Paolo Roversi vive di pane e giallo, o noir. Oltre a scriverne, gestisce il website Milano Nera ed è fondatore e direttore del Festival Nebbia Gialla Suzzara Noir, in provincia di Mantova, che è poi il suo luogo natale anche se da anni vive a Milano. Il suo ultimo romanzo, uscito per i tipi della Rizzoli, s’intitola L’ira funesta e segue di un solo anno il precedente, edito dallo stesso editore, “Milano criminale” (prima ci sono naturalmente altri libri, tutti di genere, esclusa una biografia di Bukowski di cui è appassionato e per la quale s’era valso dell’aiuto di Fernanda Pivano).

Diciamo che, lasciata per il momento Milano, con “L’ira funesta” si apre un nuovo ciclo, quello del maresciallo Valdes, di stanza in un paese della Bassa, lungo il Po, infestato di zanzare e da anni governato da un monocolore rosso con percentuali bulgare e vie dedicate a persone e luoghi della tradizione comunista. Unica attrazione per i suoi abitanti è la Polisportiva e Centro Ricreativo famigliarmente chiamato da tutti semplicemente la Poli, costituita da una vasca che pomposamente viene chiamata piscina e un bar ai bordi, dove pigramente, si trascorrono le giornate tra pettegolezzi e scherzi di carattere goliardico.

Il lavoro del maresciallo Valdes, che passa più il tempo a pesca sul Po che in caserma, è scarso. Si accende però il giorno in cui un giovane del paese, tale Gaggina, persona tranquilla se opportunamente curato con i psicofarmaci che il medico gli ha prescritto, in mancanza di questi, va in escandescenza. E’ accaduto infatti che quel giorno, il farmacista ha chiuso il suo esercizio per portare la moglie incinta, ormai nelle doglie, a partorire. Così, la prima cosa che il Gaggina, un colosso d’uomo, fa è quella di prendere a calci la serranda della farmacia, quindi, poco dopo, tante altre stranezze poco rassicuranti per tutti, fino ad armarsi di una affilata katana che aveva in casa, amante com’è della tradizione dei samurai. Come se non bastasse l’omone a un certo momento si ritrova con due ostaggi e minaccia di ucciderli, mentre il terrore per quello che può accadere s’impadronisce del paese.

Il maresciallo Valdes, tirata su la lenza, accorre, e poi, col passare delle ore e la diffusione della notizia del sequestro, ecco arrivare anche la stampa e le televisioni. Anche perché nel frattempo un cadavere, quello del vecchio Giuanìn Penna, tornato al paese dopo 30 anni d’America, viene trovato in un canale e ad ucciderlo sembra sia stato proprio un colpo netto di katana. A questo punto, è il sospetto di tutti, l’omicida non può essere che il Gaggina. Solo il maresciallo Valdes ha dei dubbi, e con lui un ragazzino che considera il Gaggina una persona, squilibrata sì, ma incapace di far del male a chiunque, e che finirà per dare una mano al carabiniere. Si aggiunga che, tra i giornalisti, c’è anche una donna, bella e giovane, inviata dal quotidiano di Mantova, che – come spesso succede – prima in antipatia, reciproca, con Valdes, poi finisce per andarci a letto e collaborare anche lei alle indagini. Indagini per le quali non c’è da perdere tempo, perché col passare delle ore il procuratore della repubblica, contrariamente alla volontà di Valdes, chiama a risolvere la questione nientemeno che le teste di cuoio. Il rischio è che il loro deciso intervento possa far fuori per sempre un innocente, tanto più che dal passato, nella vita del paese e di Giuanìn, vengono a galla imbarazzanti verità.

Comincia così, da parte del maresciallo Valdes, una gara contro il tempo. Occasione, questa, che ci offrirà la possibilità di venire ad apprendere molte cose sull’ identità del maresciallo Valdes, che immaginiamo saranno messe a frutto nei prossimi casi che si troverà a risolvere, visto lo strillo di copertina del libro che annuncia “Il primo caso del maresciallo Valdes”. E il romanzo di Roversi si fa serio proprio quando parla di questo sottufficiale, mentre, per il resto, soprattutto laddove emergono il paese e le varie tipologie e storie dei suoi abitanti - così simili immaginiamo alla natìa Suzzara - il racconto è condotto con una ironia che rende divertente la lettura sul filo di quella leggerezza e affetto che Roversi ha appreso da Fellini, con tanto di citazione, un cammeo, tratta da “Amarcord”.