitare il suo laboratorio, che è il posto più bianco che abbia mai visto. Ogni cosa, lì dentro, è linda e lustra, luccicante sotto una luce chiarissima simile a ghiaccio liquido. Ci sono tavoli e carrelli di metallo, e tantissimi strumenti affilati, che sembrano fatti d’aria tagliente.

La mia attenzione è attirata da una catinella, o piuttosto un piccolo bacile lucido: fisso il suo fondo, e vedo una faccia. Incontro i miei occhi che sono come quelli della sorellina. Grido, travolto da un sentimento di angoscioso, assoluto terrore. Perché ho visto…me stesso.

Il bacile è caduto a terra con un fracasso indecente, ma lui, il dottore, non si arrabbia. Mi solleva con delicatezza, mi stringe a sé mentre mi dibatto come un animale catturato. Mi calma la luce dei suoi occhi, che finalmente si fissano nei miei. Sono uguali a quelli della sorellina e ai miei. Color verde mare. Come se fossimo tutti e tre del medesimo sangue, della medesima eredità.

Soltanto, gli occhi del dottore sono diversi. Più adulti. Un poco più torbidi e stanchi, come consumati dalle tante cose che hanno visto. Ma sempre magnifici, fra le folte ciglia nere. Sì, sì, ti capisco, è spaventoso, lo so, ma non è niente, o forse è tutto; in ogni modo poi uno si abitua a se stesso, non ci bada più, col tempo si guarda e non fa neppure più attenzione alla propria immagine, e perfino il mistero terrificante di ciò che siamo, e del perché lo siamo, è dimenticato. Tutto questo, me lo comunicano senza parole, e io senza parole lo intendo.

Il dottore mi culla; gli circondo il collo con le braccia. La sua guancia è liscia e vellutata, come se fosse anche lui un bambino.

Lo amo.

Dopo comincia l’Immenso Incubo.

Mi sveglio nel mio lettino, in una stanza che si trova accanto all’alloggio del dottore; seguendo una strada già percorsa scendo nel seminterrato, alzandomi sulle punte dei piedi abbasso una maniglia, e mi ritrovo nuovamente nel laboratorio.

Da molti, molti giorni, non vedo la sorellina. Moltissimi giorni. Quando ho chiesto al dottore dov’è, lui mi ha accarezzato e mi ha detto: Non pensare più a lei…

Il laboratorio mi appare diverso, rispetto alla prima volta in cui l’ho visto: ne ricevo l’impressione di un corpo scomposto, sorpreso nel corso di una pratica che non si può mostrare, come lavarsi le parti intime o defecare.

A terra c’è il bacile in cui mi sono specchiato. Mi chino, lo raccolgo, invano cerco la mia immagine sul fondo. È pieno di sangue.

Una sensazione di immane desolazione mi pervade allagandomi il cuore: intuisco quanto la realtà sa essere ingiusta, specialmente sotto i suoi veli più adorabili. Quanto sa drogarti con le sue palline di zucchero rosa, le sue bugie fino a conquistare il tuo amore, per poi lasciarti più solo e più sporco davanti a qualcosa che ti hanno nascosto.

Mi metto a piangere, e un altro gemito, come di animale appena nato, mi risponde. Un suono mai udito, accompagnato da un altro suono, molto più debole e indefinibile, sconosciuto.

Sussulto, mi volto nella direzione da cui proviene: una porta bianca.

Al di là della porta la voce dolce, familiare del dottore, e un pianto di bambina: la sorellina. Acuto, altissimo, carico di disperazione e terrore. Non credevo possibile che una voce umana potesse arrivare a simili livelli di angoscia. Solo una pietra frantumata, un pezzo di metallo che fonde potrebbe urlare così. L’ho sentito altre volte, quando lei si è fatta male, per esempio cadendo e sbucciandosi un ginocchio, ma quello era un male da niente, mentre adesso… Adesso, la sorellina deve essersi fatta un male indicibile, un male da impazzire… E poi c’è sempre quell’altro suono, una voce che non appartiene a lei…. C’è qualcun altro, con la sorellina e il dottore.

La porta si apre senza rumore, una lama di luce accecante colpisce i miei occhi. Mi rannicchio come fanno i gatti davanti al pericolo, troppo impaurito per scappare.

Uno scalpiccio di passi, un precipitarmisi incontro.

E qui, l’Immenso Incubo si fa ancora più immenso, se mai possibile: cioè intollerabile. Innominabile. Da costringermi a sognarlo per tutta la vita, e ogni volta svegliarmi urlando, nel momento in cui io-non-so-chi-sono mi tolgo i pugni dagli occhi serrati e mi costringo ad aprirli, spinto da un’infame curiosità.

Perché voglio vedere quello che avanza verso di me… e mi tocca.