Un autunno in rosso

«Mannaggia la mucca Carolina…», mormorò involontariamente comico il maresciallo Grigenti mentre chiudeva il giornale, pensando ben altro. Aveva optato per quelle edulcorate perifrasi ormai dalla nascita di Diego, due anni prima, per perdere l’abitudine al linguaggio da caserma e non dare cattive abitudini al piccolo. L’appuntato sorrise, ma senza vero divertimento: sapeva per esperienza che situazioni come quella, a prescindere dalla loro gravità, comportavano per loro un tour de force che non avrebbe lasciato più spazio ad esigenze personali e vita privata.

«Ma sempre quando la comando io, la Stazione, devono succedere queste cose?», si domandò il sottufficiale, senza attendersi una risposta.

«Marescia’, e si vede che portate ’nu poco scalogna…», lo apostrofò invece candidamente il dipendente.

Il maresciallo gli lanciò un’occhiataccia, piegò il giornale e lo lanciò, sbuffando, sul tavolo. In prima pagina campeggiava eloquente un interrogativo: Il ritorno delle Bestie di Satana?

Anche se sembravano dieci, era in realtà trascorso solo un giorno dall’uggiosa mattina del 25 ottobre in cui, nel corso di una pattuglia come tante, la Centrale operativa li aveva inviati al cimitero di Trofarello, su richiesta del custode. All’interno, adagiato sulla tomba di una bambina, il cadavere di Tullio Canale, classe ’85, nudo, con braccia e gambe allargate come quelle di un tetro uomo Vitruviano, pugnalato al petto. Attorno al corpo era tracciato un rozzo pentacolo, un mozzicone di candela nera in corrispondenza di ognuna delle punte. Sulla lapide, una scritta ermetica in vernice rossa si andava sciogliendo sotto la fine pioggerellina che da qualche ora cadeva incessante, colando sulla liscia pietra tombale in macabri rigagnoli sbavati. Da quando la notizia era finita sulla stampa nazionale, nonostante ogni tentativo di tenere il riserbo, se non proprio sull’accaduto, almeno sui dettagli, si erano aperte le danze, e il maresciallo Grigenti aveva avuto sul collo il fiato di superiori, Procura e giornalisti.

«Candela, prepara la macchina. Andiamo a parlare con il medico legale», disse Grigenti rivolto all’appuntato. In due, erano metà della forza della Stazione Carabinieri di Trufarello, con il Comandante titolare in missione all’estero e il brigadiere in convalescenza. Rimanevano i carabinieri Esposito e Tinca, relegati in ufficio. Certo, erano intervenuti il Reparto Operativo e il RIS, ma le indagini minute toccavano, in ogni modo, alla “coppia fissa” maresciallo ed appuntato. Grigenti, ben lungi dal sentirsi un novello Sherlock Holmes in compagnia di un improbabile Watson salernitano, salì a bordo della Punto in un rosario di vacche Clarabelle e pupazze disneyane.

Strada facendo, Grigenti non riusciva a smettere di rimuginare in silenzio sul giorno del ritrovamento, cercando il bandolo di una matassa che gli pareva avesse ben più di un nodo da districare.

La mattina del giorno prima, spiazzato dall’improvviso sostituirsi della tragedia alla quotidianità, il maresciallo aveva benedetto il suo cellulare, con cui aveva scattato diverse foto alla scritta prima che venisse inevitabilmente cancellata dalla pioggia.

OI ONOS AL AIV AL ATIREV AL ATIV

ONUSSEN ENEIV LA ERDAP ES NON REP OZZEM ID EM

La frase sulla lapide, ovviamente, non rimase criptica a lungo. Bastava leggerla al contrario, per ottenere:

IO SONO LA VIA LA VERITA LA VITA

NESSUNO VIENE AL PADRE SE NON PER MEZZO DI ME

Fin dall’inizio, gli era sembrato ci fosse in quella scena qualcosa che non quadrava, anche se non avrebbe saputo dire con esattezza cosa. Era più il quadro d’insieme, ad apparirgli stonato. Aveva la bizzarra impressione di trovarsi non tanto di fronte alla scena di un delitto, quanto piuttosto in un tunnel dell’orrore di qualche luna park di terza categoria, ad ammirare una grossolana rappresentazione di qualcosa che, dal vivo, sarebbe stato tragico. Sembrava troppo incredibile per crederci, anche se il cadavere era lì, vero ed innegabile, proprio di fronte ai suoi occhi, i capelli impastati di sangue e terra, la pelle lattea screziata di pioggia.

Il ragazzo era una vecchia conoscenza del Comando Stazione, che diverse volte era intervenuto in occasione delle sue bravate. Viveva da solo in un appartamento di una piccola palazzina e si manteneva suonando la batteria in diversi gruppi heavy metal. In paese era conosciuto come un attaccabrighe e un donnaiolo, due aspetti della sua personalità che facevano il paio, allargando di molto il campo dei possibili sospetti. Aveva quel che si dice la “sbornia cattiva”: nel solo mese di agosto, aveva collezionato due querele per lesioni personali, in entrambi i casi liti scoppiate al pub per questioni di donne. A suo carico, anche diverse segnalazioni per consumo di sostanze stupefacenti e non si sa quante relazioni di servizio delle pattuglie intervenute per le lamentele dei vicini, a causa della musica ad alto volume o della simpatica abitudine di esercitarsi alla batteria in casa.

Nonostante questo, morire in quel modo a venticinque anni era veramente insensato, aveva pensato Grigenti. Il piccolo cimitero, trasandato ed invaso dalle erbacce e dalle foglie autunnali, rendeva ancora più squallida la scena.

«Quando l’ha trovato?», aveva chiesto il maresciallo al custode, tale Vito Marghera, dipendente comunale part-time, noto ubriacone e perdigiorno a tempo pieno. «Stamattina, saranno state le otto e cinque, otto e dieci al massimo». Grigenti non era riuscito a nascondere del tutto una smorfia, mentre si allontanava quel tanto da sottrarsi al suo alito, che già a quell’ora puzzava di vino. «Stavo facendo il mio giro di controllo come ogni giorno, quando mi sono trovato davanti questa scena d’inferno. Io comunque non ho toccato niente, eh, sono stato attento, sa?».

«Ca… spiterina», si era corretto il maresciallo, «ma ci puoi credere che in giro c’è davvero qualcuno in grado di fare una cosa simile?», aveva domandato a Candela.

«Marescia’, voi siete arrivato nemmeno da un anno nella provincia di Torino, ma io, che sono qui da quasi quindici anni, di cose di questo tipo ne ho viste. Chiedete al brigadiere quanti gatti scannati che abbiamo trovato…».

«Un uomo è molto diverso da un gatto, però», obiettò Grigenti.

«Oggi è un gatto, domani un cane e poi non ci vuole niente che ammazzi un cristiano. Quelli sono bacati nella testa, ve lo dico io. Si riempiono di droghe e sentono quello schifo di musica, e il risultato è questo…».

«Una cosa è strana, però, marescia’».

«Che cosa, Candela?».

«In altri casi in cui abbiamo trovato gatti o uccelli ammazzati dai satanisti, era il 31 di ottobre. Quel giorno sembra che escano tutti dai loro buchi…». Il volto di Grigenti si era illuminato.

«Hai ragione», aveva convenuto. «Manca ancora una settimana ad Halloween…».

I ricordi del maresciallo, che per tutto il tragitto aveva rimuginato fra sé, furono interrotti dalla voce roca dell’appuntato.

«Marescia’, siamo arrivati».

La dottoressa Chen scoprì il corpo ed indicò i segni delle corde che segnavano i polsi e le braccia del ragazzo.

«Per la mucca Gilda…», mormorò Grigenti.

«Prego?», domandò la dottoressa.

«Niente, niente», si schermì il maresciallo arrossendo leggermente. «Dica pure».

«Osservate: le escoriazioni sono lievi, causate più che altro dalla pressione dei legacci sulla pelle; si può escludere che si sia divincolato per liberarsi, altrimenti il derma sarebbe stato considerevolmente più abraso».

«Intende dire che dire che prima è stato ucciso con il colpo alla testa e solo dopo è stato legato?».

«Per la precisione è stato legato mentre era ancora in vita, anche se il decesso, avvenuto di lì a poco, è stato causato dalla ferita alla base del cranio. La totale assenza di reazione piastrinica prova che, al momento della pugnalata al cuore, il ragazzo era già morto».

«Forse l’assassino non se n’era accorto», ipotizzò Candela.

«Secondo me, invece, lo sapeva: guarda un po’ là», disse Grigenti, indicando il petto del ragazzo. Poco sopra la clavicola destra, un’ustione circolare a forma di spirale marchiava la pelle lentigginosa.

«Ha ragione, maresciallo, anche quella bruciatura è successiva alla morte», confermò la dottoressa Chen. «Dopo l’assenza di reazioni all’ustione, non può non aver capito».

«E allora perché l’ha pugnalato lo stesso?», si domandò l’appuntato.

«Forse faceva parte del rito», ipotizzò la dottoressa. «Comunque, se trovate l’oggetto che ha lasciato quella bruciatura, probabilmente troverete l’assassino».

«È stata fatta con un accendisigari da auto», dichiarò Grigenti.

«È vero», concordò la dottoressa, leggermente sorpresa, «non ci avevo pensato, forse perché non fumo. Comunque, la spirale che ha marchiato la pelle vi ha impresso perfettamente il suo disegno. Se guardate la parte superiore, noterete che c’è un’irregolarità: una delle spire è spezzata, piegata, e tocca quella più interna. Quel difetto è la chiave di volta, la firma dell’assassino, per usare un’espressione da romanzo giallo».

«Questo è davvero un buon elemento», considerò Grigenti, mentre scattava una foto ravvicinata alla bruciatura con il suo telefono.

«Cos’altro mi può dire, dottoressa?».

«Prima di tutto, considerando la posizione delle ecchimosi e la parziale risoluzione della rigidità post-mortale degli arti, credo che il corpo sia stato trasportato sul luogo del ritrovamento tra le tre e le cinque ore dopo la morte, da almeno due persone». Candela la guardò ammirato mentre parlava. «Poi c’è una cosa piuttosto strana, per la verità. Dall’esterno non lo avevo notato neanche io, perché il cadavere è stato accuratamente ripulito dopo la morte. Comunque, al ragazzo sono stati perforati entrambi i timpani con uno strumento appuntito, uno spiedo o qualcosa di simile. Anche questo è avvenuto dopo il decesso».

Grigenti era scuro in volto. Al puzzle si aggiungevano pezzi nuovi ad ogni istante, senza che ancora il disegno cominciasse neppure ad intravedersi.

«Cosa mi dice delle armi usate?».

«Il cranio ha riportato una frattura radiale mediante l’utilizzo di un corpo contundente privo di angoli netti. Il pugnale con cui è stato inferto il colpo al cuore, invece, è un’arma bitagliente, lunga almeno venti centimetri e larga quattro. Dall’aspetto della ferita, l’assassino è probabilmente mancino».

«Che cosa intendeva, prima, quando ha detto che il corpo è stato ripulito dopo la morte?».

«Esattamente questo. Chiunque sia stato, ha avuto cura di non lasciare la benché minima traccia, biologica o meno, sul corpo della vittima. A meno che il ragazzo non fosse affetto da orticaria fisica acquagenica, in altre parole non fosse allergico all’acqua, direi che il cadavere è stato addirittura deterso con alcool etilico. Salvo che sul resto della scena del delitto la vostra Sezione Rilievi non trovi qualcosa di veramente interessante, per ora, si può dire che l’assassino sembrerebbe aver voluto compiere il classico delitto perfetto».

«Marescia’, la vedo di umore un po’ grigio…», disse l’appuntato sorridendo, per sdrammatizzare. Grigenti lo guardò con scocciata sufficienza e si umettò le labbra.

«Bravo Candela, non me l’hanno mai fatta, questa battuta…».

«E va beh, era per tirarvi un po’ su…», rispose quello.

«Vuoi tirarmi su? Allora fermati da Carla ed offrimi la colazione, che non l’ho ancora fatta».

«Marescia’, io ve la offro pure, la colazione, ma veramente tenete appetito dopo quello spettacolo?».

«Non lo so, Candela. Tu intanto portami da Carla, che poi vediamo, se riesco a buttare giù qualcosa…».

Tre minuti dopo, mentre addentava un tramezzino con uova, wurstel e senape, Grigenti era ancora assorto nei suoi torvi pensieri di autocommiserazione.

“Ma mannaggia la paperella! Il ‘delitto perfetto’, dice quella… Dopo cinque anni a Milano, me ne vado in provincia a cercare un po’ di tranquillità e, appena prendo il comando della baracca, giù sette sataniche e delitti perfetti…”

«Marescia’, permette una cosa, senza che vi offendete?», chiese Candela con un’espressione disgustata.

«Dimmi, Candela», rispose Grigenti.

«Fate veramente schifo…!».

«Eh, capirai, per un tramezzino! Va beh, vuol dire che questa colazione la offro io, va’. Carla! Facci due cappuccini con il gianduiotto, per favore!».

«Subito», rispose la procace barista. L’appuntato scosse la testa rassegnato, poi gli chiese cosa avrebbero fatto a quel punto. «Innanzitutto, passiamo dalla Polizia Locale a vedere le immagini delle telecamere della notte tra il 24 e il 25 che gli ho chiesto ieri. Poi andiamo ad arrestare quel figlio di donna allegra che, sicuramente, potremo distintamente vedere in volto nell’atto di colpire la vittima sulla nuca, nonché tutti i suoi complici, che senza difficoltà identificheremo. Nella remota ipotesi che le cose non dovessero svolgersi esattamente in questo modo, andremo a parlare con i vicini di casa di Canale, per sentire se ci sia qualcuno, fra i suoi innumerevoli nemici, che lo odi sensibilmente più degli altri e che magari, nel tempo libero, adori il demonio».

Tracannò ciò che rimaneva del suo cappuccino, avendo cura di far scivolare lungo il fianco della tazza il gianduiotto semidisciolto, poi, con un sorriso beato, si rimise il berretto in testa e si avviò verso la porta.

Risultò che la Polizia Locale, che si componeva di tre baldi rappresentanti, aveva avuto qualche “difficoltà tecnica” nell’estrapolare il dato investigativo dal mezzo tecnologico. In pratica, il giorno prima mancava quello dei tre che sapeva come recuperare le registrazioni dal server. Risultato: la faccenda era rinviata al pomeriggio.

Ci mancò poco, ma davvero poco, perché Grigenti si abbandonasse al saccheggio all’interno del Municipio. Placate le sue ire, Candela lo trascinò via dal Comando della Polizia Locale e guidò in silenzio fino alla palazzina dove aveva dimorato in vita Tullio Canale.

«Ma benedettissimi muppets!», sbraitò, arrabbiato per davvero. «Ma nemmeno una cortesia gli si può chiedere, a questi! E andiamo, ca…spio! E si tratta di omicidio! Se per le due non hanno finito, giuro che sequestro il Municipio!».

Candela, che aveva imparato a lasciarlo sbollire, quando era in quelle condizioni, si limitò ad aspettare. “Meno male che è sabato mattina e qualcuno in casa troveremo”, pensò.

«Va beh, Cande’», disse il maresciallo dopo aver scartabellato per un minuto fra le carte dell’indagine, «andiamo a vedere chi ci abita, in questa palazzina».

«Allora, dottor Rossi, in che rapporti era con il Canale?», cominciò a domandare il maresciallo al diffidente ometto che lo aveva accolto ancora in pigiama e lo aveva fatto accomodare in un angusto studietto per non svegliare la moglie e le figlie ancora a letto.

«Guardi, brigadiere, ci conoscevamo appena…».

«Sono maresciallo, veramente».

«Ah, mi scusi, maresciallo, non conosco i vostri gradi…».

“Allora perché li usi?”, avrebbe voluto chiedergli Grigenti, trattenendosi a malincuore.

«Non importa. Continui pure».

«Beh, sa, non c’è molto da dire… Buongiorno e buonasera, niente di più…».

«Mi scusi, ma è del suo defunto dirimpettaio che stiamo parlando. Possibile che non sappia dirmi nulla di più?».

L’omino si strinse nelle spalle, quasi a scusarsi.

«Va bene, senta», lo incalzò Grigenti, «sa se per caso aveva avuto problemi particolari con qualcuno? Lo aveva mai visto o sentito litigare?».

«Senta, maresciallo» parve arrendersi l’uomo, dopo alcuni secondi di incertezza ad occhi bassi, «io non voglio problemi. Parliamoci chiaro: quello era un rompiscatole e l’ho sentito litigare con mezza Trofarello, oltre che con alcuni condòmini. Faceva un baccano infernale, con quella batteria, ed era un gran prepotente. Lo sentivo anche da casa mia, ma non gli ho mai detto niente perché tendeva a diventare violento. Non che avessi paura per me, intendiamoci, ma ho due bambine piccole! Comunque, quello che sapevo ve l’ho detto. Non mi chieda di più perché non vorrei si facesse delle idee sbagliate e magari qualcuno finisse nei guai per causa mia, poi magari dovrei testimoniare e…».

«Ma per chi mi ha preso?», lo interruppe brusco Grigenti. «Davvero lei pensa che, solo perché mi racconta qualche bega di condominio, io corra ad arrestare la signora del terzo piano? E poi, se davvero, per assurdo, fosse stato proprio uno dei vicini ad ucciderlo? Devo pensare che per “non avere problemi” lei ostacolerebbe le attività d’indagine?».

L’ometto abbassò lo sguardo, totalmente in crisi. Intervenne Candela ad alleggerire la tensione, nei panni dello sbirro buono.

«Non si preoccupi, dottor Rossi, abbia fiducia. Racconti quello che sa al maresciallo, che è persona d’esperienza».

«Va bene…», si arrese infine quello. «Ecco, so che aveva avuto problemi con la vedova Cristallo per la musica alta, e che lei aveva presentato a voialtri una denuncia, o qualcosa del genere. Ha mandato a quel paese anche il figlio, che vive a Torino. Per lo stesso motivo, ha litigato anche con quello del piano di sopra, che infatti ha deciso di andarsene. Al suo posto è arrivato un amico di Canale, Barozzi credo si chiami, un tipo come lui, che suona e che ovviamente non si è mai lamentato del rumore. Con la signora Patrizia, dell’ultimo piano, non sono in grandi rapporti, perché mia moglie non ha… ehm… piacere che ci entri in confidenza. Infine c’è la vedova Trifoglio, del primo piano, che però è arrivata da soli due mesi, e non ve ne so dire nulla».

«Vede che non era difficile?», domandò con un sorriso Grigenti, prima di alzarsi e dirigersi verso la porta.

«Odio quelli che usano i gradi senza conoscerli», si sfogò una volta fuori.

«Anche a me danno fastidio, marescia’, ma quello là ancora un poco e ve lo mangiavate! Vi dovete calmare, che vi fa male alla salute arrabbiarvi così…».

«Sì, sì…», brontolò il sottufficiale, salendo le scale. «Ma dimmi un po’, chi è questa Patrizia che sta tanto antipatica alla moglie di Rossi?».

«Marescia’, non ridete… Ficco Patrizia è quella bionda che vi ho fatto vedere la settimana scorsa da Carla…».

«Quella?!? E si chiama Ficco? Quella pu… puledra, si chiama davvero Ficco?».

«Marescia’, davvero. Si vede che era destino…».

Al campanello della vedova Trifoglio non rispose nessuno, e i due militari salirono quindi all’ultimo piano.

«Allora, andiamo a conoscere questo Roberto Barozzi», disse Grigenti, leggendo la targhetta sulla porta.

L’appartamento non era la porcilaia che i due carabinieri si sarebbero aspettati. Il letto sfatto, qualche libro sul comodino, vestiti ammassati su una sedia e nulla di più. Il ragazzo li fece entrare senza neanche un accenno di protesta e li accompagnò in salotto. Come rocchettaro ribelle, era decisamente scadente.

«Allora, come conoscevi Tullio Canale?», chiese il maresciallo, mentre osservava l’ambiente circostante con apparente noncuranza.

«Conosco… anzi, conoscevo, è il caso di dire…», si corresse con voce un po’ strozzata, «conoscevo Tullio ormai da cinque anni. L’ho incontrato ad un festival e ci siamo trovati fin da subito in sintonia come vecchi amici. Dopo nemmeno due mesi, avevamo già messo insieme gli Insurrection. A giorni sarebbe uscito il nostro secondo album».

«Vedo che suoni la chitarra», osservò Grigenti, indicando con un cenno una foto appesa al muro che ritraeva il ragazzo intento in una performance su un palco.

«Sì, è la mia passione da quando avevo tredici anni».

«So che il tuo amico aveva accumulato parecchie ruggini… Forse potresti dirci se conosci qualcuno che avesse particolari motivi per volergli male o se ultimamente, anche solo per motivi diciamo professionali, si fosse messo a frequentare sette di qualche tipo…».

«Tullio non frequentava alcun genere di sette, maresciallo. Mi permetta di spiegarle che potrebbe essersi fatto un’idea sbagliata, sentendo le voci di paese. Lui non era il delinquente che credono tutti. Faceva lo spaccone per vincere la sua insicurezza, per reagire ad un ambiente che lo considerava strano, che lo etichettava solo per essere un musicista metal, in Italia, per giunta. Non dia retta ai luoghi comuni: quello che facciamo è solo musica, provocazione, show. Nessuno di noi inneggia veramente a Satana; nessuno crede di essere una cattiva persona. Non si faccia ingannare da copertine vistose e da…».

«Ragazzo, se fossi in te mi farei un favore e la pianterei», lo interruppe brusco Grigenti, non senza una sensazione di dejà-vu. «Ti faccio notare che, quando tu andavi all’asilo, io compravo i miei primi dischi dei Led Zeppelin e AC/DC. Ho trascorso la mia giovinezza negli anni Novanta, non nel primo dopoguerra. Ma davvero mi credi così ottuso da pensare che tutti quelli che sentono heavy metal siano satanisti?».

Il giovane era rimasto di stucco.

«Ma io, forse… Forse mi sono spiegato male…», cercò di rimediare, balbettando. Grigenti lo fermò con un gesto stizzito della mano.

«Ciò però non significa che nessuno lo sia», proseguì, «come invece stai cercando di darmi a bere tu. E allora, non te la prendere, ma mi viene spontaneo chiedermi perché tu lo stia facendo. Ha forse qualcosa a che vedere con la Bibbia di Satana che ho notato sul comodino, vicino al Signore degli Anelli, passando davanti a camera tua?».

Dal volto del ragazzo defluì ogni traccia di colore.

«Dimmi», lo incalzò il maresciallo, «dove eri tu la notte in cui il tuo amico è scomparso? Mi risulta che tu sia stato fra gli ultimi a vederlo in vita, giusto?».

«Non mi starà mica accusando, spero! Io e Tullio eravamo amici!», s’indignò il giovane. «Quelli sono solo libri che uso per prendere spunto per i testi delle canzoni, nulla di più!».

«Non ti agitare, non ti agitare… Non ti sto accusando di niente, altrimenti non potrei farti nemmeno una domanda», lo rassicurò Grigenti, anche se il ragazzo non capì se intendesse che le domande gliele stava facendo perché non era accusato di nulla o se, piuttosto, non lo stesse accusando di nulla perché altrimenti non avrebbe più potuto rivolgergli alcuna domanda.

«Ripartiamo da zero», propose il sottufficiale, «rilassati e cerca di fare mente locale su ogni elemento che potrebbe aiutarmi a far luce su quanto è successo al tuo amico».

«Va bene. L’ultima volta che l’ho visto è stato giovedì sera, in sala prove. Lui se n’è andato alle undici, mentre io sono rimasto con gli altri ancora per un paio d’ore, prima di rincasare. In merito ai litigi di Tullio, non c’è mai stato assolutamente nulla che potesse far immaginare questo sviluppo. Voglio dire: è stato ammazzato in una messa nera, vi rendete conto? Uno non fa una cosa simile ad un altro solo perché ci ha litigato…».

«Questo non ci aiuta molto… Non ti viene in mente proprio nient’altro?».

«Beh, a dire il vero c’è qualcosa che potrebbe essere importante…», disse, esitando. «Tullio ha avuto una storia con la mia padrona di casa, la signora Ficco», si decise infine.

«Questo appartamento è suo?», chiese il sottufficiale, sorpreso.

«Sì, e lo era anche quello dove abitava Tullio, che però se l’era comprato. Io non avevo una gran disponibilità economica, ma quella donna avrebbe fatto qualunque cosa per lui, e per fargli piacere mi ha lasciato la casa ad un canone ridicolo. Il problema è che lei se n’era innamorata, nonostante avesse quasi il doppio dei suoi anni, mentre lui ha sempre preso quella storia come una roba solo di sesso, destinata a finire. La primavera scorsa, infatti, Tullio conobbe una ragazza ad un concerto. La storia non durò che qualche settimana, ma fu sufficiente a farlo decidere di lasciare Patrizia. Lei… beh, diciamo che non l’ha presa molto bene. Ha cominciato a fargli delle scenate, a seguirlo, a chiamarlo e a mandargli messaggi a tutte le ore, roba da telegiornale. Qualche tempo fa gli ha spaccato i tergicristalli della macchina e, nella loro ultima lite, gli ha gridato che avrebbe pagato qualcuno per ammazzarlo. Allora mi è sembrata una stupidata buttata lì, ma ora…».

«Grazie, Barozzi», si congedò Grigenti, alzandosi. «Un’ultima cosa», chiese già sulla porta, «possiedi un’auto?».

«No, maresciallo, mi muovo in Vespa».

«Allora teniamo una sospettata, finalmente?», chiese Candela sottovoce, mentre sostavano sul pianerottolo.

«Può essere», rispose Grigenti. «Però c’è qualcosa che mi sono tenuto da parte per non scoprire tutte le mie carte».

«Che cosa, marescia’?», chiese l’appuntato, davvero incuriosito.

«Ricordi la foto in cui Barozzi suona la chitarra? Ecco, suona con la sinistra: è mancino, come il nostro assassino».

Candela spalancò la bocca e guardò la porta da cui era uscito pochi istanti prima come se la vedesse per la prima volta. Prima che potesse dire alcunché, Grigenti stava già suonando il campanello di casa Ficco.

Il colloquio si svolse in maniera del tutto generica, il maresciallo rimase sul vago e sfoderò la sua migliore aria da tonto, bevendosi senza fare una piega la versione edulcorata dei fatti che la donna gli sciorinò. Candela si domandava dove volesse andare a parare. Grigenti lasciò che la platinata matrona parlasse a ruota libera e si sentisse man mano più sicura e meno cauta. Raccontò dei rapporti di buon vicinato con quel povero ragazzo, con cui non aveva mai avuto alcun problema, nonostante sapesse che in passato ci fosse stato qualche litigio con alcuni vicini. Anzi, erano in così buoni rapporti, lei e Tullio, che quando le aveva chiesto di affittare uno dei suoi appartamenti ad un amico, aveva accettato senza remore. Mentre poi si lasciava andare ad un commento lamentoso su che peccato fosse che un ragazzo così giovane e bello se ne fosse andato in quel modo atroce, lasciandosi sfuggire una lacrima e facendo sobbalzare il petto imponente, Grigenti cambiò improvvisamente marcia.

«D’accordo signora, ho capito. Ora però mi spieghi perché mi sta mentendo così spudoratamente. Voglio dire, lei davvero crede che, in un caso di omicidio, non ci curiamo di informarci minuziosamente su tutte le persone vicine alla vittima e sui rapporti che vi intrattenevano?».

La Ficco divenne paonazza fin sopra le protesi.

«Non capisco cosa intenda», cominciò a difendersi, completamente spiazzata. «Vi ho detto tutto quello che sapevo…».

«Perché non mi ha parlato della vostra relazione, allora?».

«Relazione? Credo sia stato male informato, maresciallo… Io avrei quasi potuto essere sua madre…».

«Senta, signora», disse calmo Grigenti, «la devo avvertire che mi basta tornare in caserma e accendere un computer, per controllare il traffico telefonico dell’ultimo anno sul cellulare di Canale. Se lei continuasse su questa linea, sarebbe davvero un problema se a quel punto trovassi un certo numero di telefonate e messaggi provenienti dalla sua utenza, magari in orario notturno. Perciò glielo chiederò un’ultima volta: ha avuto un coinvolgimento sentimentale con Tullio Canale?».

«Sì», si arrese alla fine la donna. «Ci siamo frequentati per circa un anno e mezzo».

«E perché mi ha mentito, su questo?».

«Parliamoci chiaro, maresciallo. Se l’hanno informata della nostra storia, sicuramente le avranno anche parlato di come ci siamo lasciati. Considerando quello che è successo, ho avuto paura di essere sospettata. Però le voglio dire una cosa: io non c’entro nulla con la morte di Tullio. Per quanto le sembrerà assurdo, io lo amavo ancora… Lo amo ancora. La sua morte mi ha distrutta, e vedo il mio futuro vuoto e freddo».

«Capisco. Però mi dica, signora: ho saputo che, di recente, avreste avuto un violento litigio, nel corso del quale lei avrebbe pronunciato frasi che forse non pensava…».

La Ficco abbassò lo sguardo, cercando le parole.

«Senta, so quello che può sembrare, ma deve capire che quel ragazzo mi ha esasperato: mi ha usata finché gli ha fatto comodo, poi mi ha gettata via come una vecchia bambola. Non è mai stato onesto con me, mi ha illusa e mi ha convinta a fargli regali costosi: orologi, vestiti, persino la macchina, gli ho comprato. Ho anche affittato il mio appartamento a Roberto per un tozzo di pane, per far felice lui… È vero, da quando mi ha lasciata l’ho chiamato decine di volte, l’ho insultato e l’ho anche minacciato… Ma l’ho sempre fatto per troppo amore, per attirare la sua attenzione, per mantenere un legame qualunque fra di noi, non perché gli volessi davvero male. Lui era crudele, sa? Anche dopo aver rotto con me, quando tornava a casa dopo aver bevuto troppo, veniva a suonare alla mia porta, e io non riuscivo mai a dirgli di no, sperando ogni volta che fosse diverso da quella prima…».

«Piuttosto», proseguì dopo un breve silenzio, «non sono per nulla certa che fra Tullio e Roberto ci fosse ancora tutta questa grande amicizia. Ultimamente litigavano spesso per le scelte artistiche sull’album che deve uscire. A causa delle loro divergenze, il disco è stato rinviato già due volte. Un mese fa sono quasi venuti alle mani, per questo. Lo può confermare anche il figlio della vedova Cristallo, che ha assistito alla scena».

Grigenti aggrottò la fronte. «E lei sa come si chiama e dove vive questo signore?».

«Certo, si chiama Michele Cristallo, vive a Torino e fa l’assicuratore e il broker. Ho anche il suo numero di cellulare, me lo ha lasciato quando mi ha proposto un investimento, qualche tempo fa».

I due carabinieri uscirono dalla palazzina, sferzati dal gelido vento autunnale. Grigenti si accese una sigaretta, pensoso.

«Marescia’, mi tolga una curiosità», chiese cautamente Candela, «mi sbaglio o questo era un colloquio da fare in presenza di un avvocato?».

«E perché?», chiese il sottufficiale. «La signora è forse indagata? L’investigatore sono io, e secondo me non sono emersi elementi a suo carico. Se, pensandoci meglio, dovessi riconsiderare la sua posizione, allora ne riparleremo con un avvocato…».

«Marescia’, ne sapete una più del diavolo», commentò, stregato, Candela.

Cinque minuti dopo, giunsero in caserma. Ad attenderli, in strada, un drappello di giornalisti ed inviati a caccia di un commento, di un brandello d’informazione.

«Mannaggia la nonna di Sbirulino…», sacramentò Grigenti varcando la soglia, oltrepassato l’assedio di microfoni e telecamere.

«Allora, l’avete preso l’assassino di Laura Palmer?», domandò il carabiniere Tinca a Candela.

«Ti ho già detto di piantarla, di chiamarlo così!», lo apostrofò Grigenti. «Un po’ di rispetto per i morti, e che diamine! Piuttosto, cosa hai preparato di buono da mangiare?».

«Pasta al pomodoro, maresciallo. L’acqua già bolle, aspettavo che rientraste per buttare».

«E ti pareva», commentò rassegnato il sottufficiale. «Ti devo pagare un corso di cucina… Va beh, calane tanta, che oggi ho una fame…».

«Strano, capo, da lei non me lo sarei aspettato, per dindirindina!», rispose il giovane carabiniere, prendendolo in giro. Grigenti accennò un inseguimento, con il ragazzo che scappava verso la cucina. «Ne riparleremo quando avrai figli…», gli gridò dietro.

Quattro etti di pastasciutta e una decina di telefonate dopo, Grigenti e Candela ripresero le loro indagini. Per prima cosa, passarono dall’Ufficio della Polizia Locale, che aveva finalmente finito di esaminare i filmati.

«Questo è un incredibile colpo di fortuna!», esclamò il maresciallo. «Certo, sarebbe ancora meglio se si riuscisse a leggere la targa, ma questo è un altro discorso…».

«Eppure le telecamere del Comune sono in alta definizione», commentò Candela.

«È una questione di software», si giustificò l’agente, «se le guardi in diretta, le immagini sono dettagliatissime, ma quando vengono registrate perdono definizione per non occupare troppo spazio sul server…».

«Scommetto che, se l’assassino fosse passato con il rosso, avremmo in mano una targa bella chiara e leggibile…», commentò Grigenti. L’agente abbassò lo sguardo e non disse nulla.

Grigenti e Candela uscirono dall’ufficio decisamente eccitati.

«Marescia’, questo finisce che ce lo arrestiamo noi», disse sventolando la custodia del DVD come un trofeo.

«Non cantiamo vittoria troppo presto», frenò Grigenti, «ancora lo dobbiamo trovare, ’sto furgone». «Sì, marescia’, ma intanto abbiamo una traccia. Io ci scommetto che quello era proprio il nostro uomo. Se riusciamo a trovarlo, abbiamo il disegno dell’accendisigari, per f……o, anche senza la targa!».

«E parla bene, Cande’, che poi mi fai ricominciare anche a me, ad essere sboccato!».

«Ma se quando siete arrivato qua parevate l’Anticristo, marescia’…! Poi, da un giorno all’altro, non si può dire più niente! Non le dico di parlare sporco davanti ai bambini ma, sul lavoro, non vi pare di esagerare un poco?».

«Se riprendo l’abitudine qui, poi finisce che mi scappa anche a casa. E comunque, neanche a te fa male, se parli un po’ più pulito… Però hai ragione: mi sa che se troviamo quel Ducato, al Reparto Operativo gli facciamo… le scarpe, per così dire», gli concesse Grigenti, che sembrava essersi improvvisamente dimenticato tutti i grattacapi che quella vicenda gli stava portando.

Nel filmato che Candela stringeva nella pelle nera del suo guanto, una sola vettura percorreva la strada che conduceva al cimitero senza essere inquadrata dalla successiva telecamera all’uscita del paese. Quattro ore dopo, il Ducato scuro con la targa illeggibile riappariva nello stesso punto, sulla stessa strada, in direzione opposta. Tra le due telecamere, solo quattrocento metri di strada dritta, senza traverse se non il vialetto di accesso al parcheggio del cimitero, circa a metà. Tra le 23.30 del 24 e le 03.40 del 25 ottobre, il furgone e i suoi occupanti erano stati in qualche punto di quei quattrocento metri, a fare qualcosa. E questo era un fatto.

Grigenti chiamò Michele Cristallo alle 15.30 del pomeriggio, con un tarlo ficcato fra il conscio e il subconscio, a rodergli il cervello. In realtà, c’erano diversi accertamenti che avrebbe potuto fare per rintracciare il furgone e il suo proprietario: sedendosi davanti al computer e spremendo al massimo la Banca Dati, cercando fra tutti i mezzi uguali controllati in zona negli ultimi mesi, qualcosa di utile sarebbe anche potuto venir fuori. Ma il suo istinto sbirresco sentiva vicina una svolta, la fiutava. Forse, in maniera del tutto irrazionale, avrebbe preferito prendere l’assassino sul campo che non da dietro la tastiera di un computer.

«Non credo mi sarà possibile passare da lei, maresciallo», rispose Cristallo, quasi scusandosi.

«Sarà una cosa di pochi minuti, mi creda», tentò Grigenti.

«Ne sono certo, ma vede, sono davvero impossibilitato. Ho preso due settimane di ferie per un viaggio in Brasile che pianifico da mesi, ma sono in ritardo con il lavoro e ancora non ho nemmeno fatto le valigie. Il mio aereo parte domattina e temo che, se venissi fino a Trofarello, non farei più in tempo a fare ciò che devo…».

«Facciamo così», propose Grigenti, «verremo noi da lei, così perderà davvero dieci minuti al massimo. E per non crearle imbarazzo, ci presenteremo nel suo ufficio in borghese».

Cristallo sembrò esitante.

«So di darle disturbo, ma è di un omicidio che stiamo parlando…», concluse Grigenti con quel tono che riusciva ad imprimere alle parole quando decideva che non avrebbe accettato repliche.

Circa mezz’ora dopo, Candela stava posteggiando la sua vettura privata sotto il palazzo dove aveva l’ufficio Michele Cristallo. Sull’uscio, Grigenti quasi andò a sbattere contro una macchia verde che piombò letteralmente fuori dall’appartamento, e per poco non lo travolse. Una bella signora poco sopra i quaranta, fasciata in un elegante tubino smeraldo, stava uscendo dalla porta come un ciclone, evidentemente turbata.

«Mi perdoni, signora», si scusò il maresciallo. Quella tirò dritto senza rispondere. Grigenti e Candela si guardarono, perplessi, e si strinsero nelle spalle.

«Come posso esserle utile, maresciallo?», chiese l’assicuratore dopo averli ricevuti nel suo ufficio. Attorno al tavolo, una baraonda di carte e documenti. Sotto un fermacarte a forma di fiamma dei Carabinieri, un biglietto aereo per Rio de Janeiro e un paio di dépliants. Appesi al muro, una serie di calendari dell’Arma.

«Vedo che è un amico della Benemerita», cominciò, colloquiale, il sottufficiale.

«Sì, ho molti amici, fra i vostri Ufficiali», rispose asciutto l’altro. «Mi perdoni, maresciallo, se fosse possibile andrei subito al dunque. Come vede, non esageravo quando le dicevo che sono alle strette…».

Se Grigenti si risentì, non lo diede a vedere.

«Bene, mi risulta che lei abbia assistito ad un litigio fra il Canale e il suo amico, dico bene?».

«Sì, maresciallo, sarà stato circa tre mesi fa. A dire il vero, non ho potuto fare a meno di sentire, perché quei due se le stavano dando proprio dentro il portone, con quella gran signora della Ficco che tentava di separarli, prendendosi anche qualche schiaffo… Una scena da mercato del pesce, se mi passa l’espressione. Quella era la prima volta, in ogni modo, che assistevo di persona ad uno dei loro litigi per quanto, andando a trovare mia madre, mi era già capitato di sentirli gridare, al piano di sopra. Le devo dire, maresciallo, che quel Barozzi se la prese anche con me, anche se non avevo detto niente, solo per il fatto di averli guardati. Avrebbe dovuto vedere la luce negli occhi di quel ragazzo: non ho mai visto una simile carica d’odio in vita mia… Non so cosa gli potesse aver fatto Canale, ma sono certo che, se non ci fosse stata la donna, avrebbe potuto ucciderlo lì sul posto, con le sue mani. In tutta franchezza, se dalle sue indagini venisse fuori che c’entra qualcosa con l’omicidio, non ne sarei particolarmente sorpreso…».

«E che mi dice di lei? So che di dissapori, con il Canale, ne ha avuti anche lei, non è così?».

«Io lì non ci vivevo. Era soprattutto mia madre che doveva subire la sua maleducazione. Suonava la batteria in casa – ma vi rendete conto? – e, quando non ci litigava, si sbronzava e si ammazzava di spinelli insieme al suo amico, tanto che l’odore arrivava a volte fino al nostro appartamento. Ho anche provato a parlarci, ma era un incivile, non era possibile spiegarsi. Mi ha insultato – ci pensate? Non potete immaginare cosa mi ha vomitato contro! In quel momento decisi che, se avessi dovuto averci nuovamente a che fare, lo avrei fatto solo per mezzo di un legale. Convinsi mia madre a proporre un esposto all’Arma che però, devo dire, non sortì alcun effetto duraturo. Da quando lei è venuta a mancare, poi, non ho più avuto modo di incontrarlo».

«Bene, signor Cristallo, mi serve una sua firma in fondo al verbale».

«Certo. Spero di avervi aiutato, con il poco che so… Comunque, non credo che avrete difficoltà a rintracciare l’assassino: ormai potete esaminare il DNA, le prove al microscopio, usare il luminol, guardare le riprese dei satelliti… Sono certo che avrete così tanti indizi, che la mia dichiarazione non vi servirà proprio a niente!».

«Lei ha visto troppe puntate di C.S.I., signor Cristallo», disse paziente Grigenti.

«Complimenti, maresciallo, mi ha scoperto!», esclamò sorpreso Cristallo, lasciandosi scappare una risata. «Lo ammetto, sono un fan. Adesso però non distrugga il mio mondo fantastico dicendomi che la verità è molto lontana dalle fiction! Se è così, non lo voglio sapere, altrimenti non potrei più guardarle con gli stessi occhi. Mi lasci credere nelle mie favole da grandi…».

Grigenti sorrise e, senza aggiungere altro, si congedò con una stretta di mano.

«Facciamo un salto veloce al cimitero, voglio dare un’altra occhiata», disse Grigenti mentre rientravano in paese. Ormai il tarlo si era trasformato in un castoro che, libero nel suo cranio, ne rodeva le pareti con i suoi dentoni.

«Bella donna, la dottoressa Chen, non è vero?», commentò il graduato di punto in bianco.

«Piantala, che sei sposato», lo apostrofò Grigenti. «Dicevo tanto per dire, marescia’. Tanto, a pensare cosa fa di solito con quelle mani, ti passa la voglia…».

Il maresciallo sorrise all’immagine che gli si affacciò involontariamente alla mente. Candela e la dottoressa Chen seduti al tavolo di un ristorante, con lei che tagliava una bistecca al sangue con una sega circolare sorridendogli amabilmente e lui che la guardava inorridito, artigliando la tovaglia.

Arrivarono al cimitero che Grigenti ancora sogghignava. Scese dalla macchina senza sapere bene cosa cercare e si guardò attorno.

«Non entriamo?», gli chiese Candela.

«No, lì dentro c’è già stato tutto il mondo, avranno repertato anche i peli del naso che ha lasciato ieri il PM soffiandoselo… Invece, volevo dare un’occhiata qua fuori…», disse indicando il parcheggio. «Chissà che non venga fuori qualcosa…».

Dopo circa dieci minuti, notò a terra, vicino al marciapiedi, il tappo della valvola di una camera d’aria, lo raccolse, lo osservò serio e se lo ficcò in tasca.

«Chiama la Stazione», ordinò il maresciallo. «Fai fare una ricerca in Banca Dati su tutti i componenti degli Insurrection, soprattutto sui mezzi intestati. Mi è venuto un dubbio…».

Pochi minuti dopo, Grigenti rispose alla chiamata del carabiniere Esposito.

«Per la mamma della vacca Gilda!», disse con tono solenne mentre ascoltava.

Candela sollevò un sopracciglio. «Andiamo sul pesante, marescia’. Cos’è successo?».

Quindici secondi più tardi, i due militari stavano letteralmente sfrecciando verso la caserma per cambiarsi e prelevare Esposito e Tinca, richiamato in servizio.

«Ragazzi, mi sa che ci siamo», annunciò Grigenti mentre si dirigevano in tutta fretta verso la palazzina. Improvvisamente, tutto combaciava.

«Per il momento, abbiamo solo elementi indiziari. Il nostro compito è trovare le prove di quello che già sospettiamo», cominciò a spiegare. «La situazione è questa: sappiamo che questo Roberto Barozzi è un fanatico del rock satanico, che suonava insieme al Canale e che, nonostante si sia mostrato molto addolorato per la sua morte, è stato visto litigare violentemente con la vittima, arrivandoci addirittura alle mani. Ci potrebbe essere anche un movente economico, oltre a quello personale: le loro divergenze hanno fatto rimandare la pubblicazione del nuovo album del gruppo, e questo sta causando un danno al Barozzi, per il rinvio delle esibizioni dal vivo. Il nostro uomo, infatti, non se la passa benissimo economicamente, motivo in più per serbare rancore. A tutto ciò aggiungete che, dal controllo alla banca dati, è venuto fuori che il Barozzi è intestatario di un Ducato vecchio modello: esattamente il tipo di veicolo che stiamo cercando».

«Ca…o!», esclamò Tinca, che non aveva seguito gli sviluppi. «Questo è lui, maresciallo!». «Mi scusi», aggiunse subito dopo, incrociando l’occhiataccia di Grigenti nel retrovisore e non avendo, questa volta, vie di fuga.

Da quel momento in poi, tutto filò liscio come l’olio. Trovarono il ragazzo in casa – ancora non si era neanche vestito –, cogliendolo totalmente alla sprovvista. Grigenti non gli chiese nemmeno perché avesse mentito, ma solo dove fosse il furgone. Risultò che il Ducato era nel box di pertinenza dell’appartamento, che i militari trovarono chiuso a chiave. Il maresciallo si avvicinò al veicolo, estrasse dalla tasca il tappino raccolto al cimitero, esaminò le gomme e sorrise. Dalla gomma anteriore mancava il tappo della camera d’aria, mentre i restanti tre erano identici a quello che reggeva con la punta delle dita della mano destra. “L’ho sempre detto che il più delle volte li prendiamo non perché siamo bravi noi, ma perché sono stupidi loro”, pensò scuotendo la testa.

«Ok, facciamo ciò per cui siamo venuti», dichiarò fra le flebili proteste del ragazzo. Le porte del furgone erano aperte e le chiavi nel quadro. I presupposti per la perquisizione d’urgenza c’erano tutti. I carabinieri spalancarono le porte posteriori, ed un forte odore di alcool colpì immediatamente le narici di tutti i presenti. Candela scese dal veicolo reggendo in mano l’accendisigari.

«È piegato al centro», dichiarò. Barozzi spalancò la bocca e tentò di balbettare qualcosa, totalmente sopraffatto dagli eventi.

Grigenti lo fermò. «Se vuoi dire qualcosa, aspetta di avere accanto un avvocato», disse. Poi alzò il telefono ed informò il magistrato del fermo.

All’interno della Stazione Carabinieri, nell’ufficio del Comandante, Grigenti e il dottor Rotella bevevano caffè da bicchierini di plastica e fumavano in silenzio, perplessi. Il Sostituto Procuratore aveva appena interrogato il fermato, in presenza del suo difensore d’ufficio. Il ragazzo, contrariamente al consiglio dell’avvocato, aveva voluto rispondere alle domande.

Incredibilmente, negava ogni responsabilità. Sul perché avesse mentito al maresciallo, dichiarando di non possedere una macchina, puntualizzò di non aver in realtà mentito, trattandosi, appunto, di un furgone. In buona fede, diceva, aveva creduto che la domanda del sottufficiale fosse relativa a un’autovettura personale, non a un mezzo da lavoro. Il Ducato, pur essendo intestato a lui, era stato acquistato in società dai componenti dal gruppo e veniva usato solo per trasportare la strumentazione in occasione dei concerti. Quando non erano in tour, non lo assicuravano nemmeno.

All’interno del cassone erano state trovate alcune gocce secche di una sostanza bruna, quasi certamente sangue, e l’intero vano era saturo dell’odore dell’alcool. Ciò non di meno, il ragazzo si ostinava a proclamarsi innocente e ad affermare di non aver usato il furgone da più di tre mesi. A suo dire, i litigi con Tullio Canale non erano stati nulla più di banali battibecchi, i cui toni erano stati fraintesi da chi forse non era abituato alle scaramucce tra metallari. I libri sul satanismo ritrovati nel suo appartamento erano solo volumi in libera vendita, il cui possesso non costituiva reato, acquistati un po’ per curiosità, un po’ per avere materiale per i testi delle canzoni. Per quanto riguardava l’accendisigari, il Barozzi nemmeno fumava. Non sigarette, almeno.

«La faccia tosta di certa gente è incredibile», commentò il dottore.

«Maresciallo, credo che questa la debba vedere», li interruppe Tinca, porgendogli una busta. «L’ho ritirata a fine turno ma, con il trambusto che è seguito, me ne ero completamente dimenticato».

«Non ora, Alessandro», disse Grigenti. «Qualunque cosa sia, può aspettare benissimo domani».

«Maresciallo, mi scusi se insisto, ma se le dà un’occhiata, credo che capirà», disse il giovane carabiniere mostrando il retro della busta. Scritto in caratteri gotici vermigli, tra le ali stilizzate di un pipistrello, era stampato un messaggio inequivocabile. «Dentro si cela il colpevole».

Grigenti guardò perplesso la lettera, poi il dottor Rotella, poi la lettera, poi ancora il dottor Rotella. Infine si decise a prenderla, convinto si trattasse di uno scherzo. All’interno, negli stessi grotteschi caratteri rossi, poche righe, dal significato molto eloquente: «Tullio Canale è stato il sacrificio del rituale di fertilità per la rinascita della gloria dell’antica famiglia, discendente degli avi Celti. L’agnello volle farsi leone, credendo di poter ricattare il Diavolo, che era empio amante della sua vittima sacrificale. Cercate A.V., signore del castello, e troverete il vostro boia».

Il maresciallo e il magistrato si guardarono. Lo scritto era anonimo. Un colpevole molto credibile c’era già. La giornata era stata lunga.

Pochi minuti dopo, Grigenti e Candela erano già in macchina.

Il Conte Amedeo Baudolino Vignone era il proprietario del castello di Trofarello e l’ultimo rappresentante della famiglia più antica e nobile della zona. Anni addietro, era stato accusato di violenza sessuale su una domestica. In seguito all’episodio, era mancato per vent’anni da Trofarello. Di recente era però ritornato ad abitare nel castello, deciso a riportare la storica dimora di famiglia all’antico splendore e a rinverdire i fasti della sua casata, cercando anche, almeno così si diceva, di concepire un erede per perpetuarne il nome. Questo insieme di circostanze, gli aveva rapidamente guadagnato il soprannome di “Conte Vlad”.

«Che ne dite, marescia’, come lo vedete questo colpo di scena?».

«Delazione pura e semplice. Non credo ci sia niente di vero. Candela, non siamo in un film dell’orrore, questa è la realtà. Già quella buffonata di lettera, scritta in rosso, con il pipistrello, la dice lunga. Qualche figlio di madre impudica si è voluto divertire ad incolpare il Conte Vlad, che si presta ad una storia del genere».

«Magari, però, potrebbe essere il mandante di Barozzi…», obiettò l’appuntato.

«Ma tu ce lo vedi, un uomo di quasi sessant’anni a fare una roba simile per propiziarsi l’arrivo di un figlio? E, anche ammesso, la storia della relazione omosessuale? Non scherziamo, dai! Di Tullio Canale tante cose si possono dire, ma che fosse gay, proprio no!».

«Lo confesso, maresciallo, ho avuto una relazione con Tullio Canale», ammise candidamente il Conte. Ci mancò poco che a Grigenti non si slogasse la mascella. Si era presentato al nobile decaduto senza una strategia particolare, con il proposito di metterlo semplicemente di fronte all’esposto anonimo per valutarne la reazione, aspettandosi una risata, una smentita divertita e l’offerta di un bel bicchierino di cognac pregiato.

«Glielo dico perché penso sia meglio essere completamente sincero, vista la mia posizione, fidando nella professionalità e nella discrezione sua e del suo collaboratore. Mi dica solo se devo contattare il mio avvocato, per rendere una dichiarazione formale».

«No, no», lo tranquillizzò il maresciallo, ancora imbambolato dalla sorpresa, «per quanto mi riguarda, lei al momento è solo una persona informata sui fatti. Per la legge italiana, nessuno può essere accusato sulla base di un esposto anonimo…».

«Bene. Allora la farò breve, maresciallo. Tullio mi fu presentato da un amico comune. Lui era giovane e davvero bellissimo, e io me ne invaghii a prima vista. Ovviamente, non mi facevo illusioni sul motivo per cui avrebbe potuto accettare la mia compagnia. Tullio non si prostituiva nel senso stretto ma, nonostante il suo atteggiamento da ribelle, era un amante delle cose belle e del lusso, tutti vantaggi che la mia amicizia gli poteva procurare. La cosa andò avanti per due anni, nei quali il nostro rapporto divenne meno saltuario. Mi aiutò persino a trovare delle giovani compiacenti ad accogliere il mio seme: per quanto il gesto mi appaia ripugnante ed il compito ingrato, è l’unico modo per evitare che il nome dei Vignone muoia con me».

«E l’accusa di violenza sessuale alla domestica?», domandò Grigenti. «Falsità. Calunnie ordite per spillare denaro alla mia famiglia. Deve essere destino, dato che anche Tullio, spezzandomi il cuore, circa sei mesi fa iniziò a ricattarmi. Aveva conosciuto una ragazza, e io ero diventato un peso vecchio e imbarazzante. Ma non gli bastava piantarmi in asso: decise che aveva anche diritto ad una “buona uscita” e minacciò di rendere pubblica la mia omosessualità e la nostra relazione, se non mi fossi piegato alle sue richieste».

«E lei cosa fece, allora?».

«Pagai. Conoscevo Tullio abbastanza bene per sapere che, se avessi ceduto, avrei chiuso quella parentesi senza ulteriori strascichi. In fondo, lui voleva lasciarsi alle spalle quella storia molto più di me. I fatti mi diedero ragione: pagai il suo silenzio con una somma sufficiente all’acquisto del suo appartamento, e non lo rividi più».

«Le confesso che sono sconcertato», ammise Grigenti. «Non che abbia nulla contro gli omosessuali, non mi fraintenda. È che questa storia sta prendendo una piega davvero surreale…».

«Capisco. E comprendo anche che i miei interessi personali non le semplifichino la vita… Immagino che avrà condotto qualche ricerca su di me, e sarà a conoscenza delle mie pubblicazioni su temi esoterici. Viste le circostanze in cui è morto Tullio, mettendomi nei suoi panni, qualche dubbio lo avrei anche io…».

Grigenti annuì senza dire nulla. Sconsolato, decise di limitarsi a bluffare, lasciando che il Conte parlasse a ruota libera.

«In virtù delle mie competenze, devo però dire a mio discarico – e sperando che ciò le possa essere utile – che, da quanto ho letto, questo cosiddetto “rituale” in cui è stato ucciso Tullio non è nulla che corrisponda ad alcun vero e proprio rito magico. Sembrerebbe più una grossolana messinscena ordita da un completo profano…».

«Cosa glielo fa dire?», domandò il sottufficiale, ora incuriosito.

«Beh, tanto per cominciare la data è sbagliata: in questo mese, il giorno che un vero occultista avrebbe scelto sarebbe stato il 31 ottobre». Candela e Grigenti si guardarono fugacemente. «Ma è tutto il contesto, ad essere sbagliato: il passo del Vangelo al contrario è totalmente casuale, non ha alcun senso. Inoltre, non sono state trovate tracce di un sabba, condizione imprescindibile per un rito simile. Consideri poi che i satanisti veri cercano di nascondersi, di dissimulare, non lasciano in bella mostra i resti di un rituale, figuriamoci di un sacrificio umano! È tutto troppo evidente, quasi fosse stato ideato per suggerire una pista per le indagini…».

«Potrei comunque obiettare», commentò Grigenti, «che potrebbe essersi trattato di un gruppo di satanisti inesperti. Oppure che, se davvero lei fosse l’esecutore del delitto o il suo mandante, avrebbe potuto prevedere gli errori di cui mi ha parlato proprio per allontanare da lei i sospetti».

«E allora che senso avrebbe avuto organizzare un rituale? I miei interessi per l’occulto smetterebbero di avere qualunque rilievo, se il rito non fosse la finalità dell’omicidio».

«Devo ammettere che ha ragione», considerò Grigenti. «Allora le rivelerò un dettaglio che la stampa non ha divulgato, signor Conte, se mi assicura di mantenere il più stretto riserbo e di darmi la sua opinione spassionata al riguardo».

«Se posso essere utile…».

«Tullio Canale non è morto durante il rituale, ma per una frattura cranica precedente. Chi lo ha pugnalato, sapeva con certezza di affondare la lama in un cadavere. Che ne pensa di questo?».

«Che è la conferma definitiva che il rito è solo una montatura. Deve capire che un sacrificio umano, per chi ci crede, ha un potere enorme, tale da consentire patti con il Principe delle tenebre in persona, per conseguire traguardi d’importanza capitale. Ma, per sortire qualsivoglia effetto, la vittima deve necessariamente essere viva. Sacrificare un morto avrebbe lo stesso valore che sacrificare un peluche».

Grigenti e Candela lasciarono il castello frastornati e confusi. «E chi se lo aspettava, marescia’?», chiese l’appuntato.

«Di certo non io», rispose Grigenti.

«E ora che si fa, capo? Come ci regoliamo con il Barozzi?».

«Rimane dentro. Per ora, c’è comunque dentro fino al collo. La vicenda, però, invece di chiarirsi, diventa sempre più oscura: se tutta questa commedia avrebbe dovuto sviare le indagini, perché il Barozzi avrebbe simulato un rito che avrebbe fatto pensare proprio a lui, come autore del delitto? Considerando la grossolanità della montatura che sta venendo fuori, con la lettera e tutto il resto, sto cominciando ad avere l’impressione che, chiunque vi sia dietro, abbia voluto mandarci fuori strada solo temporaneamente, senza illudersi che l’inganno avrebbe retto per sempre, come se stesse prendendo tempo. Il motivo, però, ancora mi sfugge».

«In ogni caso, ci mancano ancora i complici», considerò Candela.

«Hai ragione», convenne Grigenti. «A questo proposito, però, ho un’idea. Ora passiamo al contrattacco», dichiarò battagliero. Poi prese il cellulare e compose velocemente un numero di telefono. «Tinca, vai a dormire. Domani mattina ti alzi alle sei», comunicò asciutto.

La notte passò senza eventi di rilievo, così come le prime ore della mattina. Alle 09.20, Tinca chiamò Grigenti come d’accordo.

«Maresciallo, qui non si è visto nessuno. Il Marghera è arrivato in ritardo, alle otto e venti, ha aperto il cimitero, si è messo nel suo gabbiotto a guardare la televisione e non si è mosso di lì».

Quella mattina, alle sei e mezza, Tinca aveva scavalcato il muro di cinta del camposanto come un profanatore di tombe e si era nascosto nell’angolo Nord-Est, da cui poteva vedere l’ingresso e una buona porzione del cimitero. Il suo incarico era monitorare i movimenti del custode, verificare se realmente fosse solito fare un giro di controllo, come aveva dichiarato, e a che ora. Come sospettava Grigenti, il Marghera non aveva degnato la struttura che custodiva nemmeno di uno sguardo, limitandosi ad aprire il cancello e a farsi i fatti suoi, secondo quella che pareva essere una prassi ben consolidata. Il giorno prima, dopo pranzo, il maresciallo aveva fatto qualche telefonata in giro, scoprendo che l’uomo, indebitato fino ai capelli, aveva improvvisamente pagato i suoi debiti, in contanti. Il fatto che, con ogni probabilità, avesse mentito sulle circostanze del ritrovamento del corpo, per l’investigatore chiudeva il cerchio.

Nonostante gli elementi fossero solamente indiziari, Grigenti non faticò molto a convincere il dottor Rotella ad emettere un decreto di perquisizione, che si rivelò provvidenziale. Alle dieci e trenta, erano già saltati fuori un paio di guanti sporchi di sangue e diecimila euro in contanti in una busta di carta nascosta sotto una mattonella nella squallida cucina dell’appartamento del Marghera. L’uomo collaborò subito, e fu sentito a voce, per l’immediata prosecuzione delle indagini. Confessò di essere stato pagato da un signore che non conosceva, che gli aveva offerto ventimila euro solo per aiutarlo a trasportare un corpo e per segnalarne il ritrovamento. Giurò e spergiurò di non aver avuto niente a che fare con l’omicidio, e che non avrebbe saputo dire il nome dell’uomo misterioso, che si era presentato al cimitero da solo, alla guida di un furgone.

Colpo di scena, l’uomo in questione non era Roberto Barozzi.

Grigenti si reggeva la testa fra le mani, preda di una forte emicrania. Il procione nel suo cervello non aveva mai smesso di lavorare, tenendolo sveglio anche per parte della nottata. Sapeva di avere la soluzione a portata di mano, tutti i pezzi erano lì sul tavolo, ma mischiati e sparpagliati. Ancora non riusciva a coglierne il senso… Le sue sofferte elucubrazioni vennero interrotte dal carabiniere Esposito, che bussò alla porta.

«Maresciallo, mi scusi. So che è impegnato, ma c’è una signora che vorrebbe denunciare una truffa, o qualcosa del genere. Dice di aver investito dei soldi ma che, secondo lei, il broker se li è intascati, perché si rifiuta di restituirglieli con delle scuse improbabili. Solo che la vicenda è un po’ complessa, se magari potesse parlarci lei…».

«Non ora, Esposito. Dille che mi dispiace e chiedile per cortesia di tornare domani, perché oggi…». La frase gli morì in gola. Da dietro il carabiniere aveva fatto capolino la testa della donna, una bella signora sui quarantacinque anni, che attendeva fuori dall’ufficio del Comandante.

«Esposito, è quella la signora che deve fare denuncia?», domandò con voce leggermente tremante.

«Sì, maresciallo, la signora… Trifoglio Daniela», dichiarò il carabiniere, consultando la Carta d’Identità che reggeva in mano.

Grigenti ebbe un’epifania. Tutti i pezzi del puzzle andarono improvvisamente al loro posto, e il disegno si rivelò nella sua semplicità sconcertante. «Oh santa cacca!», si lasciò sfuggire, sgranando gli occhi a tal punto che Esposito avrebbe scommesso gli sarebbero rotolati fuori dalle orbite. «Il biglietto era di sola andata!».

Tre minuti più tardi, le gomme della Punto stavano già sgommando, fiondando Grigenti, Candela e Tinca alla volta di Torino.

«Grigenti, sono il maresciallo Grigenti!», gridava il sottufficiale al cellulare cercando di sovrastare l’ululato della sirena. «Mi passi il posto fisso Carabinieri: è un’emergenza».

«Ma tu lo conosci, che tipo è?», sbraitava pochi minuti dopo, parlando con il Comandante di Stazione di Torino Principale. «Eccome se lo conosco, collega! È una bella lenza, quello: pluripregiudicato per truffa aggravata, lesioni personali e chi più ne ha più ne metta. Nell’ultimo mese ho preso tre querele contro di lui e mi dovrebbe arrivare un’ordinanza di custodia cautelare in carcere a giorni. Tra l’altro, è pure mezzo matto, anche se a parlarci non sembra. Qualche anno fa, per un litigio fra condomini, ha minacciato di suicidarsi con il gas per far venire giù l’intero palazzo».

«Dottore, c’è una svolta clamorosa nelle indagini», annunciò infine Grigenti parlando con il PM Rotella.

Alla fine della corsa, la macchina inchiodò con uno stridio di fronte all’aeroporto Caselle di Torino, alle 11.21.

«Vacca polacca, siamo arrivati tardi!», esclamò il maresciallo. Poco oltre l’ingresso, però, li attendevano un brigadiere capo e un pennellone di appuntato. «Lo abbiamo preso che si era già imbarcato», annunciò gongolando il più alto in grado. «Abbiamo dovuto bloccare il volo. Un minuto più tardi, e ci sarebbe scappato. Ma che ha fatto questo Michele Cristallo?».

«Michele Cristallo è l’assassino di Trofarello», sentenziò Grigenti.

Cristallo protestò vivamente, mentre i militari lo prendevano in consegna.

«Ma è impazzito, maresciallo? Mi vuole spiegare cosa le viene in mente?».

«Faccia silenzio», intimò il sottufficiale. «Questo è un abuso bello e buono! Io la denuncio, ha capito? La denuncio! La rovino! Il mio avvocato ci si divertirà, con lei! Staremo a vedere, come finisce!», e via minacciando. Grigenti non rispose alle provocazioni e si limitò ad allontanarsi, mentre i colleghi facevano salire l’uomo sull’auto di servizio. Compose il numero della Stazione e avvisò Esposito: «Stiamo arrivando. Mettilo in posizione».

Una volta in caserma, Cristallo fu accompagnato nell’ufficio del Comandante, passando davanti alla porta aperta di quello del brigadiere. All’interno c’era Marghera, seduto di fronte alla scrivania e piantonato dal Carabiniere, accanto alla busta di plastica trasparente con le banconote rimanenti del suo compenso, lo sguardo basso e mesto. In quel breve istante, l’uomo sollevò gli occhi incrociando quelli dell’assicuratore, che trasalì per la sorpresa. Il custode, a sua volta impreparato all’incontro, ebbe un guizzo involontario nello sguardo, che testimoniava senz’ombra di dubbio che lo aveva riconosciuto. «Idiota!», gli ringhiò contro Cristallo, prima di essere sospinto via da Candela. Fu allora che capì che tutto era perduto, e decise infine di gettare la maschera.

Cristallo non era uno stupido, e conosceva bene le debolezze del suo piano, ideato per reggere solo il tempo necessario. Una volta vistosi scoperto, confessò ogni particolare del delitto al dottor Rotella, ben sapendo che quell’atteggiamento lo avrebbe favorito al processo.

(continua...) in rubriche/12083/