La stanza di Caterina

Chilometri di nulla. Vento, e un caldo che non lo regge il demonio. La sabbia che s'infila ovunque. Le mani che sudano sul mitra. La vita che ti può sfuggire. Decine di chilometri per dare il cambio ad un posto di blocco sulla strada per Nassiriya. Smonti dalla jeep, che è blindata. Ma un mezzo blindato è solo una bara più costosa delle altre. Iniziano ad avvicinarsi i bambini. Hanno fame. Si avvicina anche lei, Shareefa, una bimba di quattro anni con gli occhioni grandi grandi e scuri scuri. Ormai vi conoscete. Lei tende la manina verso la tua. Tu le tendi un biscotto. Una carezza in testa. Le casupole di fango, attorno, si animano. Non vogliamo farvi niente di male. Siamo italiani. Carabinieri. Il vento soffia più forte. Insieme alla sabbia, soffiano all'improvviso colpi di kalashnikov. Ti getti a terra e inizi a sparare. Tutto dura una manciata di secondi. L'Inferno va e viene in un attimo. Ti guardi attorno. Sei tutto intero. I compagni anche. Shareefa è a terra. La bimba con gli occhioni grandi grandi e scuri scuri è morta...

Augusto si svegliò col suo stesso urlo. Aprì gli occhi. L'incubo che lo tormentava da anni era tornato.

Era tornato insieme al caso della ragazzina di sedici anni scomparsa il giorno prima. Augusto aveva dovuto sopportare il dolore dei genitori. La loro ansia, la loro angoscia. Caterina non si trovava. Era uscita il sabato pomeriggio per non tornare. Come Shareefa. Era uscita dalla casupola e non era più tornata. Si alzò dal letto. Sudato fradicio. Andò in cucina, rovistò in dispensa. S'attaccò alla bottiglia del brandy. Si mise in tuta e uscì di casa fumando per farsi avvolgere dalle stradine intricate del centro storico di Monte Santa Chiara. Un deserto, a quell'ora. Ma con le chianche della pavimentazione che restituivano, grate, il fresco della notte. Arrivò sino alla caserma. Il piantone gli aprì. Un ragazzino fresco fresco.

«Siete caduto dal letto, maresciallo?».

«Non sono affari tuoi».

Si chiuse in ufficio. Si sistemò sulla poltrona e rimase a consumare gli avanzi del suo sonno fino all'alba.

Augusto Trizio, maresciallo dei Carabinieri di stanza a Monte Santa Chiara, si inerpicò di mattina presto nella parte superiore del paese. Alle otto, in strada, c'erano solo le vecchiette che andavano a messa e qualche papà con dei bambini piuttosto mattinieri. Respirò a fondo l'aria salata che arrivava lato mare. Calda che era una bellezza. Augusto camminava sulle chianche senza fretta. Andava verso casa di Caterina. Si fermò a comprare il giornale. Della ragazzina scomparsa poche ore prima, nessuna notizia. Troppo presto. Forse. O troppo tardi. Nella peggiore delle ipotesi. In realtà, non realizzava perché stesse andando lì.

Doveva fare qualcosa. Glielo aveva suggerito l'incubo notturno. Doveva anche ricordarsi di avvisare i suoi che quel giorno non sarebbe andato a Bari, a pranzo da loro.

Sarebbe stato libero, per quell'ora, ma non aveva voglia di vedere sua sorella, che non gli parlava più da quando era stato in Iraq.«Servo dei servi!», gli aveva urlato in faccia al suo ritorno. Pensare che, da bambina, l'aveva tenuta in braccio. Paoletta. Cinquanta chili di nervi arrabbiati con il mondo. Arrabbiati anche con lui. Una sorella femminista che lavora in un centro per madri sole e un fratello carabiniere. Il giorno e la notte. Divisi. Il padre, Diego, aveva sgobbato in fabbrica una vita. La madre, Giovanna, era maestra alle elementari. Si amavano ancora tanto. Ma i loro figli erano diventati due estranei.

Suonò al campanello della villetta nella parte nuova del paese. Anche a Monte Santa Chiara era arrivata la mania delle bifamiliari a schiera. Tutte uguali: sembravano filari di viti fatti di cemento. I genitori di Caterina erano invecchiati di dieci anni, rispetto al giorno prima. Tra l'interno e l'esterno della casa c'era la stessa differenza che corre tra un palco bene illuminato, scena di una serena attuazione, e il dietro le quinte scuro e polveroso. Disse di non avere novità e chiese di entrare nella stanza di Caterina.

La camera era delicatamente profumata. Augusto richiuse la porta alle sue spalle. I genitori non opposero resistenza, rassicurati dalla presenza di un maresciallo in quello che era stato il nido della figlia scomparsa, il suo rifugio.

Abbiamo tutti dei segreti. Caterina, li avevi anche tu. Li avevi perché viva, forse, non lo sei più, anche se non posso ancora dirlo ai tuoi.

Una scrivania con il disordine che può lasciare un adolescente. Le mani di Augusto toccavano la superficie liscia del legno. Un computer. Fogli sparsi. Colori a cera. A Caterina piaceva disegnare. Alla parete, il poster dei Red Hot Chili Peppers. Ad Augusto scappò un sorriso: piacevano anche a lui. A lui, però, raccontavano cose che già sapeva, a Caterina cose che doveva ancora scoprire. "Cobain can you hear the sphere, singing songs off station to station"… Chissà dove ti sarebbe piaciuto andare, Caterina. Californication. Guardò le mensole sopra la scrivania. I cd dei Red, tutti. Pretty little dirty, dall'album Mother's milk. Hai anche quello. I segreti si nascondono sempre dove chi sappia cercare può trovarli. Augusto aprì il cd. Una foto di Caterina nuda. Bellissima. Sorrideva a chi la stava fotografando. Ricci neri che scendevano sulle spalle, una mano protesa verso l'obiettivo, l'altra a coprire le nudità. Impudicamente innocente. Caterina giocava. Faceva i giochi degli adulti.

Si sentiva a suo agio, in quella stanza, Augusto. Accese il computer. Foto di compleanni. Canzoni. Cartelle di appunti di scuola. Possibile che non raccontassi niente di te a te stessa, Caterina? Con chi giocavi? Spense il computer. Aprì il cassetto sotto la scrivania. Cianfrusaglie, fermagli per i capelli, una piccola trousse di trucchi.

Un diario. Si sedette e lo aprì. Chi sei, Caterina? Posso scoprirlo solo qui. Nella tua stanza.

Sfoghi, poesiole adolescenziali. Pezzi di canzoni dei Red. Alcune foto di amiche, incollate. Quattro giorni prima della scomparsa, Caterina scriveva: «Tribale è uno stupido». Tribale? Ma che razza di nome è? Augusto girò la pagina. Un disegno strano. Occhi e lineamenti di un viso messi in cerchio, frammentati, confusi. Come nei cubisti. Una freccetta: «Mi ha assalito alle spalle sotto casa. Sapeva che i miei non c'erano. È pericoloso. Devo dirlo a Tonio». Chiuse il diario. Lo intascò. Aprì l'armadio con dentro uno specchio. Per un secondo vide l'immagine di Caterina che si vestiva di sabato pomeriggio. Per uscire. Per incontrare chi, non lo sapeva. Accarezzò il vetro. Si preoccupò. Dall'Iraq in poi gli capitava di vedere riflessi nei vetri volti che conosceva o si erano impressi nella memoria. Non lo aveva detto a nessuno. O quasi. Disturbo da stress post-traumatico. La psicologa militare lo aveva liquidato così. Abracadabra. Ma le pillole non le aveva mai prese.

La mamma di Caterina fece irruzione in camera. Aveva ricevuto un messaggio sul cellulare.

«Sono con Tonio. Non vi preoccupate. Caterina».

«Questo non è il suo numero, né quello di Tonio, maresciallo».«Proviamo a chiamare da ieri, ma è spento», fece da controcanto il padre.

Augusto li guardò e prese il numero da cui era stato inviato il messaggio.

«Tonio è il ragazzo di Caterina?».

«Un amico, niente di più», specificò il padre.

Sono amanti, caro signore, altro che amico, pensò cinicamente il maresciallo. Non chiese loro nulla del tentativo di aggressione. Li avrebbe allarmati. Non immaginavano nemmeno stesse con questo Tonio, figuriamoci il resto. Doveva scoprire di chi fosse il numero. Questo Tribale, invece, chi era? E poi, doveva dare retta a quel disegno? Anche due chiacchiere con Tonio, possibilmente, non avrebbero guastato. Caterina e forse tre maschi. Due di sicuro. Troppi, per una ragazza di sedici anni. Forse non avrebbe avuto bisogno di inventarsi una scusa, per non andare a pranzo dai suoi a Bari.

Fu Tonio a trovare Augusto. Lo affiancò con il motorino nella piazza centrale del paese. Piazza della Vittoria.

«Maresciallo, non si sa niente?».

«Chi sei, ragazzino?». Lo aveva intuito, chi fosse. Ma la domanda serviva a creare un po' di sano distacco "sbirresco".

«Sono Tonio, il ragazzo di Caterina».

Una faccia pulita di sedicenne. Magro, scattante, gambe a tarallo di chi passa più tempo a giocare a calcio che sui libri. Occhi castano vivo. E preoccupati.

«Non si sa nulla», rispose il maresciallo, e continuò: «Come andava con Caterina?».

«Bene, marescia', bene».

«Andate alla stessa scuola?».

«No, io vado all'Alberghiero, lei al Classico, a Monopoli».

«Come vi siete conosciuti?».

«La sua migliore amica, Marilena, ci ha presentati a una festa, sette mesi fa».

«E che ci fai in giro, di domenica, così presto?».

«Sono uscito alle sette a cercare Caterina: sono stato da tutte le sue amiche, ma niente, speravo che almeno voi steste facendo qualcosa».

«Certo che la stiamo a fare», rispose un po' piccato Augusto, scegliendo volutamente di parlare in modo gergale. Gli si stava avvicinando per sferrare il colpo. «Senti, ma tu, oltre a giocare a pallone, non studiare e stare con Caterina, che fai?».

«Io studio assai, maresciallo, solo che mo', con i playoff, non sto avendo il tempo di studiare per le ultime interrogazioni. È capace che mi bocciano».

«Ma guarda. Sei un vero geniaccio. Vedi di studiare». Augusto continuò: «Senti, Tonio, ma…», si accese una sigaretta con fare cospiratorio, «secondo me sai fare le foto proprio bene, sai?».

Il ragazzo avvampò, cercando di balbettare qualcosa.

«Maresciallo, stavamo giocando. Io, a Caterina, la voglio bene».

«Lo so, ma evidentemente qualcuno la vuole male, male assai».

«Non ho idea di chi possa essere. Andava pure a dare una mano il venerdì pomeriggio in parrocchia, a spingere quelli con la carrozzella…».

«Vedrai che la troviamo. E mo' dammi un passaggio in caserma, ché se ti ribecco senza casco la prossima volta il motorino te lo brucio».

In caserma chiamò a rapporto il brigadiere Bellantuono.

«Chiama i colleghi del Nucleo Investigativo a Bari. Ho bisogno di sapere a chi appartiene il cellulare da cui è partito il messaggio e dov'era localizzato. Hai tre ore. Chiedi del maresciallo Valente. Digli che la richiesta la faccio io. Stavamo insieme in Iraq».

Bellantuono scosse la testa calva e imponente: «Maresciallo, ma oggi è domenica, la gente si riposa…».

«Bellantuo', ti metti a fare il sindacalista? Muoviti, dài. Tre ore bastano e avanzano. È scomparsa una ragazzina e dobbiamo stare a pensare alle braciole del pranzo?».

Bellantuono uscì con la sua andatura da cavallerizzo disarcionato. Augusto si accese una sigaretta, prese il diario di Caterina e fece una fotocopia ingrandita a colori del disegno, quello strano. La rigirò tra le mani.

Sembrava una faccia. Era una faccia. Ma di chi? E chi è Tribale? Sono la stessa persona? Perché non lo chiama con il suo nome?

Si alzò dalla sedia e iniziò a camminare nervosamente per la stanza. Le amiche. Anzi, l'amica del cuore. Marilena. Si fece dare il cellulare dai genitori di Caterina.

«Sono il maresciallo Trizio».

«Maresciallo, l'avete trovata?».

«No, non ancora. Dimmi: c'era qualcuno che infastidiva Caterina?».

«Infastidirla, no. Le andavano dietro un po' di ragazzi. Alcuni intelligenti, altri meno...».

La voce di Marilena era ferma e puntuale come le sue risposte.

«Senti, Marilena, tra quelli poco intelligenti, ce n'era qualcuno che lo era meno ancora degli altri?».

«Lei parafrasa Orwell nella Fattoria degli animali, maresciallo», disse lei ridendo, con fare civettuolo.

«Beh, sai, studiano anche i carabinieri», ribatté lui, ridendo da adulto. Poi si ricordò che stava parlando con una ragazzina.

«Nicola, Nicola Triggiani: un vero stupido, un mezzo bullo. Fa il garzone alla macelleria equina di via Matteotti, dietro la piazza. Veniva all'uscita di scuola a fare il buffone con il motorino e a provarci con quelle della quarta ginnasio. Ci provava anche con Caterina. Ma lei lo mandava a quel paese. Lui le diceva che se le poteva fare tutte, perché ad uno che ha diciotto anni nessuna dice di no. Un bulletto. Ma non ha fatto niente sicuro».

«Ti ringrazio, Marilena».

«Maresciallo, quand'è che mi chiama in caserma per interrogarmi?».La voce le si era fatta flebile, un po' tremante.

«Non serve, Marilena. La caserma non è un posto per ragazzine».

In attesa di notizie dal Nucleo Investigativo di Bari, continuò a guardare il disegno ingrandito.

Prese le forbici. Iniziò a ritagliare la faccia pezzo a pezzo seguendo le linee che, dal centro della figura, andavano verso il bordo del disegno. Gli sembrava un volto riflesso in uno specchio rotto in un punto e vesciato. Iniziò a comporla come un puzzle, pezzo dopo pezzo. Piano piano. Gli diede una forma umana. Questa faccia aveva cercato di aggredirla alle spalle, una sera. Fuori di casa. Accese una sigaretta e tirò forte. Che razza di indagine. Disegni, diari, soprannomi, turbe adolescenziali. Entrò il brigadiere Bellantuono, senza bussare.

«Maresciallo, i risultati». Guardando la scrivania, aggiunse: «Sta facendo i lavoretti di Natale?».

«Bellantuo', non si bussa? Che è 'sta confidenza? Mettiti sugli attenti. Esci, bussa e rientra senza fare battute idiote».

Esaminò i fogli che il brigadiere gli aveva lasciato sulla scrivania dopo quel siparietto. La scheda telefonica era intestata a tale Antonietta Ballarin, residente a Schio.

Aveva denunciato lo smarrimento ad agosto. Perché non l'aveva fatta bloccare? Semplice: perché una donna di ottant'anni non sa che deve farlo. Tutto qui. L'aveva smarrita in vacanza, precisamente all'albergo Santo Stefano, a Maratea. Il messaggio era stato mandato da un cellulare dalle parti di via Lombardia, nella parte nuova del paese, con un'approssimazione di trecento metri. Vicinissimo a casa di Caterina. Doveva incrociare i dati. L'elenco del personale e dei clienti di agosto dell'albergo Santo Stefano. Qualcuno di Monte Santa Chiara doveva esserci stato, evidentemente. Accese una sigaretta. Aspirò il fumo, espirandolo ad anelli. Tra i dipendenti stagionali, risultava Nicola Triggiani. Guarda un po'. Era il momento di andarlo a prendere, il signorino. Lavapiatti d'estate, garzone di macelleria d'inverno, bulletto per hobby.

Guardò fuori dalla finestra. Sospirò spegnendo la sigaretta. Gli era scappato il pomeriggio sotto le mani e non se n'era nemmeno accorto. Non aveva avvisato casa. Aveva mancato a due promesse che si era fatto dopo l'Iraq. La prima era di rendersi conto del tempo che passava. La seconda di far capire a chi voleva bene quanto gliene volesse. Non ci stava riuscendo.

Pazienza. Il sole era una palla di fuoco che scendeva tra le colline alle spalle di Monte Santa Chiara.

Andiamo dal signor Triggiani, si disse Augusto.

Giocare fuori casa, in un'indagine, aveva i suoi vantaggi. La persona da cui vai, di cui sospetti, si trova spiazzata. Tu sai. Lei no.

Entri nel suo terreno di gioco senza che se lo aspetti. Non si sente più padrona a casa propria. E tu, all'inizio, le fai credere di non avere nulla da perdere. Ma hai tutto da guadagnare. Come piombare di notte in un villaggio nel deserto. Quello che c'è, non può essere più nascosto. Piombi nel buio. Mentre si dorme. È una carognata. Ma così si fa.

A casa di Nicola Triggiani ci arrivò a piedi dalla caserma. Alcuni pezzi del puzzle stavano per andare a posto. Forse.

Lo guardò in faccia e gli sembrò un pallone gonfiato.

«Buonasera, Triggiani, come andiamo?».

«Bene andiamo, maresciallo, che posso fare per lei?».

«Niente. Passavo. Ho finito i soldi nel cellulare, me lo fai mandare un messaggio?».

«Maresciallo, in verità non ho soldi nemmeno io, nel cellulare»,fece quello, innervosendosi un po'.

«Non mi fai entrare in casa?».

«Ci stanno i miei, in soggiorno… Fa niente se ci sediamo sui gradini?».

«Accomodati, è casa tua», Augusto rimase in piedi, mentre Nicola si era seduto sugli scalini dell'ingresso della villetta.

«Ma non hai i soldi nemmeno sull'altra scheda?».

«Quale scheda?».

«Nicola, non fare il fesso: quella che hai rubato ad agosto a Maratea, nell'albergo dove facevi il lavapiatti».

Lo guardò come se gli stesse dicendo di essere un alieno.

«Beh, cos'è quella faccia? Pensavi che non lo avrei scoperto chi è che ha mandato quel messaggio alla mamma di Caterina? Lei ora dov'è?».

«Non lo so», farfugliò, sudando.

Fece la mossa di dargli uno schiaffo, ma all'ultimo momento la mano virò e gli strappò la manica della maglietta. Quella destra.

«Ora vieni in caserma e parliamo meglio, Tribale», disse Augusto sorridendo sinistramente e indicando il tatuaggio di Nicola.

Sceneggiata dei genitori che, tra l'incredulo e l'indignato, si erano visti portare via il figlio dal maresciallo. Insopportabile, per Augusto.

Camminarono per il paese fino in caserma. Nicola a testa bassa e con una manica strappata, Augusto con la sigaretta in bocca, sentendosi come uno dei due carabinieri che, nel romanzo di Collodi, arrestano Pinocchio. Solo che la situazione era grave. Forse sapeva dov'era Caterina. Non fu per caso che in caserma ci tornò a piedi, con il ragazzo affianco, percorrendo tutto il paese. Smuoveva le acque.

Si sedettero nell'ufficio di Augusto. La sola lampada accesa era quella della scrivania. Le pareti spoglie, fatta eccezione per il Tricolore e il Calendario dell'Arma. Dietro la sedia, la foto che ritraeva lui e Shareefa con in testa il suo basco. Due giorni prima che morisse.

«Quella bambina è sua figlia?», chiese Nicola, come per sentirsi meno a disagio.

«No».

«E chi è?», insistette lui.

«Non sono cose che ti riguardano», tagliò corto Augusto. «Non stai messo bene, Nicola. Il messaggio che hai mandato non ti mette in una buona posizione. Perché lo hai fatto? Ti diverti a fare scherzi di dubbio gusto? Eh no, perché tu non sapevi che Caterina non era tornata a casa. Lei di te ha scritto nel suo diario che sei uno stupido. E poi hai davvero un soprannome idiota: Tribale. Ma chi diavolo sei, Rambo? Indiana Jones? O forse ti vedi più come Casanova, con quella faccia…».

«Mo' basta, marescia'!», urlò Nicola.

«Ehi, stai calmo, ti sei messo nei guai come un imbecille. Lei dov'è? Ti aveva respinto?».

Iniziò a piangere. Un ex duro. «Io non ho fatto niente, non so dov'è…».

«Stammi a sentire: tu non potevi sapere che Caterina non era a casa. E allora perché quel messaggio? A meno che non l'abbia presa tu per farle qualcosa…». Le ultime parole gliele urlò quasi in testa, dopo aver fatto il giro della scrivania.

«Bellantuono!», gridò Augusto, con le tempie che gli pulsavano. Il brigadiere comparve. «Accompagna il signorino nella "suite" e avvisa i suoi, che stanotte a questo gli facciamo schiarire le idee».

Accese una sigaretta per calmarsi. Espirò il fumo. S'abbatté sulla sua poltrona. Non avrebbe dormito a casa.

Andò nel bagno degli alloggi. Si fece una doccia fredda. La stanchezza lo assalì alle spalle. Come le domande su Nicola che mulinavano nella sua testa. Può un bulletto fare del male ad una ragazza? Se sì, forse non ha fatto tutto da solo. O forse non ha fatto nulla, e allora il tenente verrà da Monopoli e mi farà a pezzi. Rimane il tipo del disegno. Ammesso che esista e che quel volto disegnato non fosse il frutto della fantasia di una ragazzina, in bilico tra innocenza e ormoni che iniziano ad entrare in circolo. Troppi, per un'adolescente che viva in un posto come Monte Santa Chiara, dove basta che una ragazza vada a studiare a Bari perché in giro si dica che è una poco di buono. Bellantuono aveva lasciato Nicola in cella, che tremava come una foglia. Con la maglietta strappata e il suo tatuaggio di dubbio gusto all'aria. Come fosse un marchio: sono un guappo di periferia. Sono un guappo di cartone. Si accese un'altra sigaretta. La spense dopo due boccate. Un sonno di piombo lo vinse.

Smonti dal blindato. Corre verso di te. Le metti il tuo basco con la fiamma dei Carabinieri.

Le porgi un biscottino mettendoti in ginocchio. Lei lo prende furtiva. Ti sorride. La guardi meglio negli occhioni grandi grandi e scuri scuri. Ti sfili gli occhiali antisabbia perché Shareefa, con il ditino, ti indica qualcosa in cielo. Aquiloni. Rossi, di un bel rosso acceso. Ti mette il braccino attorno al collo. La prendi in braccio. Andate verso gli aquiloni. I bambini delle casupole li stanno facendo volare. «Maresciallo, dove va? Maresciallo, torni qui!», urla il sottotenente. «Signore, ma la bambina…». «Che importa della bambina? La metta giù o quando torniamo al campo le farò rapporto! Dove crede di essere, al parco giochi?». Risatine dei compagni, poco benevole.

Metti a terra la bimba, che ti guarda un po' delusa. Le fai una carezza. Scusa, Shareefa. Verrò qui da solo e andremo a giocare con i bambini, con gli aquiloni che volano.

Il vento soffia. D'improvviso soffiano anche i colpi di kalashnikov. Tutti giù. L'Inferno. Pochi attimi. Sono tutti vivi. Solo Shareefa è un mucchietto immobile sulla sabbia.

Augusto si risvegliò ansimando. Ancora quell'incubo. Il fiato corto. Si accorse di non essere a casa. In caserma non c'era il brandy. Si alzò. Aprì il cassetto e iniziò a lucidare il distintivo del brevetto da paracadutista. Ali d'argento. Lo strofinò con forza, con rabbia. Riluceva. Aveva voglia di buttarsi ancora. Nel deserto, da qualche parte. Sentiva il bisogno di gettarsi nel vuoto da un elicottero. Se il paracadute non si apre e quello di emergenza nemmeno, beh, Amen. Meglio andarsene in un Amen. Come se n'era andata Shareefa. Nemmeno il tempo di giocare con un aquilone. E lui l'aveva delusa.

Guardò l'orologio. Le tre. Il sonno era completamente andato via. Stava per rimettersi a letto quando entrò di corsa il piantone, quello con la faccia da ragazzino. «Ma in questa caserma non avete l'abitudine di bussare?». Si adirò Augusto. «Esci ed entra di nuovo».

«Maresciallo, io lo faccio, ma è venuto uno che dice di aver trovato il corpo di una ragazzina…». «Avvisa i colleghi a Monopoli, che mandino qualcuno. Qua ci siamo io, te e la Carlone che dorme nell'alloggio. Porta qui subito il testimone, ma se non bussi, ti sparo!».

Dissolvenza. Questo è quello che Augusto sentì guardando dinanzi a sé il tizio con la faccia butterata che gli raccontava di aver trovato, in un trullo abbandonato poco fuori dal paese, il corpo abbandonato di una ragazzina con un coltello nella schiena.

Sentì pulsare le tempie. Aprì il cassetto e iniziò a rovistare mentre quello parlava. Trovò quello che cercava. Lo richiuse. Guardò il tizio in faccia. Riguardò nel cassetto. L'uomo iniziò a fissare Augusto come fosse un pazzo. Il maresciallo ghignava sinistro. Il tizio, stando alla carta d'identità, rispondeva al nome di Giuliano Larosa, carpentiere, quarantadue anni. Augusto lesse dove risiedeva e ghignò in modo ancor più inquietante, mentre l'altro iniziava a temere che quel maresciallo potesse fargli del male. Augusto iniziò a sentire l'odore della paura. Aveva iniziato a distinguerlo in Iraq, quell'odore. Era il suo. Quello del sottotenente. Quello dei suoi compagni. Lo avvertiva durante i pattugliamenti notturni. È un odore che non si dimentica.

Mai.

Diceva di averla trovata faccia in giù. Nel trullo. Venti minuti prima. E, non avendo un telefonino con sé, era venuto in caserma direttamente. Era entrato nel trullo abbandonato per fare un bisogno. Era in giro per far fare una passeggiata al cane.

«Hai una sigaretta?», chiese Augusto, smettendo per un attimo di ghignare.

«No, marescia', non fumo», fece il tizio, quasi volesse scusarsi.

«Ah, eccole», disse Augusto rovistando nel cassetto e continuando a guardare Larosa. Aveva ripreso a ghignare.

«Senti, Larosa, questa è la ragazzina?», gli stava mostrando la foto di Caterina. Una che gli avevano dato i genitori.

«Sì, maresciallo, sicuro è lei».

«E come hai fatto a vederla se era faccia a terra, come dici tu, e il trullo è al buio?». Silenzio.

«Non hai il cellulare né l'accendino per far luce». Sbuffò del fumo. Riprese. «Magari, però, sei un buon osservatore. Con gli occhi a raggi infrarossi…». E ancora: «Dal tuo documento di identità risulta che abiti davanti a casa di quella carogna di Nicola Triggiani».

«Sì, ho visto che lo stava portando in caserma».

«Hai visto? È proprio un cattivo soggetto… Mi scusi un attimo».

Augusto andò verso la porta e chiamò urlando il piantone, che arrivò mettendosi sugli attenti. Richiuse la porta dell'ufficio alle sue spalle. «Butta giù dalla branda la vice brigadiere Carlone e dille di controllare se in via Lombardia c'è ancora, davanti alla casa dei genitori di Caterina, un'auto con il vetro rotto, come c'era ieri mattina. Voglio sapere di chi è e da quanto tempo si trova lì». «Ma maresciallo, sono quasi le quattro...».

Augusto urlò peggio del quadro di Munch: «Ma possibile che in questa caserma, oltre all'abitudine di non bussare, vi è presa la smania di fare i sindacalisti? Muoversi! Dille che ha un'ora di tempo. Altrimenti vi metto di piantone di notte, tutti e due, fino alle Calende greche. Chiaro?». Pensò che le sue urla le avevano sentite sino a Castellana Grotte.

Tornò in ufficio e al tizio che lo guardava terrorizzato, con la faccia dell'agnello prima di essere sacrificato.

«Mi scusi ancora, ma sa, questi colleghi così giovani non sono troppo lesti ad ubbidire».

«Ma no, si figuri. Avete mandato qualcuno a vedere?».

«Certo, abbiamo avvisato la tenenza di Monopoli. Sa, noi siamo una casermetta. Il paese è molto piccolo». Era tornato, come prima dell'interruzione, a dargli del lei. Un modo come un altro per disorientarlo. Augusto vide che gli sudavano le mani.

«Toglimi una curiosità: tu, quando sei sul cantiere, dove vai a fare i tuoi bisogni?».

La faccia butterata del tipo era un punto interrogativo. «Vado all'aperto, marescia'».

«E com'è che stasera sei entrato nel trullo, a farla?». Silenzio. E due. Se la Carlone gli portava buone notizie, era quasi a posto. Ancora quel ghigno. Richiamò urlando il piantone. Gli bisbigliò nell'orecchio di rimanere di guardia sulla soglia dell'ufficio e di tenere sott'occhio il carpentiere, mentre si allontanava, non senza prima rivolgergli un'occhiataccia e vederlo irrigidirsi sulla sedia.

Scese nella cella dove era rinchiuso Nicola e aprì la porta. Lo trovò in un angolo, sempre più spaventato.

«Perché tremi? Non sono venuto a darti mazzate», fece Augusto. Lo squadrò e iniziò il bluff. «Abbiamo trovato il corpo. Sulle corde che legano i polsi di Caterina ci sono le tue impronte. Abbiamo preso pure all'altro compare tuo. Dice che le corde per la festa le hai portate tu, così come il coltello». Omise a bella posta il nome del carpentiere: non era ancora completamente sicuro di aver imboccato la strada giusta.

«Quel cornuto!», sobbalzò Nicola sulla branda. «La teneva ferma lui per le mani».

Augusto sentì pulsare le tempie. Lo sbatté al muro, urlandogli in faccia: «La coltellata gliel'hai data tu, però, non è vero? Rispondi!».

Scoppiò a piangere. Fece sì con la testa.

«Perché?», urlò.

«La volevamo...», rispose l'altro.

Augusto lo mollò disgustato, sbattendolo al muro.

Risalendo la rampa di scale, incrociò la vice brigadiere Carlone. Scattante e snella. Lucida anche nel cuore della notte. Ordinata e precisa.

«Maresciallo, la macchina risulta rubata a Matera. Dev'essere lì da almeno una settimana, perché il primo richiamo al Comune per farla rimuovere è di sette giorni fa. In ogni modo, ha il finestrino posteriore vesciato, non rotto, maresciallo. È quello lato strada, stando a come è stata parcheggiata l'auto».

«Grazie, vice brigadiere», le disse Augusto, scoprendosi a sorriderle in modo aperto e sereno. Indugiando troppo, forse, in quel sorriso. La rabbia gli rimontò molto presto. Caterina aveva visto il viso del suo aggressore riflesso in quel vetro: ecco perché lo aveva disegnato in quello strano modo. Ricomposto, il disegno era uguale al viso di Giuliano Larosa. Bastardo. Aveva anche cercato di fare il furbo, venendo a denunciare il ritrovamento del cadavere. Per rendersi insospettabile. Aveva visto il maresciallo beccare Nicola, dato che viveva di fronte a lui, e aveva voluto giocare d'anticipo, chiamandosi fuori. Ma aveva sbagliato tutto. E Caterina, nel tentativo di superare il trauma di quel tentativo d'aggressione, aveva fatto un disegno che equivaleva ad una fotografia. Per chi lo avesse saputo leggere. I segreti si nascondono lì dove chi sappia cercare può trovarli.

Era il momento di attaccare. Si sedette alla sedia. Lo guardò e ghignò.

«Sai che sei brutto forte?», domandò retorico Augusto. «Preferirei fotografare il mio fondoschiena piuttosto che la tua faccia».

Larosa lo guardò stizzito.

«Però la buonanima di Caterina un disegno te lo ha fatto, maiale», incalzò Augusto mostrandogli il disegno che lui aveva ricomposto.«Hai cercato di aggredirla, come il delinquente che sei». D'improvviso balzò dalla sedia aldilà del tavolo e lo afferrò per il colletto della camicia sdrucita, scuotendolo. «Qua ci sono i test scientifici già fatti dai colleghi di Monopoli e sul coltello ci sono le tue impronte», disse sventolandogli i fogli che gli aveva dato la Carlone. Aveva fatto scattare la trappola.

«No, maresciallo, io l'ho solo tenuta ferma, è Nicola che le ha dato la coltellata. Si divincolava. Noi volevamo…». Mollò la presa. Larosa continuò, boccheggiando. «Dopo siamo scappati tutti e due. Nicola l'aveva attirata lì dicendole che c'era una cucciolata di gattini. Ma non l'abbiamo violentata».

Iniziò anche lui a piangere.

Augusto avvertì un senso di nausea. Per un attimo pensò all'Iraq. Lì c'era da avere solo terrore. E basta. Qui si aggiungeva anche lo schifo.

«Perché Nicola ha mandato il messaggio alla madre di Caterina, stamattina?».

«Voleva prendere tempo, evitare che i genitori avvisassero i Carabinieri, così che avessimo modo di nascondere il cadavere. Mi aveva dato appuntamento per questo, ma io non ci sono andato. Alla fine sono tornato là stanotte. Caterina era ancora lì».

Larosa abbassò lo sguardo mentre singhiozzava ripetendo il nome di Dio. Solo Lui avrebbe potuto perdonarlo.

Caterina, Augusto lo venne a sapere qualche giorno dopo, era rimasta per ore ad agonizzare in quel trullo.

La coltellata all'altezza dello sterno non era stata forte. Era morta dissanguata. Una ragazza uccisa perché non si era concessa ad un bullo di diciotto anni e ad un adulto laido. Forse era meglio la guerra, pensò Augusto vedendo spuntare il sole.

Il maresciallo Trizio si fece aprire il cancello dal custode del cimitero. Caterina era sepolta nella zona nuova. La notte era calda, appena scossa da un alito di brezza marina.

«Visto, Caterina? Da qui vedi anche il mare», mormorò come per non svegliarla, guardando il mare che era tanto vicino da poterlo toccare. Lasciò delicatamente un mazzetto di fiori con un bigliettino. Su di esso i versi iniziali di Under the bridge, dei Red. Li intonò piano: «Sometimes I feel / like I don't have a partner / Sometimes I feel / like my only friend / is the city / I live in / the city of angels / lonely as I am / together we cry…».

«Addio, Caterina».