Quentin Tarantino torna e lo fa col botto, mettendo in questo ultimo film tutti i colpi a bersaglio. Di base il regista di Knoxville prende spunto dall‘italianissimo Django del 1966 di Franco Nero (qui, in un cameo illuminante e come lui anche altri, tra cui il famoso Luke di Hazzard, Tom Wopat,  nella parte del Marshall) e Sergio Corbucci, pietra miliare del genere spaghetti western di cui conserva il main theme, ma crea ex novo una sceneggiatura possente e geniale.

Un comeback al tuono di pistole e fucili in un Far Nigger West, dove il classico omaggio ai grandi registi del genere si commistiona allo stile inconfondibile dell'ex videotecaro più famoso al mondo. 

«Quando le persone mi chiedono se ho frequentato una scuola di cinema, io dico: No, sono andato al cinema»   (Quentin Tarantino) 

Sangue e polvere. Cotone, ceppi e schiavitù. Quella schiavitù che sarà abolita da Lincoln (vedasi l'imponente, greve e didattica ultima regia di Spielberg). Non a caso due film in competizione nelle sale, l'uno prodromo dell'altro nella storia dei fatti.

Django è nero, mentre il mondo che lo circonda è bianco e ostile.

Ma il suo unico amico, Dr. King Shultz, dentista-bounty killer, è un bianco.

Un tedesco. E qui, non notare il rovescio della medaglia nell'interpretazione di Christoph Waltz rispetto al colonello Hans Landa di "Bastardi senza gloria" è impossibile. 

"C'è sempre una montagna in un racconto ambientato in Germania. La montagna rende tutto più drammatico" (Dr. King Shultz)

Django arriva di notte e se ne va in una notte di fuoco. La rivincita del buio sul giorno, di nuovo del nero sul bianco.

E tutto il film è caratterizzato da questa partita a scacchi tra questi non colori, ma identità di vita. Come se secoli di lotta si dovessero dare scacco matto nel giro di poche mosse, dentro una vendetta che viene consumata fredda. Una vendetta che parte lenta, fino a galloppare verso un finale pirotecnico e catartico, quando tutto è già stato ormai detto per quasi tutte le tre ore del film che letteralmente volano e deve essere soltanto scritto  e suggellato col sangue.

Tarantino in Django, pensa e si lascia meno andare alla sua consueta "perdita di freni", che si ritrova solo nell'ultima parte del film. Stavolta il sangue è addirittura poetico dentro la violenza.

Tarantino riflette forse come non ha mai fatto prima. Pensa alla causa e all'azione con profondità invidiabile anche nel momento più esilarante del film che vede un botta e risposta su "sacchetti bianchi" fatti in casa. In questo frame, si passa in pochi secondi da un precedente girato pieno di tensione con una calvalcata apocalittica illuminata da torce a un'adunata simil-militare del KKK con un dialogo da sit-com.

Una delle carte vincenti del cinema di Tarantino è riuscire a spezzare i momenti drammatici con siparietti comici e surreali. Intermezzi che in altre regie stonerebbero, ma che al contrario nei suoi film finiscono con il trovare un'adesione perfetta al tutto. Si sconsacra così la tensione con un sorriso che ci viene strappato istintivamente, senza che la razionalità abbia il tempo di segnalarci che è fuori luogo.

«Il mio cinema o si ama o si odia.» (Quentin Tarantino) 

Django Unchained conta al di là di una grande abilità registica, anche su una grande prova di attori.

Jamie Foxx, stereotipa al meglio, il suo personaggio. Django Freeman rappresenta il popolo nero e la sua rivalsa. Foxx non ha necessità di recitare, ma di essere e di personificare. Alla recitazione pensano in maniera magistrale Christoph Waltz che disegna con il Dr.King Schultz, un co-protagonista (o protagonista?) assolutamente strepitoso nel suo aplomb very english che richiama molto Bob l'inglese di Richard Harris ne "Gli Spietati" di Eastwood. Eastwood che Tarantino omaggia in pieno nella scena del battesimo come cacciatore di taglie di Django.

Prova di attori, dicevamo. 

"Se permettete, con ciò che è di mia proprietà faccio quello che mi pare!"  (Calvin Candie) 

Attore ormai completo e consolidato, lontano dal ragazzino viziato di The Beach e di Titanic, si dimostra Leonardo Di Caprio. Un di Caprio tanto controllato nella sua brutale mentalità, quanto indemoniato nell'esternare la sua vera indole razzista. Il monologo del suo personaggio, Calvin Candie, durante la cena a Candyland è qualcosa di sublime, che resterà nella storia del cinema.

And last but not least, Samuel L. Jackson. L'attore feticcio per eccellenza di Tarantino è l'âme  noire del film, il rinnegamento dell'ideale nero, della libertà di una razza. Il suo Stephen trasuda ambiguità e ferocia repressa sotto una parvenza occidentale da brividi.

Come sempre la colonna sonora gioca una parte fondamentale nel cinema di Tarantino. Si passa da classici western italiani (Trinity, ad es.), al talento di Morricone e alla voce unica di Elisa, passando per la celeberrima I Got a name di Jim Croce. La musica dà respiro alle inquadrature John Ford style, soffoca le intenzioni e scandisce una vendetta inesorabile che passa attraverso accettazione, cambiamento, sopportazione, ritorno alle origini di uomo libero. 

"Django, la D è muta"  (Django) 

Quella D, rappresenta il silenzio di una razza, la sopraffazione di diritti umani mai riconosciuti. Django è una forte accusa al razzismo e non il contrario, come qualcuno ha erroneamente affermato  e creduto. E l'accusa viene da un uomo nato in Tennessee, luogo che prima del 1810 era scelto frequentemente, insieme al Kentucky per lo sfruttamento degli schiavi. 

"… Ma su una cosa aveva ragione. Io sono quel negro su 10000" (Django)