Un segreto nella nebbia

Capitolo I

La strada si distingue a malapena, avvolta com’è nella nebbia. Dai campi intorno si solleva fumante e lenta l’umidità di questa notte buia, senza luna, presagio di un inverno oramai alle porte. I fari fanno del loro meglio per rubare un po’ di visuale ed io penso a questi posti quand’è estate. Le messi dorate che dormono pigre sotto il caldo sole di luglio, i profumi nell’aria. Adesso sarebbe ancora giorno, malgrado siano già suonate le venti. Dio, quanto mi manca l’estate! Adoro i suoi vestiti leggeri ed odio questi scafandri di lana che già mi piegano le spalle rallentandomi i movimenti, ed è appena l’inizio di novembre!

M’incantano i colori del cielo estivo nella stessa misura di quanto m’inquietano i vapori impalpabili di questa nebbia, che tutto imbroglia e cela. Oggi mia madre stava meglio, più loquace del solito, con le rughe leggermente meno segnate da quella tristezza interiore che troppo spesso le deturpa i lineamenti. Da quando è iniziata la sua depressione, tutto è diventato più difficile. Dovrei portarla da me, ma come faccio? Tre figli che già si dividono una sola stanza, un marito con cui divido la mia, il cane e, come se non bastasse, quarto piano senza ascensore. Secondo voi, potrebbe essere felice in un posto così? Con la musica hard rock di Giulio sparata nelle casse a tripla potenza, Guenda che urla perché non riesce a studiare e Nicolè che le piazza addosso le mani piene di Nutella. Impossibile, meglio casa sua. Gheorgheta, la badante rumena assunta quasi un anno fa, se la cava egregiamente. È una donna di mezza età, graziosa, pulita e sempre in ordine, che si esprime bene in italiano. Mi è parsa sin dal principio più che affidabile. A mia madre non sembra piacere un granché, ma è già di gran lunga più gradita delle tre che l’hanno preceduta, resistendo circa un mese cadauna al tartassamento matriarcale.

Accidenti, qui la nebbia è davvero infame, meglio rallentare e concentrarsi sulla guida. Sono già in esasperato ritardo, a casa mi aspettano per la cena, ma non ha senso rischiare, l’asfalto è foderato da una patina viscida, non si vede quasi niente.

Lo sento nitidamente. Prima sotto la ruota anteriore, poi sotto quella posteriore. Mi devo essere avvicinata molto al bordo della carreggiata, perché in quel punto mancano le righe di mezzeria. Un sobbalzo… Sono passata sopra qualcosa, ma che cosa? Non direi fosse legno, il rumore era stato troppo “morbido”; nemmeno metallo o plastica… Forse un animale? Una lepre puo’ darsi, qui ce ne sono sempre parecchie, o magari qualche gatto di cascina che ha sbagliato serata per un’uscita “fuori porta”. Sono quasi alla rotonda, pochi metri e potrei imboccare la stradina che in un quarto d’ora mi porterebbe davanti a casa… Eppure… Ma no… Ma sì, per la miseria! Torno indietro: devo capire che cosa diavolo mi è finito sotto le ruote. Lentamente ripercorro il breve tratto d’asfalto e, quando oltrepasso il punto dove ho udito il rumore, con molta attenzione inverto la marcia accostando l’auto in un piccolo spiazzo erboso. Devo essere citrulla, completamente andata.

Scendo qui, in mezzo alla campagna, da sola, al buio con questa nebbia bastarda, se non faccio attenzione ci finisco io, sotto le ruote della prima macchina che passa. Niente torcia, ché ovviamente è scarica, e naturalmente niente accendino: l’ho dimenticato per l’ennesima volta da mia madre. Lascio i fari accesi e, con passo lento, m’incammino scrutando il selciato. La vedo quasi subito. Allungata e schiacciata sul ciglio, una mano di donna spunta dall’erbaccia del campo di granturco, trebbiato di recente. Mi devo fermare. Il cuore sta andando a mille. Non riesco assolutamente a spostare lo sguardo, anche se sento lo stomaco annodarsi. L’arto è inerme, immobilizzato in una posizione innaturale. Le dita paiono frantumate, schiacciate ed incollate al suolo. La pelle, bianchissima, si scorge ove il fango non l’ha sporcata. Riversa nel fosso, giace una donna. Un paio di pantaloncini cortissimi e una maglietta minuscola indosso, il volto nascosto da una massa di capelli scuri e lunghi. Una chioma che si divide in spesse ciocche, mischiate alla terra e alle foglie decomposte, fradice e sporche, simile ai tentacoli di una piovra. Mio Dio! Non sono stata io! Impossibile! Il sussulto delle ruote è stato lieve: non posso averla investita! I fari di un’auto in arrivo s’intravedono nella foschia. Mi sposto rapida più a lato possibile e quando è vicina urlo, agito le braccia, ma niente, passa veloce, neanche mi vede… O magari è proprio perché mi ha visto, che ha accelerato. Mi spaventa la suoneria del cellulare. È Claudio, mio marito.

«Pronto…», sento la mia voce tremare.

«Dove accidenti sei finita, si può sapere? Qui è scesa una nebbia fetente… Dove sei?».

«Claudio… Sono sulla strada del Poggione, sono ferma… Io…».

«Ferma?! Ti è successo qualcosa? Un incidente? Parla, per la miseria!».

«No…, no… È che…», niente, non riesco a dire nulla, a spiegarmi, sono come imbambolata, improvvisamente incapace di esprimermi.

«Laura!!! Laura!!! Dimmi, per favore! Dove sei? Vengo a prenderti?».

«Te l’ho detto, dove sono… Sulla strada del Poggione, vicino al bivio. Sono ferma, no, nessun incidente, ma ho trovato una cosa… Un cadavere… sulla strada».

«Un che…?».

«Cribbio, Claudio… Un cadavere! Una donna morta stecchita sul ciglio della strada, sono passata sopra un suo braccio con la ruota della macchina, capisci? Io non so cosa fare…».

«Sali immediatamente in macchina e vieni via subito! Ti ha visto qualcuno? Cosa vuoi fare… Non l’hai mica ammazzata tu! Sali in macchina e parti all’istante! Hai presente, Laura, sorbirti i Carabinieri e compagnia bella, domande e bla, bla, bla... Vieni a casa adesso, prima che arrivi qualcuno…».

«Ma stai scherzando? Come faccio a venire via? È una persona, non un cane…».

«Tu e le tue manie da Buon Samaritano! Ma non capisci? Puoi finire in un casino, interrogatori, domande, verbali, ma per chi, poi? Sarà una prostituta che il protettore ha fatto fuori, lo sai che su quella strada ce ne sono a decine, ma cosa te ne importa! Non l’hai investita con la tua macchina! Vieni via, Laura, per favore!”.

Sta cominciando ad alzare oltre misura il tono della voce, ho un freddo boia addosso e, appiccicato ai vestiti, un velo umido che penetra le ossa, mentre un senso di nausea violento mi tortura lo stomaco. Come può dirmi di fare questo, di scappare come una ladra, come una criminale? È mai possibile che ogni volta, di fronte ad un problema, ci troviamo sempre su sponde diverse, nel mezzo un fiume immenso di diversità? Non ho voglia di ribattere, né di spiegare quel che, dentro di me, è già deciso.

«Pensa alla cena per i ragazzi, io faccio quel che devo fare, arrivo quando posso…».

Chiudo la comunicazione. Basta! Vada a quel paese, lui ed il suo modo indifferente di affrontare la vita. Qui ci sono io ed io decido. Compongo il 112, risponde l’Operatore 57.

«Buonasera, sono Laura Dellera. Ho trovato il cadavere di una donna…».

Spiego l’accaduto e dove esattamente mi trovi.

L’appuntato Martelli è molto professionale, come tutti gli appuntati.

Mi sono sempre domandata dove le prendano, i Carabinieri, certe espressioni, scomparse perfino dai recenti dizionari e forse unicamente rintracciabili nella Divina Commedia, oltre che nelle loro relazioni e rapporti… Mah! Mi dice, ovviamente, di non toccare nulla e di non muovermi da lì, provvederà a mandare immediatamente qualcuno. Certo che non mi muovo, fatico perfino a respirare, altro che muovermi! Non è più passata una macchina. Ora di cena: la gente è seduta tranquilla davanti a fumanti piatti di minestrone, con lo sguardo incollato a qualche telenovela serale. Già…, io invece sono qui, di fronte a questa povera sciagurata. Fra poco richiama certamente Claudio: quello non si arrende mai. Sono così stanca del modo superiore con cui guarda il prossimo, della facilità con la quale si estranea dalle cose e non solo da quelle… Anche da me e dai ragazzi. Chiamo Guenda, di solito è l’unica che risponde al cellulare.

«Ciao, amore. Senti, dì a papà che faccio tardi, che è per quello di cui abbiamo parlato al telefono prima. Devo aspettare che arrivino delle persone, poi vengo a casa… Non preoccupatevi, OK?».

«Mamma, dove sei? Ancora dalla nonna? È buio, fuori c’è una brutta nebbia… Ti chiamo papà?».

«No, no… Digli solo quel che ti ho detto, lui sa già… Ho il cellulare quasi scarico, devo chiudere, arrivo presto. Un bacio, Guenda. Vai a letto presto, che domani hai il compito in classe…».

«Sì, mamma, ma quando arrivi passa in camera... Voglio un bacio…».

«Certo, ne ho uno per tutti, sta’ tranquilla. A dopo».

Ancora non s’intravedono auto in arrivo. Ritorno accanto al corpo e mi chino ad osservarlo. La mano! Sono passata con le ruote sopra la mano, di sicuro. Era già qui nel fosso, qualcuno ce l’ha scaraventata, probabilmente da un’auto in corsa. L’avrei vista se fosse stata in piedi, stavo andando pianissimo, ho una paura tremenda della nebbia, non pigio mai l’acceleratore più del necessario quando c’è così poca visibilità.

Mi ha detto il Martelli di non toccare… Lo so… Ma la tentazione di vedere almeno il viso di questa poveretta mi fa impunemente trasgredire all’ordine. Con un ramoscello, sposto un po’ la capigliatura. Ha un profilo bellissimo, una pelle diafana e labbra ben disegnate, ma non è giovanissima, direi una trentina d’anni. E poi, che strano… Qui di solito ci sono ragazze di colore, di prostitute bianche davvero non ne ho mai viste. Eppure l’abbigliamento non lascia dubbi, non è certo la divisa di una casalinga. Non oso toccarla, vorrei poter scorgere meglio il suo viso, ma è riversa e non ci riesco. Mi stupisco di me stessa: dove trovo la freddezza, la calma, persino questo pizzico di sadica ironia che provo in questo momento? Sento il rumore di un motore, lascio immediatamente il bastoncino e mi accosto al ciglio più che posso. La macchina dei Carabinieri passa lenta, con il lampeggiante che ferisce a tratti il buio. Agito le braccia, mi vedono e si fermano poco più avanti. Scende un tipo lungo lungo, con un passo sicuro e veloce.

«Buonasera, lei è la signora Laura Dellera?».

Che aquila dev’essere, questo qui? Secondo te? Vedi una fila, qua dietro? Un botteghino che vende i biglietti per platea e palco? Chi posso essere? La maga Magoo, la strega Amelia?

Lascio correre la stilettata che già mi pizzica la lingua e mi limito ad un banale: «Sì… Sono io…».

«Io sono il maresciallo Michele Di Capria, piacere di conoscerla, signora Dellera. Allora, mi spiega dettagliatamente l’accaduto?».

Per un istante fulmineo mi viene da pensare che Claudio non aveva poi tutti i torti, ma ricaccio subito il concetto fuori dal cervello.

«Veramente non ho molto da spiegare. Come ho detto già all’appuntato Martelli, io…». Descrivo nuovamente tutto sin dall’inizio, mentre lo spilungone scende nel fosso, si accovaccia accanto al corpo, accende una grossa torcia ed infila un paio di guanti in lattice.

«Non ha toccato nulla, vero?».

«No… Ovviamente no…», meno male che Pinocchio è una favola!

«Eh…, lei è ben certa che la donna non fosse in piedi sul ciglio della strada?».

«Maresciallo… Ne sono più che sicura. Andavo pianissimo, lo vede anche lei, che nebbia balorda c’è. Non l’ho investita, glielo giuro… Il suo braccio era steso sulla strada ed ho sentito un sobbalzo quando ci sono passata sopra… Solo questo, come già le ho detto…».

Adesso va davvero a finire come diceva Claudio. Mi sono infilata in un pasticcio, dargli retta, per una volta, sarebbe stato forse saggio.

«Bene… Lei adesso lascia tutti i suoi dati anagrafici e numero di telefono all’appuntato Lojacono. Noi dobbiamo aspettare che arrivi il medico legale e poi sarà necessario spostare il corpo… Lei, dopo che ha firmato i fogli che l’appuntato preparerà, può andare. Deve venire domani mattina in caserma per la deposizione, spero di non doverla disturbare troppo, mi dispiace, ma in questi casi è la prassi…».

Ora che i fari gli illuminano il volto distinguo bene i tratti tipici del Sud, la carnagione scura e la forma un po’ allungata degli occhi. Niente male, il tipo, ma mi scruta con iridi fredde, dove lievemente vagheggia il dubbio del credere o meno alle mie parole.

«Secondo lei, maresciallo… Com’è morta, questa sventurata?».

«Mah… Guardi… Potrebbe essere stata investita o buttata fuori da un’auto in corsa… Bisogna attendere il referto dell’autopsia, occorrerà qualche giorno. Cosa vuole… La vita che conducono queste donne è piena di rischi e finire in questo modo non è purtroppo una semplice “probabilità”, ma cosa ben più prevedibile. In ogni modo, mi dispiace, non posso dirle altro».

Si alza in piedi e mi tende, professionalmente, la mano. Gli porgo la mia, la sua stretta è decisa.

«Grazie, signora Dellera, per averci chiamato ed atteso il nostro arrivo Non sempre s’incontrano persone come lei. Molta gente scappa, quando incappa in cose di questo tipo…».

«Io non scappo mai, maresciallo. Senta, io lavoro al Comune, Ufficio Anagrafe. Le dico già che la nostra camera mortuaria è in condizioni pessime e che vi conviene portarla direttamente in quella di Fossano, dove c’è tutta l’attrezzatura necessaria per il medico legale. Ovviamente, però, tocca a voi decidere…».

«No, ha fatto bene a dirmelo. In effetti sono poche settimane che presto servizio in questa caserma, non conosco ancora bene il territorio. Questo è il primo caso di morte violenta che affronto qui. La portiamo a Fossano, non è di alcuna utilità alle indagini, allungare i tempi in locali male attrezzati. La saluto, ci vediamo domani in caserma, l’aspetto per le otto e mezza».

«Ok… Domani, alle otto e mezza…».

Mi dirigo verso l’auto, dove m’attende impassibile l’appuntato Lojacono. Compilazione di numerosi fogli e foglietti, e poi finalmente riesco a salire in macchina e partire. Accidenti che serata, ragazzi! Ora arriverò e dovrò sorbirmi i musi di Claudio, i “te l’avevo detto”, i “ma perché non ti fai mai gli affari tuoi?”, eccetera, eccetera… Che tragedia! In effetti, il copione non fa quasi una grinza. I ragazzi dormono già e lui, nel letto, sfoglia nervoso il giornale mentre emette un grugnito per saluto, ma poi tace. Deve avere un diavolo per capello. Normalmente mi avrebbe già aggredito. Questa volta devo aver proprio esagerato. Mi trattengo più a lungo in bagno e, prima di andare a letto, sbircio nella cameretta dei ragazzi. Si sentono i loro respiri vagare nella stanza. Guenda ha un sibilo strano, quando espira, Giulio dorme sempre con la testa piantata nel cuscino e, di tanto in tanto, emette qualche piccolo gemito, Nicolè succhia il suo pollice, quando forse un sogno le fa un po’ paura. È incredibile come un alito, un fiato, possano bastare ad una madre per riconoscere il proprio figlio. Quando mi distendo silenziosa nel letto, Claudio dorme. Meno male, niente paranoie. Sono stanca, ho saltato anche la cena, ma davvero non mi sarebbe andato giù nulla. Continuo a pensare a quella donna: chi mai sarà stato a farle del male? Chissà chi era, cosa faceva veramente. Gli occhi di colpo si fanno pesanti e si spegne la luce dei pensieri senza che io riesca ad impedirlo.

Capitolo II

Renato Feletti si è alzato presto, fuori è ancora buio pesto e la nebbia persiste imperterrita dal pomeriggio prima. L’idea di comprare quella stufa a legna non era stata, si può dire, grandiosa. Bisognava sempre alzarsi per mantenere viva la fiamma e, al risveglio, la cucina era una ghiacciaia. La spesa per far funzionare i termosifoni era diventata troppo alta, e con la pensione materna e l’assegno da cassa integrato non si riusciva più a pagarla. La fabbrica aveva deciso i tagli subito dopo le ferie e, ovviamente, con tutti i problemi di salute che aveva sempre, lui era stato fra i primi ad essere scelto. La gente ancora non riesce a concepire che il dolore non arriva solo dalle ferite o dalle fratture, ma a volte ti giunge anche dal cervello e dal cuore, altrettanto forte e devastante. Comincia a preparare il caffè, mette la tovaglia in tavola e tira fuori dalla vecchia credenza in ciliegio le sue tazze preferite, quelle con sopra disegnati due grandi sorrisi. Si sente «l’acqua in testa», come dice sempre Cesira. Di tanto in tanto gli capita, ma ora meno di un tempo. Non ricorda bene quel che ha fatto il giorno prima: anzi non rammenta proprio niente, come se avesse dormito per ventiquattrore senza sogni ed interruzioni. Ma lei la ricorda, nitidamente.

Chissà Mihaela cosa fa, adesso? Passa davanti allo specchio appeso alla parete. La barba è da tagliare, i capelli sono veramente troppo lunghi. Mamma ha ragione, si dice: devo darmi una sistemata, così proprio non va. Osserva il suo collo largo e tozzo che strozza la figura massiccia rendendo le spalle ancora più larghe. Gli occhi dal taglio lievemente sbieco hanno un colore indefinito che esita fra il grigio ed il verde, con un velo sottile d’opacità che li rende lontani. Si liscia una ciocca, Mihaela gli aveva fatto una carezza, proprio lì… Una dolcissima carezza.

«Oh, Renato! Che fai già davanti allo specchio? Te l’ho detto mille volte che lo specchio è il Diavolo! Hai acceso questa maledetta stufa? Porca miseria, che freddo fa… Guarda, si vede il fiato!».

La voce di mamma Cesira l’ha fatto sobbalzare. Non ha mai compreso in che modo riesca ad arrivare alle spalle come un fantasma, senza il minimo rumore, già perfettamente vestita nello spazio di circa cinque minuti dal momento in cui si alza dal letto.

«Mamma! Un giorno o l’altro mi farai venire un colpo…».

Era tornato a vivere con lei, da quando Roberta se n’era andata. L’esaurimento nervoso l’aveva colpito la prima volta quand’era adolescente, l’ultimo anno delle superiori. Era sempre stato molto timido, insicuro e taciturno. Era anche un po’ sovrappeso, così cominciò a ridurre il cibo. Riduci oggi, riduci domani – come avvenne non l’aveva mai capito –, dimagrì moltissimo ed il suo carattere schivo si fece ancora più spigoloso. Suo padre era sparito prima di potergli lasciare un ricordo ed un viso da rimpiangere. Cesira non ne parlava mai. Verso i vent’anni, dopo molte cure e sedute da psichiatri e psicologi, tutto sembrò migliorare. Si era fatto qualche amico, usciva, e aveva cominciato a lavorare alla Tosco & Miretti come tornitore. Fu proprio in quella fabbrica che conobbe Roberta. Si sposarono dopo tre anni. Bei tempi, erano stati quelli. Ma il “male dentro” è una bestia maledetta. Può sembrarti sparito, quietato, poi d’improvviso si ridesta e comincia a mordere la mente e lo stomaco. Così senti lo sguardo farsi cupo, nascondersi agli occhi altrui, la parola s’impoverisce e ci si allontana da se stessi e dagli altri, giorno per giorno. Roberta piangeva, lo rimproverava di non aver mai voglia di uscire, di divertirsi, di ridere, di vivere. La cosa andò avanti qualche anno, poi cominciò lei ad uscire, sempre più spesso, fino al momento in cui fece le valigie e se n’andò, dicendogli: «Tu ci morirai, seduto su quel divano… Io no».

Provò a rimanere da solo, ma Cesira giornalmente veniva e lo implorava di tornare a vivere con lei.

«Dai, vieni, cosa fai qui, solo come un cane! Lo sai che là in campagna lo spazio non manca e poi, con tutto il lavoro che mi procura quella casa, almeno mi dai una mano! Risparmi l’affitto e ti metti via i soldi…».

Era tornato un paio d’anni prima. Dopo che si è posseduta una casa propria, è difficile rientrare in quella materna. Qui le regole sono quelle di Cesira, i suoi bisogni vengono sempre avanti a quelli del figlio, la vecchiaia l’ha un po’ inacidita e le giornate diventano, per entrambi, sempre più lunghe e pesanti.

Nonostante questo, però, qualcosa negli ultimi tempi è cambiato. Le sedute dallo psicologo e la terapia hanno alquanto migliorato i malesseri di Renato, tanto da infondergli quel pizzico di coraggio che gli ha permesso di avvicinare Mihaela. L’aveva incontrata al supermercato, giù in paese. Dio, quanto era bella! Alta e slanciata, con i capelli scuri e mossi che brillavano sempre come un velluto. Lo sguardo caldo, color della castagna, e la pelle così bianca da sembrare porcellana. L’aveva aiutato a scegliere la tintura per capelli di cui Cesira aveva malamente scarabocchiato il nome sul biglietto della spesa. Chiacchierarono un po’ e poi, non saprebbe dire come, trovò il coraggio d’invitarla a prendere un caffè. Era stato così immediatamente naturale, lo stare con lei! Si erano rivisti. Niente di intimo: un cinema, qualche pizza, molte passeggiate e racconti di vita. Lei aveva avuto una storia con un uomo sposato, ma era già finita o stava per finire. Quello era un uomo malvagio, prepotente, e Mihaela non lo sopportava. Cesira non sapeva nulla, di lei.

«Non cercarti più nessuna… Lascia andare. Tanto non la trovi una come dico io, tu sei troppo sensibile, Renato… Le donne ti fanno solo del male».

Mihaela no… Lei non può farmi del male. Si siede davanti a Cesira e cominciano a far colazione. È mercoledì, giù a Fossano è giorno di mercato.

«Renato, ti preparo la lista della spesa, così vai subito. La roba è più bella la mattina presto, nessuno ancora l’ha toccata. Sai quante sceme ci sono, che per scegliere una mela ne schiacciano venti con le dita?».

«Sì, mamma. Vado a vestirmi, mi preparo e poi vado…».

«Bene, bravo… Così quando torni poti la pianta in giardino…».

Misericordia! Adesso sono “Edward Mani di Forbice”! Sì! Certo! Poto la pianta… E magari anche te… Che rabbia dentro, quando ami una persona ed allo stesso tempo la odi. Sai che gli appartieni e non c’è modo di pagare il tuo riscatto perché lei, ogni cosa che fa, la fa perché ti vuole bene e, amandoti senza darsi un limite, ti ruba la vita, attimo per attimo. Si alza col suo passo corto e va a prepararsi. Ha quel modo dondolante e frettoloso di muoversi da sempre. Piccoli passetti veloci, mai un’andatura sciolta. L’avevano sempre preso in giro, per questo. «Che fai, Renato? Zampetti come una gallina!». Il fatto è che il passo lungo gli ha sempre fatto paura, come se avesse il potere di fargli perdere il controllo e smarrire la strada, portandolo troppo lontano, tanto da aver terrore di non saper più tornare.

Non sono ancora le otto e mezzo, ed già è arrivato al mercato. Parcheggia la sua auto e si avvia lesto. Guido lo chiama dal tavolino del bar, agitando la mano. Si sarà già fatto il solito bianco, dando inizio alla trafila giornaliera che trasforma i bicchieri in bottiglie e queste in fiaschi. Le tipiche venuzze dell’alcool gli colorano il viso con un vago colore violetto, che si accentua sulla punta del naso. Beve da sempre, come suo padre. Il mestiere di muratore spesso aiuta, in questo vizio maledetto: d’inverno fa freddo, un buon bicchiere di vino scalda le ossa, d’estate fa caldo, una birra gelata rinfresca e disseta. Il problema consiste nel sapersi dare un freno.

«Renato! Renato! Vieni qua… Dai… Ci facciamo un bicchierino insieme! Lascia stare la spesa per la Cesira… Il mercato dura fino all’una, hai tempo finché vuoi…».

Renato si avvicina.

«Grazie, Guido, ma lo sai che io la mattina non bevo mai…».

«Ah… Già… Dimenticavo che sei un “virtuoso”, tu… Dì un po’: hai sentito quello che dicono?».

«No, arrivo ora… Che dicono?».

«Dicono che questa notte hanno trovato una donna morta sulla strada del Poggione… Una di quelle… Mi capisci, vero? Guarda, non fosse mai esistita ’sta legge “Merlin”… Così se ne stavano nelle case, si lavavano, si pulivano e non facevano la fine del topo, come capita invece adesso. Ma non mi fan pena, eh… Proprio no… Se la vanno a cercare, quelle t…».

«Eh piantala un po’, Guido, di sparar sentenze! Ma che ne sai tu, chi era e che cosa faceva quella là…».

«Oh… Ma non ti scaldar tanto! Cos’è… Sei un loro cliente, per caso? Non la trovi in giro, vero Renato? La devi pagare!».

Si mette a ridere forte, con i denti sgangherati messi in bella vista. Renato abbassa lo sguardo, vorrebbe tirargli un pugno, buttarlo a terra insieme alla sua bottiglia, prenderlo a calci, invece…

«Io non ho bisogno di queste cose… Io sto bene così. Dacci un taglio, Guido, e lasciami in pace. Ci vediamo… Ciao».

«Corri, corri con i piedini, Renato, altrimenti mamma ti mena!».

Lo sente ancora ridacchiare e blaterare girato l’angolo del vicolo. Guido… Che persona impossibile! Ma prima o poi creperà, su quel tavolino, ci scommetto la testa! Oh, poco danno, se ne può far a meno, di uno così! Nessuno piangerebbe la sua dipartita, può darsi solo l’oste, perché è un buon cliente. Guarda un po’, sa sempre tutto lui, il “Gazzettino del paese”!

Se la donna era morta davvero come si diceva, a Renato dispiaceva. A volte, quando le vedeva sulla strada, aveva la tentazione di fermarsi. Loro lo invitavano sempre, con ampi gesti e grida. Troppo belle, per lui, e poi mamma non voleva. «Portano malattie e ti rubano l’anima…», gli diceva sempre. Gli piaceva guardare quelle bianche, quasi tutte dell’Est. Le prostitute di colore lo inquietavano ancora di più: lo fissavano con quel loro sguardo “selvatico” e avevano un odore forte diffuso sulla pelle. Odore di terra che gli penetrava nelle narici quando erano sedute sul bus, davanti a lui. No… Quelle non avrebbe potuto sfiorarle nemmeno con gli occhi.

La spesa è veloce, le bancarelle sono ancora deserte. Può fare un salto al supermarket, magari incontra Mihaela che fa la spesa. È così una brava ragazza! Lavora di notte a Torino in un call center di una compagnia telefonica, o almeno così gli aveva detto, e lui era sicuro che fosse vero. Mihaela non gli avrebbe mai detto bugie… Di certo mai. Può essere che non gli abbia detto tutto, ma solo perché ancora non si conoscono abbastanza a fondo. In effetti, non conosceva l’indirizzo dove abitava. Arrivava sempre con l’autobus e con quello se n’andava, non osava chiederglielo e lei non gliel’aveva detto. Era così buona e gentile, lo aiutava sempre a fare le commissioni e la settimana scorsa... O forse era quella prima? Quando fosse successo, non lo ricordava bene, ma gli aveva levato il patema di andare a fare quel documento. Lui odiava gli uffici, non riusciva ad esprimersi bene e lo sguardo un po’ accusatorio e stizzito dell’impiegata dell’Anagrafe lo metteva in tremendo disagio. Meno male che era andata lei: dieci minuti e tutto fatto. Che ragazza!

Gli scaffali del supermarket sono perfettamente ordinati e Claudia, alla cassa, si lima un’unghia con l’aria assorta.

«Ciao, Claudia…».

«Oh… Ciao, Renato, manco t’ho sentito entrare! Sei sempre mattiniero, tu!».

«Mia madre è mattiniera…».

«Porta pazienza, Renato… Io non ho nessuno che mi dice di fare questo o quello, ho una gran libertà, ma… Che silenzio, quando torno a casa la sera! Mi manca mamma, lo sai?... Mi manca tutto, anche le urla e le litigate. Sul tavolo non c’è niente, la stufa è spenta, mangio da sola, guardo la televisione accanto ad una sedia vuota…».

Claudia aveva perso la madre da poche settimane. Una brutta malattia, di quelle che ti portano via in un lampo e non ti danno il tempo di capire e accettare la tua sorte, né a te, né a chi ti vive accanto.

«Mi dispiace, Claudia…».

Fa un cenno con la testa e non parla più, forse la voce le è rimasta impigliata in quel nodo che ogni tanto le si forma in gola. Renato si allontana e vaga per circa un quarto d’ora nelle corsie silenziose. Non è poi così certo che Cesira gli mancherebbe, ultimamente è davvero insopportabile. Mihaela non arriva, ricordasse almeno bene quand’è stata l’ultima volta che l’ha incontrata… Lunedì? Martedì? Inutile… Solo nebbia. E se fosse stato ieri? Ieri… Ieri che è sparito dalla sua testa, evaporato, assorbito come una lacrima dentro un fazzoletto.

Meglio che torni, è già tardi. S’incammina verso l’auto, mentre sgranocchia un pezzo di grissino.

Capitolo III

Suona la sveglia, le sei e mezza spaccate. Misericordia! Dove me la sono persa, questa nottata? Sembrano essere trascorsi cinque minuti da che mi sono infilata sotto le coperte. Un dolore bastardo alla cervicale mi pugnala, mentre sollevo il capo dal cuscino. Tutto il freddo che ho preso stanotte, là sulla strada del Poggione… Devo andare in caserma ed avvertire l’Ufficio che questa mattina arrivo in ritardo. Per una volta, non morirà nessuno. Da me è un’abitudine arrivare in ritardo, tanto tutti sanno che la fessa qui presente passa sempre il badge dieci minuti prima dell’orario. Niente da fare: o si nasce ritardatari cronici o imbecilli puntuali, uno compensa l’altro, ma il secondo ha sempre la peggio. Fidatevi: ho una ventennale esperienza, in merito.

Claudio è già andato via. Fra un po’ suona la sveglia di Giulio, poi quella di Guenda. Verso le otto arriva Maria per prendere Nicolè e portarla all’asilo. Un colorato mosaico di vite, incastrate fra le lancette di un orologio. Due pezzettini di metallo fabbricato in Cina che dirige, come un Maestro d’orchestra, tutta la nostra esistenza. A me non sembra una gran vita, ma a quanto mi risulta, siamo in molti a farla.

Inutile indugiare, meglio spicciarsi. Senti che roba: tic-tac, tic-tac, quello non si ferma mai, neanche prendendolo a martellate. Alle otto e dieci, un po’ ansimante, salgo in macchina e parto. Ho perso un po’ di tempo per prepararmi, chissà poi perché. Questo non và, questo segna la pancia, quell’altro è troppo corto, l’altro ancora troppo stretto. Alla fine i soliti jeans hanno risolto il problema. Mi domando perché vi siano giorni in cui lo specchio sembra prendersi gioco di noi, buttandoci in faccia ogni minuscola pecca del nostro invecchiare. Forse ci legge dentro, probabilmente tutto s’imbruttisce e si logora, se nell’intimo di noi stessi siamo in guerra ed infelici. Ho uno specchio intelligente, allora, se n’è accorto.

La caserma è a Fossano, il nostro paese è troppo piccolo per ospitarne una, così ce la dividiamo in diversi. Da noi nella “Provincia Granda”, del resto, si sta ancora abbastanza tranquilli. Un’ampia pianura dove lo sguardo può spaziare senza intoppi fra il verde e l’azzurro del cielo, genuine parlate in dialetto e donne col grembiule che ramazzano i cortili delle cascine. Una scheggia di passato incastrata in un futuro invadente, che distorce e confonde i sentimenti ed i paesaggi con rabbia e cemento. Percorro Via Roma bordata dai suoi portici antichi, dove si stanno accendendo le prime luci dei negozi. Ci passeggio in occasione dei rari raid di shopping convulso che ogni tanto mi sconvolgono la vita, per impedirmi di sconvolgerla con qualcosa di peggio. In quei momenti penso a quanti passi hanno visto queste volte arrotondate, a quante vite, amori ed odi hanno assistito, e mi sento avvolta da una “storia” importante, scritta su pietre e muri.

La piazzetta antistante la caserma è deserta. L’asfalto riluce sotto il primo raggio di sole. Oggi il cielo ha il color dello zaffiro e un po’ di gelida brezza muove il paesaggio. Mi pare di essere uscita da un bunker cupo e buio, la nebbia si è dileguata silenziosa così com’è venuta, lasciando sul ciglio della strada la vita di quella donna. Brutta storia…

Mi accoglie l’appuntato Lojacono, impassibile come la notte precedente. Aspetto un po’ in sala d’attesa. Appesi alle pareti, tutti i calendari dei Carabinieri dell’ultimo decennio, un armadio in arte povera ed uno sbilenco in lamiera grigia si urlano reciprocamente il proprio odio. Vincerà l’antico, è inevitabile. Non riusciamo più a fabbricare “cose che durano”: oggetti, sentimenti, passioni, tutto sembra avere una data di scadenza stampata sul fondo, una data assolutamente non prorogabile.

«Buongiorno, signora Dellera, spero di non rubarle troppo tempo…».

La voce del maresciallo mi coglie impreparata e faccio un piccolo salto sulla sedia. Un vizio maledetto, quello di perdermi dietro ai pensieri con inutili elucubrazioni mentali! Riuscirò mai a cambiare, prima o poi?

Lui abbozza un sorrisetto divertito ed io stringo la sua mano tesa.

«Si figuri, nessun disturbo…». Entriamo nell’ufficio.

Nell’aria l’odore della carta, assopita fra le montagne di cartelline posate sugli scaffali. Accanto alla finestra, un rigoglioso ficus riverbera la luce al neon sulle sue foglie carnose e lucide. Le sedie, rivestite di velluto ocra, sono morbide ed austere allo stesso tempo. La scrivania, ordinata ed essenziale, ha grosse gambe tornite e possenti, intarsiate abilmente con riccioli e foglie in un legno dalle calde tonalità rossicce. Ad un piccolo tavolino, nell’angolo della stanza, l’appuntato è già seduto dietro ad un computer. Ha posato il cappello sopra una risma di fogli, svelando una carente chioma che faticosamente mal nasconde la troppo giovanile “pelata”.

«Si accomodi, prego. Gradisce un caffè?».

«Volentieri, io vivo di caffè…».

L’appuntato sparisce nella stanzetta accanto e sento il tipico rumore delle cialde spinte nella macchinetta. Dopo poco, se ne torna con due bicchierini fumanti fra le mani. L’aroma che si spande nella stanza promette bene… Speriamo.

«Allora, signora, dovrebbe per favore descrivermi nel modo più preciso possibile quanto è successo ieri sera. Dobbiamo compilare il verbale, la sua deposizione è molto importante».

Ancora una volta e facevano tre! Claudio aveva ragione. Racconto nuovamente l’accaduto. Il rumore, l’inversione di marcia, il ritrovamento. Non è che ci sia molto da dire, in verità. Il maresciallo ascolta silenzioso, mentre sento alle mie spalle il pigiare dei tasti del Lojacono. Usa due dita solamente, si capisce dal rumore. Sarò rimasta la sola ad usare tutte e due le mani e a non guardare la tastiera? Dovrebbero mettermi in una teca, rinchiudermi in un museo accanto allo scheletro di un mammuth. L’ultima arrivata da noi ne usa praticamente uno, di dito. Se l’evoluzione umana continua in questo senso, beh…, io non la chiamerei proprio… “evoluzione”. Taccio per qualche minuto, poi non mi trattengo dal fare una domanda.

«Maresciallo, mi scusi, forse le sembrerà poco opportuno e troppo invadente, ma m’interesserebbe vedere una foto di quella donna. Sa, non ho avuto modo di osservarla in volto, e mi è rimasta questa curiosità… Non saprei nemmeno spiegarla… Io…».

«Mi sono appena pervenute le fotografie scattate dal medico legale. Non è un bello spettacolo, signora Dellera, è proprio sicura di volerlo fare?».

«Sì…, la prego…».

Apre il cassetto della scrivania. Scorgo all’interno una scatola di sigari, una carta stropicciata di caramella, un disegno infantile. Sposato, il tipo, con figli al seguito, stop ad ogni mio fuggevole pensiero. La foto si posa davanti a me. Il livore del volto rende la pelle quasi trasparente, le palpebre sono abbassate e le labbra appena socchiuse. Ha una fronte alta, un naso ben disegnato ed una folta chioma scura ed ondulata.

«Siamo quasi certi, dalle fattezze, che si tratti di una straniera, rumena o slava, ma non aveva alcun documento, con sé. Abbiamo diramato la foto segnaletica, attendiamo notizie dalla Polizia e dai colleghi d’altre caserme… E poi, dai primi riscontri dell’esame medico, posso dirle che non è stata investita. La causa di morte, purtroppo, è strangolamento».

La sua voce in quel momento era molto lontana… Io ho già visto questa donna… Ma dove? Taccio il mio dubbio, non voglio infilarmi in qualche altro ginepraio, ché poi magari mi sbaglio e devo sorbirmi ulteriori interrogatori. Sorvoliamo. Se in seguito la mia memoria dovesse recuperare qualche ritaglio più preciso, posso sempre farmi risentire, in questo momento meglio non rischiare brutte figure.

«La riconosce? L’ha per caso vista da qualche parte, incontrata anche solo di passaggio?».

«No, mi dispiace, maresciallo, mi è totalmente sconosciuta… Posso rifletterci con calma, ma sinceramente non mi sembra d’averla mai vista prima…».

«Va bene, direi che abbiamo terminato. Appuntato, ha finito di scrivere il verbale? Facciamo firmare la signora, così è libera di tornare ai suoi impegni…».

«Certo, maresciallo, ho finito». Mi porge i fogli.

«Dia pure una lettura veloce, prima di sottoscriverlo. Qualora trovasse discordanze con quanto da lei riferito, lo correggeremo».

Lascio correre lo sguardo sulle fitte righe: tutto fila.

«Va tutto bene, maresciallo, firmo e posso andare?».

«Senza dubbio. Se dovessimo avere ancora bisogno di lei, la ricontatterò. Può lasciarmi il numero di casa o di cellulare, se preferisce?».

Scrivo il numero del telefonino sul foglio che mi porge, quello di casa meglio di no, ché se risponde Claudio apriti cielo. Ci salutiamo nell’ingresso e scappo via. C’è poco traffico, a quest’ora, le vie di Fossano sono tranquille. Sul lastricato è rimasta una patina lucida e la gente passeggia sui marciapiedi. Qualcuno si ferma davanti alle vetrine, altri hanno il passo affannato e battono il piede o tamburellano le dita sul cappotto mentre aspettano il verde al semaforo. Costeggio Piazza Castello. Oggi c’è il mercato, le ordinate file di bancarelle espongono la loro merce appesa ai grandi ombrelloni. Vestiti con paillettes e strass, perfetti per minute bamboline, catturano a tratti i raggi del sole promettendo fantastiche serate da discoteca. È diventato un problema anche vestirsi con gusto senza rimetterci lo stipendio. Se avessi fatto il concorso in questo comune, invece che nel mio paesino, forse sarebbe stato preferibile. Qualche possibilità in più di carriera l’avrei avuta e, se non altro, nella pausa pranzo, avrei dove andare, per fare quattro passi. Pazienza: quel che è fatto è fatto, a quarantotto anni non cambio di certo, va bene così.

In ufficio sono già tutti alle proprie postazioni. Gioie mie, stamattina avete aperto voi tutto l’armamentario, acceso i computer, stampanti e macchinari vari… Siete perfino un po’ trafelati, povere creature! Riccardo, il Capo, si svena in un saluto con mossa di dito. Luciana sta rileggendo qualche atto e non alza nemmeno la testa. Mi raccomando: non troppo euforici, ragazzi, altrimenti vi si scioglie la maschera di cera! Dove posso aver visto quella donna? D’improvviso, una folgorazione.

Qui in ufficio! Giusto! Proprio qui! Ecco, dove l’ho vista! Sarà stato circa un mese fa o forse anche di più, è venuta per fare qualche documento, ma non ricordo esattamente… Non riesco a mettere a fuoco…

«Laura, prendi le buste nell’armadio, sono finite…».

Le buste? Quelle sul soppalco, che per arrivarci bisogna prendere la scala? La scala in dotazione all’ufficio risale circa all’epoca barbara: in ferro, pesantissima. Ovviamente nessuno ama usarla. Chi soffre di vertigini con dolori diffusi ad un ginocchio, chi è Capo e naturalmente non gli compete… Rimango io, la “gnugna” di turno.

La giornata prosegue con gente che va, gente che viene, telefono che squilla. L’ultimo cliente è un finanziere che mi presenta il modulo compilato inerente alla richiesta di certificati per un tizio “uccel di bosco”… Ecco cos’era venuta a fare! Un certificato per qualcun altro! Per forza, allora, deve aver compilato la richiesta, obbligatoria se non si è un famigliare. Posso tentare una ricerca. Se è stata qui per conto di qualche studio, potrebbero non esserci i suoi dati, ma quelli dell’avvocato. Speriamo che la pratica non sia già stata mandata in archivio, c’è un tale caos là sotto! Non si riuscirebbe a trovare neppure un antico papiro egizio, di dimensioni quattro metri per due. Sono le quattordici, fine dell’orario. Riccardo è uscito un quarto d’ora prima, Luciana si trattiene il tempo di vestirsi e poi schizza via. Sola, finalmente!

Riapro l’armadio in cui conserviamo l’archivio corrente. Il faldone che m’interessa è alquanto copioso, occorre una buona dose di fortuna per trovare qualcosa qui dentro, specialmente quando non si sa bene cosa si sta cercando. Richieste d’avvocati, agenzie investigative, pubbliche amministrazioni, privati, sono già arrivata oltre la metà. Guardo l’ora: le tre. Non mi rimane molto tempo, prima che Nicolè esca dall’asilo. Il foglio che ho davanti è una richiesta, datata 3 ottobre, di una certa Mihaela… Maledizione! Neanche a farlo apposta, una goccia d’inchiostro copre quasi l’intero cognome. Finisce con una “u”, ma tantissimi cognomi slavi terminano con questa vocale. Questa macchia è opera di Luciana, inzuppa sempre il tampone per i timbri e poi riduce a chiazze ogni foglio che gli passa tra le mani. La tizia richiedeva lo stato di famiglia ad uso pensione di una certa Cesira Rebaudengo. Era lei, ne sono certa. Rammento d’averla notata perché non era una del posto ed aveva modi particolarmente gentili ed educati, nonché, malgrado l’accento, un’ottima padronanza della nostra lingua. Al computer digito il nominativo e sul video appare la composizione famigliare: Cesira Rebaudengo – Madre; Renato Feletti – Figlio.

Cosa avevano a che fare, con la vittima, queste persone? Le conosco di vista, lei è una vecchietta un po’ rompiscatole che si lamenta sempre di tutto, lui un tipo strano, che cammina come un robottino e ha lo sguardo un po’ annacquato. Perché una sconosciuta, senza dubbio rumena, avrebbe dovuto chiedere un documento per loro? Non avevano mai avuto badanti, in casa, Renato pensava a tutto e la Cesira se la cavava ancora bene. Avevamo una quarantina di abitanti comunitari, la maggioranza per l’appunto rumeni, ma la donna non è né è mai stata residente. I Feletti abitano fuori paese, più vicini a Cervere che a noi, può essere che arrivi da lì…

«Laura, ancora qui? Come mai?».

La voce di Riccardo arriva come una freccia.

«Niente, volevo sistemare un po’ le cose da mandare in archivio e poi sono arrivata in ritardo ed ho preferito recuperare nella giornata, ti dispiace?».

«No… Ma vedi di non fare più ritardi, per questa settimana…».

Guarda un po’ da che pulpito viene la predica! Che coraggio!

Chiudo il faldone e l’armadio, saluto ed esco, ma vai a quel paese! Proprio tu parli, che ti gestisci l’orario a proprio uso e consumo… Incredibile!

Capitolo IV

Gheorgheta si è raccolta i capelli e li ha fermati con le forcine in un piccolo “puciu” stretto stretto. Sono lunghi, con qualche striatura grigia, e «le donne di una certa età non stanno bene, con i capelli sciolti», le diceva sempre sua madre. Il suo viso minuto, dai tratti marcati, è molto segnato. La scelta di venire in Italia non è stata sbagliata, anche se il prezzo pagato è stata la dispersione della sua famiglia. Sistema il bagno, poi incomincia a rassettare la cucina. L’odore dell’alcool evapora nell’aria. La signora ha questa mania, pensa: usare solo l’alcool. È vero, disinfetta perfettamente, ma che puzza d’ospedale lascia dappertutto!

Sono due giorni che Laura, la figlia di Caterina, non chiama. Lei viene spesso, anche se lavora e ha tre figli. Al telefono, poi, si sentono ogni giorno. È strano questo silenzio: non ha parlato di viaggi o vacanze. Eh, i figli! Una condanna d’amore per tutta la vita. Li ami senza eccezioni, anche quando dicono di non trovare il tempo e si dimenticano di te. A volte succede che si ribellino, gettandoti addosso una rabbia che ti lascia annichilita. Da dove viene quella rabbia? Sua figlia le aveva urlato in faccia un tale disprezzo da lasciarla senza parole: «Io non farò la tua fine, pulire il sedere ai vecchi, ma figurati! Siamo partite dalla Romania per venire a fare le serve? Abbiamo lasciato là papà che nemmeno si preoccupa di sapere se siamo vive o morte, gli mandiamo i soldi ogni mese… Io, al suo posto, mi vergognerei di farmi mantenere da una donna!». Aveva continuato con ira e voce stridula, lasciando uscire dalle sue labbra ogni sorta di cattiveria germogliata in un’infanzia difficile. Eppure, se la vedi, pensa ancora Gheorgheta, sembra la dolcezza fatta persona e dentro, sono sicura di non sbagliare, ha un animo buono. È così bella! Somiglia terribilmente a Constantin quand’era giovane. Alta, slanciata e fiera, spesso la bellezza rende più difficile l’adattarsi alla povertà. Oramai sono sei mesi che non si fa sentire, Gheorgheta non sa nemmeno dove cercarla. Ma prima o poi torna… Lei lo sa… Alla fine capirà cos’è la vita, non è più una ragazzina.

«Gheta!!! Gheta!!!».

Dalla camera Caterina la chiama con la voce un po’ tremante, non ha mai imparato – o voluto imparare – il suo nome per intero.

«Dica signora, ha bisogno?».

«Apri un poco la finestra, Gheta, sento una puzza, qui dentro! Quanto alcool hai usato? Possibile che devi sempre sprecare la roba? Costa, lo sai? Ah, che dolore alle gambe, stamattina! Tu non hai mai niente, invece, sei sempre arzilla, neh? Una bella fortuna, per voi rumene, la nostra vecchiaia… Il pozzo di San Patrizio!».

Cosa vuole dirle? Non ragiona… o ragiona male. Non fosse per Laura, la figlia, se ne sarebbe già andata. Laura è così gentile e così carina, con lei. Caterina è depressa e va avanti a gocce e calmanti, ma la malignità è una cosa che si ha nel sangue, non è una malattia. Lo stipendio, però, le serve, e quindi deve sopportare. Spera solo di sopravvivere anche a lei, come ai due che l’hanno preceduta. Noi giungiamo da un paese straniero e diventiamo una specie di “angeli della morte”, riflette la donna. Ci pagano per levarsi un problema, per stare accanto alla vecchiaia guardando le malattie dilaniare le vite ed i cervelli. Non è un bel lavoro, ma si riesce a guadagnar bene. Da noi si fa la fame, altrimenti non lasceremmo le nostre case e la nostra storia per una terra mai vista e volti pieni di rughe che ci guardano con diffidenza e disprezzo.

«Laura ha chiamato?».

«No, signora, non ha chiamato».

«Dove sarà finita? Si è dimenticata di sua madre?».

«Oh, signora! Ma per carità! Laura non si dimentica mai di lei, ha una brava figlia…».

«Tu hai figli? Quella che è venuta un po’ di tempo fa e urlava qui fuori, è una tua parente?».

Non le ha mai fatto domande sulla sua vita privata, niente di niente, come se la considerasse così insignificante ed inutile da non lasciar nulla da raccontare o da dire.

«È mia figlia. Ha ventotto anni, vive a Torino e lavora là. Non ci vediamo spesso… Lei viaggia molto…».

La bugia “salvafaccia” di una madre che non si arrende è una regola che vale per tutte le madri della terra.

«Ah… Ho capito… Beh, tieni, qui c’è scritto il numero di telefonino. Chiamala tu, Laura. Io con quest’aggeggio non ci so fare, per miracolo riesco a rispondere, quando suona…».

Gheorgheta prende il cellulare e compone il numero scritto sul foglietto.

La voce di Laura irrompe nell’orecchio.

«Mamma, scusa! Sono due giorni che non ti chiamo, ma…».

«Laura, mi scusi, sono Gheorgheta, la signora mi ha detto di chiamarla…».

Caterina, sottovoce, dice: «Parlaci tu, chiedi quando viene… Non ho voglia di sentirla, si è dimenticata di me…».

Gheorgheta gesticola, cerca di convincerla, ma niente, incrocia le braccia voltando la testa dall’altra parte: una bambina capricciosa, piena di rughe.

«È successo qualcosa a mamma? Sta male?».

«No, assolutamente no. Anzi, ora sta facendo una passeggiata nel cortile. Mi ha detto di chiamarla per chiederle quando viene…».

«Ah… Ho capito: sta facendo la dura, l’offesa. La conosco bene, sa, Gheorgheta: ci vuole una pazienza! Mi dispiace di non aver chiamato, ma l’ultima volta che sono stata lì, ritornando a casa, mi è successa una cosa…».

Laura racconta quanto è successo: come abbia trovato il cadavere di quella donna, confuso nella nebbia. Gheorgheta ascolta in silenzio e comincia ad avvertire un vago senso di paura insinuarsi nel cuore. Impossibile capire ove tragga origine, ma mentre ascolta Laura un tremore le muove le mani e il dubbio s’incunea nella sua mente. Si allontana dalla stanza ed esce sul balcone, con la mano che gli trema contro l’orecchio.

«L’ha vista bene, quella donna? Com’era? Giovane?».

«Giovanissima no… Sulla trentina, direi. Ho visto la foto in caserma: una bella donna, pensano sia rumena. Aveva i capelli neri, mossi e lunghi… Ed una pelle bianchissima… Dicono i carabinieri che è stata…».

«Oh, mio Dio…».

Gheorgheta si aggrappa alla ringhiera. Sente il fiato farsi corto ed il rumore del cuore che percuote le pareti.

«Cosa c’è, Gheorgheta?... Cosa sta succedendo?».

«Mia figlia… Io ho una figlia, ma non so dov’è… Lei non mi parla più da tanto… Io… Non so spiegare, ma ho come un presentimento, Laura… Un brutto presentimento…».

«Che cosa stai dicendo, Gheorgheta! Lo sai che quella strada non è ben frequentata, ci sono molte…».

«Prostitute! Lo dica pure, Laura! Ed io cosa ne so, di quel che faceva veramente? Sono più di sei mesi che non si fa sentire per niente. Io vorrei poter vedere quelle foto, Laura… Per togliermi il dubbio. Ora che mi gira nello stomaco, non posso non pensarci… Dov’è la caserma? Mi ci può accompagnare?».

«Certo, Gheorgheta, che ti accompagno! Vengo a prenderti oggi pomeriggio verso le due e mezzo, così ti metti il cuore in pace. Vedrai che tua figlia non c’entra nulla con questa donna, ne sono sicura. Non so proprio come possa esserti venuta quest’idea, se l’avessi saputo non ti avrei detto niente…».

«Laura, magari esagero, ma…».

Laura pensa ai respiri dei suoi figli nel buio, alle mille volte che ha colto le parole non dette di Giulio e Guenda, alle paure che ha riconosciuto, mascherate dietro ai loro sorrisi… I timori di Gheorgheta non sono più così assurdi e impossibili.

«Tieniti pronta per le due e mezza, Gheorgheta, saluta mamma e dalle un bacio per me».

«Certo, l’aspetto…».

Capitolo V

E così, oggi mi tocca tornare in caserma. Il maresciallo penserà che sono un’impicciona, una di quelle che gioca a fare il poliziotto. Gli devo dire anche dei Feletti? Non so se mi conviene, sono solamente supposizioni, può darsi che ho sbagliato persona e magari la Mihaela non c’entra per niente. Certo che però da noi non sono venute tante rumene a chiedere certificati per residenti. La cosa non è proprio “normale”. Il Feletti è sempre stato un tipo strano, pieno di problemi sin da ragazzo, pure la moglie l’aveva mollato, qualche anno prima. Anche se ha l’aria da “babascione”, qualcosa stride nei suoi modi di fare. Ha sempre quello sguardo stranito e quando viene in paese con la madre le sta sempre dietro con la testa bassa, al contrario di lei, che arcua perfino la schiena per far meglio la “madama”.

Mi tocca chiamare Maria e chiederle il favore di tenere Nicolè da lei fino al mio ritorno. Guenda e Giulio hanno i rientri a scuola, quindi non saranno a casa prima delle sei. Per quell’ora spero di esserci anch’io. Non posso dire di no a Gheorgheta: sono madre anch’io, capisco certe cose, certe correnti che a volte ti attraversano il cervello ed il cuore, suscitando ansie che possono tramutarsi in verità. Come quella volta che vedevo Giulio troppo taciturno e scontroso. Andai a rovistare nel suo zaino e ci trovai un sacchettino con una catenina ed un anello d’oro innegabilmente di fattura femminile. Lo bloccai la sera in camera e, dopo dinieghi ed urla, crollò. Il suo amico li aveva prelevati dal portagioie della sorella con l’intenzione di rivenderli e comprare qualche gioco idiota da playstation. Forse Giulio nemmeno aveva capito la gravità della cosa, gli spiegai che aiutare un ladro significa essere un ladro. La cosa finì con una mia telefonata al ragazzino, che giurò di rimettere tutto al suo posto, anche perché era l’unica scelta per evitare una mia telefonata ai suoi genitori. Spero sia servito di lezione, a tutti e due, ma non ci giurerei: a volte l’amicizia inganna e ingarbuglia le carte, facendoti tirare su dal mazzo quella sbagliata. Spesso i pensieri nascono dal nulla, ma nella testa di una madre il nulla quasi mai esiste. Alle due e un quarto sono già davanti al cancello di mia madre.

Scendo, devo salutarla, altrimenti finisce in gloria e mi ci vogliono tre mesi per strapparle un sorriso. Gheorgheta mi apre la porta. È pallida più del solito e mi sussurra: «Non ho detto nulla alla signora… Le dica che deve portarmi dal medico per delle prescrizioni, la prego…». Le accarezzo una spalla, mentre con gli occhi le dico sì.

«Olà, ciao mamma! Come stai? Scusami tanto per questi giorni, ma sono stata ad un corso a Torino e ho dormito da Luisa. Sai, era tanto che non ci vedevamo e ne abbiamo approfittato…».

«Perché? Non ci sono i telefoni a Torino? Cosa usano, i segnali di fumo?».

«Dai, mamma! Due giorni, sono passati solo due giorni, non due anni! Non fare così! Senti, porto Gheorgheta a fare delle commissioni, questione di un’oretta e torniamo…».

«Commissioni? E che commissioni deve fare? Ah certo, con i soldi che si prende tutti i mesi, se le può fare sì, le commissioni! Pure la roba firmata si può comprare!! Mangia e dorme a sbafo, mette via tutto…».

«Mamma, vedi di piantarla, adesso esageri, e anche parecchio. Riposati un po’ e prendi le tue gocce. Quando torniamo, ci facciamo un bel the e parliamo un pò…».

Le do un bacio, mentre lei nasconde la faccia nel cuscino. E magari dargli invece un bel “lordone”, di quelli che ogni tanto mi elargiva quand’ero bambina? A volte, invecchiando, si oltrepassa veramente la soglia dell’equilibrio. Nell’infanzia le si sta di fronte, ora, invece, lei la sta superando. Gli effetti sono identici: capricci, testardaggine e più d’un pizzico di cattiveria. Gheorgheta in macchina è silenziosa. Mentre percorro la strada del Poggione, lei guarda fuori dal finestrino.

«Dov’è che l’ha trovata?».

Indico un punto poco più avanti.

«Lì, Gheorgheta, proprio lì…».

Vedo i suoi occhi nascondersi dietro un velo e le labbra serrarsi marcando le piccole rughe che le facevano da contorno. Non parliamo più, nessuna delle due ha abbastanza lettere d’alfabeto per farlo. Non riesco a chiederle nulla, nemmeno il nome di sua figlia. Che stupida, non ho avvertito il maresciallo, prima di venire. Potrebbe non essere in caserma, se è rimasto solo il Lojacono, tanti auguri! Siamo a posto! Facciamo notte, senza ombra di dubbio. La caserma è più luminosa dell’altro giorno. Le spesse tende di cotone azzurro sono legate ai lati da grossi cordoni in raso. Il maresciallo c’è e ci viene incontro con l’aria un po’ stupita.

«Signora Dellera, come mai di nuovo qui?».

«Buongiorno, maresciallo, mi deve scusare. Le presento la signora Tampu Gheorgheta, badante di mia madre. Siamo venute perché ho riferito alla signora quanto è successo l’altra notte ed è sorto in lei un atroce dubbio… Sa, ha una figlia che non vede da tempo e la mia descrizione ha suscitato la sua apprensione. Vuole accertarsi che la donna ritrovata non sia sua figlia, vorrebbe vedere le foto, se possibile…».

«Certamente, se lo desidera… Non siamo ancora risaliti all’identità della sconosciuta, abbiamo diramato le foto segnaletiche a Polizia ed Interpool, ma per ora nessuna notizia. Se pensa di farcela, possiamo recarci direttamente alla camera mortuaria per un riconoscimento. L’autopsia è terminata, ma non abbiamo ancora chiuso la salma nella bara…».

«Per me va bene». Gheorgheta aveva parlato con un filo di voce.

C’incamminammo verso il cimitero.

«Certo che come inizio non mi posso lamentare. Sono arrivato a Fossano da appena un mese e subito m’imbatto in un omicidio di questo tipo. Mi hanno garantito che qui da almeno cinquant’anni non capita una cosa del genere. Non sono stato molto fortunato…».

«In effetti, maresciallo, è incappato nell’unica eccezione che conferma la regola. Questi sono posti tranquilli, perfino troppo, a volte…».

La camera mortuaria è annessa al cimitero. Entriamo e subito un freddo maledetto c’investe le ossa. Prendo la mano gelida di Gheorgheta fra le mie e seguiamo il maresciallo. La stanza è semibuia, ma sul tavolo d’acciaio la pelle bianchissima della donna rispecchia la luce della piccola lampadina votiva accesa sul tavolino. Le hanno messo un vestito bianco con piccoli fiorellini rosa, abbottonato fino al collo per nascondere la firma del medico legale. I capelli sono pettinati e posati sulle spalle, le mani trattengono un rosario arrotolato alle dita tumefatte e livide. Non ho più dubbi, è la donna che è venuta in ufficio. Gheorgheta si avvicina e non ho il tempo di sorreggerla, mentre si accascia al suolo.

«Mihaela…».

Sento quel nome, ed è come un lampo che mi attraversa il cervello.

Perché né al telefono né durante tutto il tragitto in auto ho domandato a Gheorgheta il nome della figlia?

L’avesse pronunciato almeno una volta, quel nome, avrei forse potuto cogliere un nesso fra le cose che sapevo e quelle che immaginavo. Non l’avrei mai accompagnata qui, in questo modo, con nel cuore la certezza – o quasi – che si sarebbe trovata davanti al corpo di sua figlia. Sono stata veramente un’imbecille, ma mi sembrava così assurdo che i suoi timori potessero essere realmente veri. Guardo il maresciallo e sento urla e dolore penetrarmi il cervello. Il pianto di Gheorgheta riempie in un secondo tutto il silenzio di quelle mura, come un pugnale che affonda nella carne. La trasciniamo via, mentre si dimena e piange. Io mi sento soffocare, ma la tengo con forza e fuori l’abbraccio stretta, sino a quando inizio a sentire i singhiozzi farsi meno intensi.

«Gheorgheta, sei sicura? Sei proprio sicura che quella è tua figlia?».

Lei continuava ad annuire col capo. Il maresciallo chiama l’appuntato Lojacono, che viene a prenderci e ci riaccompagna in caserma. Gheorgheta, a monosillabi, risponde alle domande. La sua Mihaela che se n’era andata quel giorno con la rabbia dentro, senza un bacio o una carezza. Mihaela che saltava la corda finché non cadeva stremata e la notte veniva ad abbracciarla baciandole il viso sino a quando non si addormentava. Chi era stato a farle del male?

A questo punto ritengo sia impossibile continuare a tacere la faccenda dei Feletti e del certificato. Anche fosse un fatto privo di significato per le indagini, non posso non dirlo. Per Gheorgheta, per Mihaela, diventa una possibilità per cercare di dare una spiegazione logica a quanto è accaduto.

«Maresciallo, io devo dirle una cosa, non so quanto può essere importante, ma…».

«La prego, dica pure. Tutto è importante, in un’indagine, anche una cosa che sembra stupida può diventare seria, un tassello in più… Dica, l’ascolto…».

«Sa, quando l’altro giorno lei mi ha fatto vedere le foto, io ho avuto un vago dubbio di aver già incontrato quella donna. Tuttavia non ho detto nulla, perché nel mio lavoro vedo molte persone allo sportello e non sono decisamente un tipo fisionomista. Quando sono tornata al lavoro, però…».

Continuo spiegando e riferendo del certificato che Mihaela aveva richiesto per Cesira Rebaudengo.

«Conosce questa famiglia?».

«Sì, di vista, non ci ho scambiato che poche parole, ma madre e figlio vivono nel mio paese da sempre, quindi li conoscono un po’ tutti. Il figlio, Renato, ha avuto qualche problema “di testa”, ma non saprei dire di quale gravità e se ne soffra ancora…».

«Bene, direi che questo fatto è da valutare, signora Dellera. Può avere qualche relazione con quanto è accaduto… Faremo delle indagini, non si preoccupi, vedrà che a qualcosa arriveremo…».

«Noi possiamo andare, maresciallo? Gheorgheta ha bisogno di riposare e di calmarsi un po’. Se avrà ancora bisogno di lei, me lo dica, che la riaccompagno. Non ha la patente e quindi non può muoversi da sola…».

«Non ci sono problemi, se avremo ancora bisogno di farle qualche domanda troveremo il modo, non dovrà disturbarsi. Vi faremo sapere quando la salma sarà pronta per le esequie», si ferma un attimo per inghiottire la saliva e si volta verso Gheorgheta. «Mi dispiace molto, signora, per sua figlia. Abbia fiducia: troveremo il colpevole. Domani mattina presto, signora Dellera, passo in Anagrafe: mi prepara un certificato di famiglia dei Feletti?».

«Certo, tutto quel che le serve…».

Ci salutiamo e parto veloce. Gheorgheta sembra una bambola di pezza accasciata sul sedile. Rimaniamo zitte per tutto il viaggio. All’arrivo spiego a mia madre quanto è successo e l’unica cosa bella di questo giorno infame è vederla prendere il suo scialle di lana e posarlo sulle spalle di Gheorgheta, chinandosi a piangere con lei. Il dolore ha l’unico pregio di risvegliare l’umanità… quella vera. Ritorno a casa ben oltre le diciotto. Claudio ancora non c’è, Giulio sta facendo la doccia e Guenda chiacchiera al telefono con l’amica del cuore. Telefono a Maria: porterà Nicolè tra poco. Mi lascio cadere sul divano. I piedi pulsano nelle scarpe e, sparso in tutto il corpo, provo un senso di vuoto. Perdere una figlia in quel modo… Cosa farei se succedesse a me? Il caso, poi… Io che la trovo. Incredibile, potrebbe venirne fuori un romanzo. Il rumore della chiave nella toppa annuncia l’arrivo di Claudio.

«Ciao».

«Ciao, come mai sul divano? Stai male?».

«No… Non sto male, sono solo stanca».

Chissà perché, non ho voglia di raccontargli nulla.

Capitolo VI

La mattina, in ufficio, il maresciallo arriva puntuale, all’apertura. Il certificato è già pronto, lo prende e fila via quasi di corsa.

La giornata trascorre come al solito, niente di nuovo. Certo che se “il nuovo” somiglia a quanto ho vissuto in questi giorni, meglio la monotonia, senza alcun dubbio. Sono distratta da mille pensieri, fatico a concentrarmi, ho già fatto un pasticcio con l’atto di nascita sbagliando la stampa. Riccardo mi guarda con l’occhio riprovevole e, ad un certo punto, non ce la faccio più.

«Riccardo, non mi sento bene, ho un mal di testa che sembra mi scoppi il cervello. Scusami, ma vado a casa, prendo recupero e domani un giorno di ferie».

«Laura, non ti sembra che questa settimana stai esagerando? Arrivi quando arrivi, recuperi, ferie… Dovresti darti una calmata…».

Non mi basta, contare fino a tre… Forse non mi basterebbe nemmeno fino a trecento.

«Senti, tu devi smetterla di scassarmi l’anima, di usarmi come uno di quei computer sulla scrivania. Lasciami in pace, una volta tanto, e non rompere! Lavoro qui dentro da una vita, sono arrivata molto prima di te, senza laurea, ovviamente, ma con un cervello che tu non hai. Sai fare neanche la metà di quel che so fare io, ma prendi tutti i soldi che non danno a me. Finiscila di starmi sulle croste, altrimenti ti faccio vedere chi sono i lavativi… E magari tu impari a lavorare e la smetti di vivere sui lavori e meriti degli altri, OK?».

È rimasto senza parole. Mai e poi mai, in quindici anni, ho risposto così. C’è un limite oltre il quale non si va… Cambiano, per ognuno, i tempi d’arrivo, ma quando sei lì, non c’è santo che tenga. Prendo borsa, cappotto, sciarpa, ed esco. Aria, aria fresca, anzi gelida. Ancora meglio, calma i bollenti spiriti. Entro nel piccolo bar e subito mi accorgo del vociare ai tavolini.

«Hai visto? Sono venuti i Caramba a prendere il Feletti. L’ho sempre detto che quello lì era un po’ spostato. Sempre attaccato ai “cutin” di sua madre, a quarant’anni suonati… Non è normale!».

Chi parla, chi ascolta, c’è un tale fermento, nel locale, che il barista neanche si accorge di me. Hanno preso il Feletti! Allora, a quest’ora lo stanno già tartassando di domande in caserma. Colpa mia, merito mio, chissà… Speriamo sia un merito, perché il pensiero di aver messo nei pasticci un innocente mi fa gelare il sangue. Rinuncio a fare la spesa. Oramai ne parlano tutti, incontro almeno sei persone, per la strada, che mi vogliono raccont