L'indizio nel piatto

È una sorta di realtà parallela, una scena che accade mentre la guardi da fuori. Il tonfo sordo del corpo che cade è solo una vibrazione, come quella del colpo che l’ha raggiunto alla nuca. Non c’è ferocia, non c’è accanimento, solo un colpo, netto, fatale, vibrato con assente freddezza, con estraneità…

 

«L’arma del delitto?».

«Ancora nulla, maresciallo».

«Va beh, Minetti, vedi di tenere lontani i curiosi: niente perditempo, niente giornalisti né rompiscatole».

«Sissignore».

«Un’altra cosa, Minetti…».

«Comandi».

«Piantala, con questa storia del Sissignore…».

«Sissi... D’accordo, maresciallo».

Il maresciallo Loiacono non poté far altro che tornarsene in caserma ad aspettare, aspettare e ragionare, ragionare e aspettare. Il paese piccolo dove la gente mormora avrebbe fatto la sua parte, e lui sapeva che, prima o poi, qualcosa sarebbe saltato fuori. Al resto avrebbe dovuto pensarci lui: doveva scoprire il responsabile di quella morte, il che significava trovare almeno una ragione plausibile per uccidere un uomo.

 

«Riassumiamo, Minetti».

«Maschio, bianco, razza caucasica...».

«Minetti! Dante Stevanin era un pensionato nato e cresciuto in Veneto: veneto lui, veneto suo padre, veneto suo nonno e così via, fino alla notte dei tempi… Non serve che mi ricordi che si tratta di un maschio bianco, razza caucasica!».

Non era un vero rimprovero, quello del maresciallo, bensì un invito al giovane e inesperto Minetti a ragionare, a cogliere l’essenza dei dettagli. Ci teneva, a quel giovane, e voleva che imparasse il mestiere. Parole, racconti, dicerie: tutto faceva parte del gioco dell’ascolto, dell’investigazione, della risoluzione. Di gente ne aveva ascoltata parecchia, lui, a volte senza risultato, altre volte con effetti insperati. Era questo che voleva far capire a Minetti.

«È stato ucciso con un colpo alla nuca: le vertebre cervicali non hanno retto». Minetti fece una pausa, come per capire se avesse imboccato la direzione giusta. «Niente arma del delitto, nessun segno di scasso, nessun segno di colluttazione, ancora nessuna impronta particolare rilevata».

«Siamo in un bel vicolo cieco», lo interruppe il maresciallo. «La moglie è ancora sotto chock?».

«Non ha detto più una parola, dopo la telefonata che ha fatto al 112».

«La sua posizione?».

«Ci sono due testimoni che l’hanno vista al cimitero».

«I tempi?».

«Corrispondono, maresciallo: dalle 6.30 alle 7.30 era sulla tomba del figlio».

«Non sarà mica quello Stevanin morto in Afghanistan?».

«Sì, maresciallo, è proprio lui».

«Fammi un elenco dei testimoni, che voglio interrogarli».

«Li faccio venire in caserma?».

«Ma che dici, Minetti? Ti pare che faccio venire due vecchiette in caserma per un interrogatorio solo per la speranza di cavarci qualcosa?».

«Io non le ho detto che si tratta di due vecchiette».

«In un cimitero dalle 6.30 alle 7.30? Minetti, mi prendi per un’imbecille?».

«No, signore, è che una delle due persone è il custode».

Touché.

 

Loiacono, la montagna, l’aveva conosciuta da grande. Nella sua terra era tutta gente di mare, ma i paesaggi innevati e l’aria sottile che si respira in alta quota, oramai, gli erano entrati nel sangue. Se faceva un conto della sua vita, erano più gli anni passati lontano da casa che quelli trascorsi giù al Sud. Qualunque fosse la latitudine, però, sapeva che le persone rimanevano persone, con i loro pregi e i loro difetti, le loro certezze e le loro paure.

S’era fatta l’ora di pranzo. Lojacono decise per un bel piatto di polenta e cacciagione. Il migliore lo facevano da Fritz, un vecchio fienile fuori paese trasformato in ristorante. E poi, come gli aveva insegnato suo nonno, a pancia piena si ragiona meglio...

«Buondì, maresciallo, siete solo?».

«Buongiorno, sì, sono solo».

«Allora prego: c’è il vostro tavolo già pronto».

L’interno, più che spartano, era quello tipico dei paesi alpini: una classica baita di montagna con tanto di pareti in legno, dettagli in ferro battuto, e una certa quantità di teste impagliate. Fritz era sempre vestito uguale, con il grembiule blu alla tirolese, anche se in realtà lui, di tirolese, non aveva neppure le origini. Si chiese come mai lo chiamassero a quel modo, una divagazione che serviva a “resettare” il cervello e a vedere l’intera faccenda dell’omicidio sotto una nuova luce.

«Problemi, oggi, giù al paese…», più che una domanda, quella dell’oste era un’affermazione.

«Si è già sparsa la voce?».

«Maresciallo, cinquemila anime e un omicidio ogni cento anni, se lasciamo perdere le due guerre…», l’ovvietà della risposta stava nella banalità della domanda.

«Che ne pensi?».

Accadeva sempre così, tra lui e Fritz: si salutavano con un buongiorno formale e poi il tono passava al confidenziale, Fritz si sedeva al tavolo per prendere l’ordinazione e iniziavano a chiacchierare. Loiacono aveva risolto più casi su quelle tovaglie che in qualsiasi altro posto. Forse era lo sguardo che poteva lasciar scorrere sulla valle, forse l’atmosfera pacata, o ancora l’ottima cucina, fatto sta che, da quella baita, usciva sempre con qualcosa di nuovo e di utile.

«Penso che lo Stevanin fosse un tipo strano: era sempre giù al suo campo, raramente lo si vedeva al bar, a chiacchierare con qualcuno, non frequentava nemmeno le case d’appuntamento, giù in paese. Era uno che si faceva i fatti suoi, insomma, ma che quando non se li faceva diventava intrattabile…».

«Ed è finito disteso…», concluse Loiacono.

«Adesso non ci pensare, e mangiati questa specialità finché è calda».

Non aveva ordinato, ma nel piatto davanti a lui c’era una fetta abbondante di polenta calda e cacciagione. Come faceva quell’uomo a indovinare sempre quello di cui aveva bisogno? Semplice coincidenza o gli leggeva nel pensiero?

«Il cervello ha bisogno di energie sane, per produrre idee sane», sentenziò l’oste guardandolo negli occhi, in un atteggiamento che sarebbe stato degno di una guida spirituale.

Il sapore delicato della polenta mitigava quello deciso della carne. Loiacono mangiò e non pensò a nulla, abbandonò i sensi ai piaceri del palato, senza però mai distogliere lo sguardo dal paesaggio.

Finì di mangiare, prese il caffè e rimase ad attendere. Sapeva che, una volta raggiunto il senso di sazietà, era solo questione di tempo, prima che la mente iniziasse a fare il proprio lavoro. Era come una sorta di ciclo biologico, come il naturale sorgere del sole ogni giorno, come il susseguirsi della vita e della morte. La morte, appunto.

«Una grappa per digerire?».

Loiacono fece solo un cenno col capo.

«Ti faccio compagnia».

«Non c’è nulla da rubare ad un tipo come lo Stevanin», osservò il maresciallo mentre sorseggiavano il liquore aromatico, ragionando ad alta voce.

«Per quanto ne sai, potrebbe aver avuto il materasso imbottito di soldi. Non immagini quanta gente, in queste vallate, non si fidi ancora delle banche, e forse non hanno tutti i torti». Fritz fece una pausa vuotando d’un fiato il bicchierino. «Se cerchi un movente, non escluderei i soldi…».

«Stavo solo chiacchierando».

«Allora, tanto per chiacchierare, si dice che allo Stevanin piacessero le donne…».

«Un’amante?».

Fritz scosse la testa: «Prostitute».

«Era una cosa regolare?».

«Uno della sua età e dei suoi costumi, si accontenta di un paio di volte l’anno. Non so se possa essere di qualche importanza, ma...».

«Farò dei controlli, grazie».

Loiacono pagò il conto e scese verso il paese a piedi: sarebbe tornato più tardi a prendere l’auto con Minetti, ora aveva bisogno di camminare, camminare e ragionare, ragionare e camminare. Mancava poco alle due del pomeriggio, il sole era ancora alto nel cielo, e il tepore della primavera che si avvicinava a grandi passi lo accompagnava piacevolmente. Schermò gli occhi con la mano e rimase ad osservare i tetti delle case sotto di lui. Individuò il campanile della chiesa, risalì lungo la via principale, svoltò a destra, ancora avanti, e infine individuò la casa dello Stevanin. Il luogo del delitto. Racchiuso com’era in un dedalo di vie, non c’era modo di raggiungerlo senza essere notati, a meno che l’assassino non fosse passato dagli orti che chiudevano l’isolato sul retro. Gli orti, poche decine di metri di prato e poi il bosco: da lì, chiunque sarebbe potuto andare ovunque senza essere visto, protetto dalle fronde degli alberi, dal silenzio di un’alba appena percettibile. Doveva controllare, prima che qualcuno confondesse le tracce; si voltò e si accorse di aver percorso solo poche centinaia di metri, tornò all’auto e raggiunse la caserma.

 

«Maresciallo, è arrivato il primo referto del medico». Minetti sembrava quasi emozionato, nel riferire la notizia.

«L’hai letto?».

«Ho dato una sbirciatina…», confessò mesto, come se quella potesse essere una colpa.

«Cosa dice?».

«La morte è avvenuta probabilmente fra le 6.00 e le 7.00. Sembra non vi sia modo di essere più precisi».

«E qualcosa di nuovo, invece?».

«Non vi seguo, maresciallo...».

«Minetti, devi ragionare. La moglie è stata vista al cimitero dalle 6.30 alle 7.30, quindi significa che probabilmente, quando lei è uscita di casa, il marito era vivo. Dal luogo del delitto al cimitero, ci sono circa cinque minuti a piedi, e la telefonata della moglie al 112 è stata fatta alle 7.38: non era difficile dedurre che la morte fosse sopravvenuta in questo lasso di tempo».

«Ma se facciamo partire l’intervallo possibile dalle 6.00 del mattino, allora anche la moglie rientra fra i sospettati…», obiettò Minetti, come se la sua osservazione fosse degna del più sagace degli investigatori.

«Minetti, la moglie non è mai stata esclusa dai sospettati!».

Il confronto era chiuso, la sentenza emessa. Non c’erano ancora degli innocenti, tutti erano possibili colpevoli. Il tono del maresciallo era talmente fermo che, se Minetti non vi fosse stato abituato, avrebbe potuto credere che dubitasse anche di lui.

«Facciamo un giro».

Uscirono a piedi, Loiacono a destra e Minetti al suo fianco, diretti prima al cimitero e poi a casa dello Stevanin. Il percorso non era casuale: serviva per controllare i tempi, per ragionare. La porta della casa era bloccata con i sigilli, la vedova era stata provvisoriamente “sfrattata”, trovando ospitalità dalla sorella, che abitava poco fuori dal paese. Rimasero ad osservare la porta d’ingresso che dava sulla stretta via, la facciata unica che abbracciava cinque edifici contigui. Decine di finestre e, dietro i vetri, decine di coppie di occhi. Anziché entrare nella casa, Loiacono riprese a camminare, superò l’isolato e vi girò attorno, fino a raggiungere gli orti.

«Cosa cerchiamo, maresciallo?».

«Non lo so, Minetti, ancora non lo so».

Una vecchietta china sulla terra stava lavorando con una zappa dal manico logoro, alzò lo sguardo e rimase a fissarli.

«Buongiorno», la salutò Loiacono.

Il viso indurito dagli anni passati all’aria e al sole accennò una smorfia cordiale, poi si voltò, continuando con ritmo costante un lavoro che sembrava essere iniziato anni prima e che non sarebbe mai terminato. Il fazzoletto di terra, abbandonato durante l’inverno, riprendeva a poco a poco la sua destinazione. Era l’unico che stesse ricevendo delle cure; gli altri orti, allineati come le facciate delle case, erano ancora incolti, compreso quello dello Stevanin. Il maresciallo rimase ad osservare il terreno rimanendo oltre il piccolo steccato che lo delimitava.

«Aspettava la luna giusta».

Il commento arrivò dalla stessa vecchietta di prima, appoggiata al manico della zappa trasformato temporaneamente in un bastone, senza il quale la sua schiena ricurva sembrava non potesse mantenersi eretta.

«Dicevate?».

«Il Dante», aggiunse riferendosi al suo vicino assassinato. «Stava aspettando che cambiasse la luna, per seminare».

«Faceva sempre così?».

«Tutte le primavere».

«Posso chiederle se ha visto o sentito qualcosa?».

«Sarei già venuta a dirvelo, maresciallo. Sono una cittadina rispettosa e una donna timorosa, ci sono doveri ai quali non mi sottrarrei mai».

«Com’era Dante, come vicino?».

La vecchietta rispose con un’alzata di spalle che poteva voler dire tutto, ma che il maresciallo interpretò come una cosa del tipo: “Cosa vuole che le dica?”.

«Vivete sola, signora?».

«Da due anni a questa parte, sì».

Doveva esserci stato un marito, probabilmente, passato a miglior vita proprio due anni prima, e questo è quanto Loiacono decise, per il momento, di prendere come un fatto assodato: se fosse stato necessario, avrebbe avuto modo di verificare.

«Avete sentito o visto qualcosa d’insolito, negli ultimi giorni?».

«Ci sono muri spessi fra queste case, e finestre piccole, maresciallo».

Il fatto che puntualizzasse il suo grado, rivelava che di fronte ad un ruolo ufficiale non si sarebbe sbottonata facilmente.

«Minetti, fai un giro, vedi se noti qualcosa di particolare, e se riesci a fare un paio di domande ai vicini che abitano dall’altra parte. Io ti raggiungo tra poco».

Loiacono si tolse il berretto per tergersi la fronte con il dorso della mano. Camminando fino al bosco, cercò un modo per riprendere il discorso con la vecchietta, ma non voleva forzare la mano. Osservò i dintorni: non c’erano tracce evidenti, nessuno sembrava essere passato attraverso i prati, almeno non in linea retta, puntando verso la casa. Chiunque fosse, dunque, l’assassino era stato tanto furbo da costeggiare il perimetro di quello spazio aperto o, molto più probabilmente, di lì non era passato proprio. Arrivò fino al sentiero che si addentrava nel bosco. Lì il passaggio di persone era evidente: cercatori di funghi, cacciatori, alpinisti e chissà chi altro. Quando si voltò, la vecchietta non c’era più: avrebbe dovuto aspettare, per parlare ancora con lei. Non gli rimaneva che raggiungere Minetti per vedere se aveva scoperto qualcosa, e poi sentire i due testimoni.

 

Minetti non aveva cavato un ragno dal buco: nessun estraneo era stato visto aggirarsi da quelle parti, nessun litigio era stato udito dai vicini, niente che potesse indicare un movente, solo una vecchia storia di una denuncia che però non aveva ancora avuto modo di verificare. Una banale bega tra vicini, pareva, scoppiata per un pollaio costruito senza chiedere i necessari permessi, o qualcosa del genere. Era stata una vicina a raccontare di quel fatto: non era molto, ma a volte alcune persone covano rancori che, con il tempo, non fanno altro che incancrenirsi e marcire fino a sfociare in soluzioni che, in realtà, più che risolverle, complicano le cose.

 

Trovarono il custode per strada.

«Buongiorno, signor Berti».

«Signor maresciallo…».

«Posso farle qualche domanda, mentre camminiamo?».

Loiacono preferiva avere un confronto informale.

«Non è meglio se vengo in caserma?».

«Ci sono questioni che vorrei definire subito, e poi dobbiamo solo verificare alcuni dettagli, può passare poi con calma, per la deposizione ufficiale».

«Stavo andando al camposanto, ci sono alcune erbacce da togliere…».

S’incamminarono assieme, con Minetti alcuni passi dietro di loro.

«Mi è stato riferito che può confermare la presenza della signora Stevanin al cimitero dalle 6.30 alle 7.30. È vero?».

«Veramente erano passate da qualche minuto le 6.30, saranno state circa le 6.40…».

«Come fa ad esserne così sicuro?».

«Perché mentre suonavano le 6.30 in punto stavo arrivando io, e nel cimitero c’era solo la vedova Ghisi, mia cugina. Abbiamo chiacchierato un po’, quindi è arrivata la signora Stevanin prima che suonassero i tre quarti».

«Ha notato qualcosa d’insolito nel suo comportamento?».

«Di che tipo?».

«Era particolarmente agitata?».

«Un po’ turbata, ora che mi ci fa pensare, ma non penserà mica che possa...».

«Non penso nulla, signor Berti, e la prego di non mettere in giro strane storie, ce ne saranno già abbastanza senza bisogno di aggiungerne ancora. Mi diceva che l’ha vista turbata…».

«Sì, ma mi sono anche dato una spiegazione: è un anno giusto che è morto suo figlio».

«Quindi, secondo lei, era questo che la tormentava?».

«A me è sembrato così».

Loiacono sapeva che c’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che lui avrebbe dovuto saper cogliere ma che, non capiva come, scivolava via senza rivelarsi.

«E del signor Stevanin, che mi sa dire?».

«Tipo strano, quello...».

Ecco cosa gli stava sfuggendo: rimase in silenzio, incoraggiando il suo interlocutore con lo sguardo.

«Non veniva mai sulla tomba del figlio», riprese il custode.

«La signora, invece?».

«Quasi tutti i giorni! Una brava donna, che non si meritava certo un uomo come quello…».

«Perché, com’era quell’uomo?».

Il viso del custode si fece cupo e la sua dialettica s’arrestò improvvisamente.

«La picchiava?».

Le parole del maresciallo, per un momento, sembrarono far centro.

«Io non c’ero, in casa loro, ma non credo che la picchiasse».

«Allora?».

«Non legava con nessuno, lo Stevanin, era un tipo che la gente evitava volentieri, non l’ho mai visto  chiacchierare con qualcuno. Da quando è morto il figlio, poi, se possibile, era peggiorato...».

Non era molto. Che Stevanin fosse un burbero, ormai, il maresciallo l’aveva capito, ma questo non era certo un movente per commettere un omicidio. S’accorse solo in quel momento che erano arrivati all’ingresso del camposanto.

«Quando vuole, passi pure in caserma per le formalità», chiuse il discorso il maresciallo, richiamando subito dopo l’attenzione del suo assistente. «Facciamo ancora in tempo a parlare con la vedova Ghisi?».

«Abita qua dietro, maresciallo».

 

La casa della vedova Ghisi, al secolo Matilde Berti, cugina del custode del cimitero, era spartana. Arredamento in formica anni Settanta, forse addirittura Sessanta, una stufa a legna smaltata di bianco, un tavolo con quattro sedie, una credenza, e un vecchio frigorifero che avrebbe fatto gola a molti collezionisti.

«Vi posso offrire qualcosa da bere, signor maresciallo?».

«No, grazie, signora».

«Un succo, una bibita, un analcolico?», fece una pausa. «Perché siete in servizio, vero?».

Ovvio che fossero in servizio: non era certo usanza del Comandante di Stazione e del suo subalterno gironzolare per il paese a fare visite di cortesia alle vedove. Ma la signora non attese risposta e si dileguò per ricomparire subito dopo con due bicchieri e una serie di bottigliette.

«Cosa vi posso versare?».

L’aspetto dei bicchieri rivelava un uso lontano nel tempo, e forse anche una pulizia piuttosto approssimativa, fatta prima di riporli. Erano con le spalle al muro: qualcosa avrebbero dovuto berlo.

«Le chiederemmo troppo, se optassimo per un caffè?».

Con il caffè si va sempre sul sicuro, pensò il maresciallo: l’acqua bolle e, prima d’uscire, uccide tutti i germi.

«Subito, è un piacere».

Minetti non venne interpellato: era evidente che, per la signora, comandava il maresciallo e l’appuntato doveva adeguarsi. Il pensiero che potessero avere gusti o esigenze diverse non sembrò sfiorarla neppure per un istante.

«Dunque voi siete la cugina del signor Berti, che fa il custode giù al cimitero», attaccò cauto, mentre polvere di caffè e moka s’incontravano.

«Mio padre e suo padre erano fratelli», confermò lei, senza distogliere lo sguardo da quello che stava facendo. «È sempre stato un brav’uomo».

Non si capì se si riferisse al cugino, allo zio o al padre, ma non importava.

«È per la morte del signor Stevanin, che siamo venuti».

La vedova si segnò con la croce, recitando un «pace all’anima sua» sottovoce, come se fosse un gesto istintivo.

«Ci serve solo una conferma», la signora rimase a guardare la moka. «Ci risulta che la signora Stevanin sia arrivata al cimitero verso le 6.40».

«Sì, ho sentito suonare le 6.30 quando è arrivato mio cugino. Io ero lì da poco, la Stevanin se n’è andata subito dopo il quarto».

«Le 7.15, intendete?».

«Certo».

Il caffè, nel frattempo, iniziò a gracchiare, schiumoso, diffondendo il suo piacevole aroma nell’aria.

«Ha notato qualcosa di strano, nella signora Stevanin?».

«Strano? Non penserete mica che possa avere qualcosa a che fare con...».

A questo punto partì un altro segno della croce con litania incomprensibile al seguito.

Perché tutti saltavano alla conclusione che lui sospettasse qualcosa, che lui credesse che fosse lei l’assassina? Avrebbe voluto spiegare a quella donna che, per il momento, non aveva alcun sospetto, che voleva solo verificare i tempi per stabilire con chiarezza com’erano andate le cose. Su chi e come avesse commesso il delitto, si sarebbe concentrato in un secondo tempo, anche se, era ovvio, non poteva escludere ancora nessuno, a parte se stesso.

«Non pensiamo ancora nulla, signora», si limitò a rispondere mentre gli versava il caffè, «lei non lo beve?».

«O no, grazie, io non bevo mai caffè».

Per un attimo Loiacono si pentì della scelta, ingurgitò il liquido marrone d’un fiato e rimase ad aspettare che la signora continuasse.

«Un po’ tesa lo era, ma poi mio cugino mi ha fatto notare che era l’anniversario della morte del figlio. Era un soldato, un alpino… È stato colpito da una bomba in Afanistan…».

La storpiatura del nome di una terra lontana e sconosciuta non sorprese il maresciallo: faceva parte del modo semplice d’esprimersi proprio della gente di paese.

«Le avete parlato?».

«Sì, le solite cose: come va, che prepari per pranzo, il dolore alla gamba… Poche chiacchiere».

«Cosa avrebbe preparato per pranzo?».

«Come?».

«Cosa voleva preparare, per pranzo, la signora Stevanin?».

«Capriolo», rispose sorpresa dalla domanda. «Aveva appena tolto dal freezer una coscia. Sa, il marito era cacciatore».

«Chissà che fine ha fatto?», disse tra sé Loiacono. «E del signor Stevanin, cosa mi può dire?», aggiunse come per distogliere l’attenzione dai suoi pensieri.

Il sospiro echeggiò grave nella stanza: «Non era certo un buon marito…», seguito di nuovo da un “pace all’anima sua” con segno della croce. «Non è bello parlare male dei morti, signor maresciallo, ma dello Stevanin è difficile fare altrimenti. Si dice che andasse con “quelle là”…».

Il riferimento alle prostitute era palese, anche se per un attimo Loiacono si domandò se, nel verbale, avrebbe dovuto tradurre l’allusivo “quelle là” con un più formale “meretrici”.

«Sa se per caso avessero litigato, di recente?».

«Io mi faccio i fatti miei, maresciallo, dico solo che la Marta è stata una santa, a stare con quello…».

Loiacono temette l’ennesimo segno della croce.

«Si dice che fosse uno di poche parole», aggiunse.

«Un orso, un burbero, un musone», rincarò d’istinto la donna. «Non andava d’accordo con nessuno, lo evitavano tutti e, per contro, lui evitava tutti. Se ne stava sempre giù al campo, oppure a casa a far penare quella povera donna…».

La situazione era chiara: da quella fonte non avrebbe cavato altro.

«È stata molto gentile, signora, l’aspetto quando vuole in caserma per formalizzare la sua testimonianza, e grazie ancora per il caffè».

Loiacono sapeva che, entro quella sera stessa, i due cugini sarebbero andati da lui per firmare la deposizione: quella gente non avrebbe potuto dormire con un simile pensiero. Lui, invece, di pensiero ne aveva un altro, che non riusciva a togliersi dalla mente. Che fine aveva fatto il cosciotto di capriolo che la vedova Stevanin aveva intenzione di cucinare, quel fatidico giorno? Tolto dal freezer, sarebbe sicuramente andato a male. E i fucili da caccia del marito? In casa non ne aveva notati, e Minetti non gliene aveva ancora parlato.

 

La sera portò con sé quanto previsto: i due cugini si presentarono assieme per firmare la deposizione. Nel frattempo Minetti aveva scovato in archivio quella vecchia denuncia fatta dallo Stevanin al suo vicino, di cui gli aveva parlato la vicina di casa. Una questione di presunti piccoli abusi edilizi, o almeno così erano stati archiviati i fatti. Si era trattato di un pollaio costruito senza permessi e di un pezzo di terra lavorato oltre il confine catastale, pochi centimetri abusati dal vicino che avevano scatenato la rappresaglia dello Stevanin e la conseguente denuncia per quel pollaio che pure esisteva da sempre e non aveva mai dato fastidio a nessuno, tanto che non fu neppure fatto demolire. Poteva essere una pista per un movente? Le beghe di quel tipo erano all’ordine del giorno e in genere finivano con un accordo tra le parti, magari davanti ad un bicchiere di vino, oppure si trascinavano per anni in tribunale, per la gioia dei rispettivi avvocati. Nessuna era mai sfociata in qualcosa di più pericoloso di un fuoco incrociato di minacce.

«Minetti!».

«Dica, maresciallo».

«Controlla se abbiamo armi denunciate a nome dello Stevanin. Domani mattina, poi, andiamo a verificare in casa».

Per quel giorno aveva fatto abbastanza; ora gli serviva solo un po’ di tempo per meditare. E qualcosa da mettere nello stomaco… Due pasti consecutivi da Fritz, forse, non erano cosa da tutti i giorni, ma quella non era stata una giornata come le altre.

 

«Canederli in brodo, e prima un po’ di antipasto, maresciallo?».

Loiacono acconsentì con piacere: un brodo caldo era proprio quel che ci voleva per contrastare il clima ancora troppo frizzante della primavera alpina.

Il maresciallo sì gustò la cena: le rade luci del paese spezzavano l’oscurità come tante piccole stelle legate a un filo, quello dei suoi pensieri. Il filo sottile che doveva condurlo alla verità.

«Ci ho pensato un po’ su», lo interruppe Fritz portando due tazzine di caffè e una bottiglia di grappa nostrana. «Alla questione dei soldi, sai...».

«Quali soldi?», Loiacono non riusciva a seguirlo.

«Quelli nel materasso…».

Era un’ipotesi vaga, che aveva accennato quasi per caso, ma in Fritz sembrava fare una certa presa. Rimase ad ascoltarlo sorseggiando lentamente il caffè.

«Gli Stevanin devono avere preso un sacco di soldi, per la morte del figlio, e ti ho già detto che la gente di qui, il denaro, non lo mette in banca molto volentieri...», continuò l’oste.

«E tu dici che potrebbe essere questo, il movente del delitto?».

«Non credi che qualcuno possa aver tenuto sotto controllo la casa, aspettato che i padroni uscissero per entrare a cercare quei soldi?».

«Come ti spieghi, allora, che questo qualcuno ha trovato lo Stevanin in casa?».

«Di solito lui usciva per primo, e tutti in paese sanno che la moglie va al cimitero ogni giorno: era sufficiente tenere d’occhio lei per essere certi di avere una mezz’ora di tempo per frugare nella casa».

«Solo che questa volta lui è uscito dopo...».

«Oppure è tornato perché aveva dimenticato qualcosa…».

«La moglie ha confermato che, quando è uscita, il marito era in casa, ancora vivo e vegeto. La porta non l’aveva chiusa a chiave, e questo spiegherebbe la mancata effrazione...».

Fritz sembrava soddisfatto della teoria completata dal maresciallo.

«Ma è stato colpito alla nuca», obiettò Loiacono. «Questo significa che conosceva abbastanza bene il suo assassino da voltargli le spalle senza timore. E sappiamo che lo Stevanin non ne aveva, di amici…».

«Oppure è stato colto di sorpresa».

La teoria era semplice: qualcuno s’introduceva in casa per cercare il presunto gruzzolo, s’accorgeva della presenza dello Stevanin – il quale magari, pensando ad un ritorno anticipato della moglie, non si preoccupava dei passi che sentiva muoversi dietro di sé –, e quindi si era consumato il fattaccio.

«Non lo so, non mi convince», Loiacono esitava. «Perché ucciderlo? Se io fossi stato il ladro e mi fossi accorto della presenza del padrone di casa, me ne sarei semplicemente andato, sarei potuto tornare il giorno seguente, o quello dopo ancora».

«Con il rischio di non trovare più il malloppo…», rimbeccò Fritz.

Una smorfia sul viso di Loiacono palesava che non era riuscito a convincerlo.

«Era solo un’idea», concluse rassegnato l’amico.

«Controllerò: domani ho in programma un nuovo sopralluogo, devo verificare la presenza di alcuni fucili…».

«Lo sai, vero, cosa troverai?».

Loiacono lo sapeva: armi non denunciate. Nella valle la maggior parte dei cacciatori erano anche bracconieri. Costumi radicati nel folclore atavico di una tradizione che stentava ad esaurirsi, ma che faceva danni talmente limitati che nessuno si era mai preso la briga di contrastarla seriamente. Osservò la sagoma della vetta dalla parte opposta della valle: il contorno appena percettibile, nell’oscurità, la faceva somigliare alla prua di una nave. Il pensiero passò dai cacciatori ai pescatori che, qualche volta, prendevano all’amo qualche pesce vietato e, anziché buttarlo a mare, lo nascondevano nella stiva per sbarcarlo poi di nascosto e farci qualche soldo in più, o magari solo utilizzarlo per una cenetta prelibata. S’era fatto tardi e, vuotato l’ultimo bicchierino di alcool per digerire, Loiacono se ne tornò a casa.

 

Alle otto in punto, Minetti stava aprendo i sigilli del luogo del delitto sotto la supervisione del maresciallo Loiacono. I segni del passaggio del RIS erano visibili: nonostante ciò, fecero attenzione a non alterare eventuali reperti non ancora rinvenuti. Il sopralluogo durò un’ora circa: trovarono dei soldi in un barattolo dentro la credenza, meno di cinquecento euro, troppo pochi per dare sostegno alla teoria di Fritz. Spuntarono fuori anche due fucili regolarmente denunciati: nessuna traccia, invece, di quelli da bracconiere, probabilmente relegati in un nascondiglio sicuro che nessuno avrebbe mai più ritrovato e oramai destinati a diventare ferro ossidato.

«Eccolo qui», il tono di Loiacono era al limite dell’entusiasmo. Minetti fece un sobbalzo e  raggiunse il suo superiore.

Se ne stava davanti al frigo aperto con un cosciotto in mano.

«È stato repertato dai tecnici?», chiese il maresciallo.

Minetti controllò un elenco e confermò.

«Cerca una borsa», continuò il maresciallo, asciutto.

Era una procedura poco ortodossa, ma in fondo quella carne era destinata a marcire dentro il frigo, e poi a Loiacono serviva una scusa per parlare informalmente con la vedova, e quella gli sembrava l’occasione migliore che gli potesse capitare.

La casa della sorella della signora Stevanin stava poco fuori dal paese, due minuti scarsi in auto: Loiacono avrebbe preferito un approccio meno ufficiale, ma in fondo non poteva pretendere che le cose fossero sempre come voleva. Aveva lasciato Minetti in caserma e ora sperava solo che la vedova non s’impressionasse davanti alla visione dell’auto targata CC e di un rappresentante delle Forze dell’ordine che le faceva visita in uniforme.

«Buongiorno, signora».

Ad aprire la porta fu la padrona di casa.

«Venga, maresciallo, mia sorella è di là».

Loiacono si tolse il cappello e, con la borsa di plastica in mano, s’accomodò verso una specie di salotto che faceva tutt’uno con la cucina. La vedova stava seduta davanti ad una tazza di tè, la quale sembrava destinata a rimanere piena.

«Le mie condoglianze, signora».

«Grazie».

La risposta arrivò con un filo di voce: la donna era evidentemente provata, anche se nel suo sguardo c’era uno spiraglio di serenità. Non era facile farsi una ragione di tanta sventura: il figlio scomparso un anno prima, e ora si ritrovava, nello stesso giorno, a doverne ricordare due, di morti, i due uomini della sua vita.

«Avrei bisogno di parlarle», accennò Loiacono.

«Prego maresciallo, si sieda», intervenne la sorella.

«Ho portato questo», disse poggiando la borsa sul tavolo che li divideva.

La vedova cambiò aspetto: il viso le si fece pallido, e un tremore alla mano destra fece temere al maresciallo un prossimo svenimento. Era chiaro che avesse intuito il contenuto del pacco, evidentemente non era stata una grande idea cercare di rompere il ghiaccio con quello che doveva essere il pranzo per il marito il giorno in cui era stato ucciso, ma oramai il danno era fatto.

«Mi spiace darle un dolore», riprese Loiacono. «L’abbiamo trovata in frigo», fece una pausa perché la vedova aveva aperto la bocca esitante, quasi cercasse di dire qualcosa. «Sarebbe marcita e visto che, una volta scongelata, la carne non si può più ricongelare…», continuò lui nella sua giustificazione.

«La ringrazio», furono le sole parole che uscirono dalla bocca della donna seduta di fronte a lui.

Era già qualcosa, e per il momento Loiacono si disse che era sufficiente: insistere non sarebbe servito a molto. Quindi si congedò, e disse che sarebbe tornato il giorno seguente per alcune domande, formalità che doveva espletare.

 

L’umore del maresciallo non cambiò neppure dopo la notizia che gli diede Minetti al suo ritorno in caserma.

«Tumore al fegato e solo pochi mesi di vita?».

«Forse un anno», confermò l’appuntato.

«E la moglie lo sapeva?».

«Il medico ha detto che lo Stevanin gli aveva vietato di dirglielo: non voleva essere compatito, o qualcosa del genere. Essendo tenuto al segreto professionale, il dottore non ha detto nulla, ma ora si chiede se, a questo punto, non possa parlarne con la vedova...».

«Per quanto poco, forse potrà servire a lenire il dolore della moglie. Ormai lo Stevanin è morto, e il dottore non ha più bisogno di mantenere il segreto: chiamalo e digli che può parlare liberamente».

Loiacono riprese in mano il rapporto del RIS e il referto del medico legale: morte sopraggiunta per forte trauma alla nuca procurato da un corpo rigido. Continuava dicendo che l’arma del delitto era probabilmente una mazza, forse un grosso bastone. I bordi della ferita non appartenevano a nessun utensile di forma regolare: erano stati controllati i dintorni, ma se si trattava di un bastone, probabilmente, a quell’ora era già finito in un camino. Per il momento, insomma, brancolavano nel buio: sapevano cosa non poteva essere stato, ma di cosa si potesse trattare, non avevano la minima idea.

Loiacono si sentiva le mani legate: avrebbe voluto parlare con la vedova, quantomeno per escludere la teoria del furto. Doveva sapere se suo marito aveva qualche questione in sospeso con qualcuno, qualsiasi indizio poteva essere utile, se non determinante.

Per pranzo rinunciò alla polenta di Fritz: andò a casa e si concentrò invece davanti ad un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino, senza tuttavia ottenere nessuna nuova idea degna d’essere presa in considerazione. Rimanevano aperte due piste principali: quella del tentativo di furto e quella di un regolamento di conti. Fu la telefonata di Minetti ad agevolargli la digestione: aveva chiamato la sorella della vedova Stevanin e lo aveva invitato a cena per quella sera.

 

Quando entrò in sala, vide la signora Stevanin trasformata: era in piedi davanti ad una cucina a legna e rovistava con perizia da una padella all’altra. L’aroma che si spandeva nell’aria gli diede un valido indizio su cosa avrebbe mangiato e capì che il gesto compiuto quella mattina non era andato del tutto sprecato.

«È passato il dottor Carli», accennò la sorella.

«Ho saputo», la interruppe Loiacono. «Non sarà molto, ma credo che la notizia possa rendere più sopportabile il dolore».

«Mia sorella è come rinata: ha insistito lei perché la invitassi a cena!».

In quel momento l’interessata si voltò, incrociando lo sguardo del maresciallo.

«Grazie per tutto», gli disse, visibilmente più serena rispetto al mattino. «Avevate ragione voi: era un peccato buttarlo. Mio marito non avrebbe voluto che andasse sprecata della carne così buona».

Pochi istanti dopo, la tavola era apparecchiata. Loiacono sedeva affianco al padrone di casa, un uomo pacato, a modo, operaio in una segheria lì vicino. Di fronte a lui, la moglie e, in diagonale, la vedova. L’atmosfera era serena, più di quanto il maresciallo si fosse aspettato: la notizia di un’inevitabile dipartita dell’assassinato, evidentemente, era stata una medicina efficace. La conversazione scorreva, il maresciallo riuscì ad ottenere parte delle risposte che cercava. La vedova confermò che in casa c’era del denaro nascosto, oltre a quello trovato dai carabinieri: una decina di migliaia di euro. Non si trattava, però, del risarcimento per la morte del figlio, ma di risparmi messi via in una vita e che, dopo la caduta delle grosse banche internazionali, suo marito aveva insistito perché venissero conservati in casa. Per quanto riguardava eventuali questioni in sospeso, la vedova fu vaga: ce n’erano di sicuro, ma alcune erano troppo banali perché se ne potessero ipotizzare conseguenze tanto drammatiche; altre, probabilmente, non le conosceva neppure lei. Il marito era un uomo di poche parole, confermò la signora Stevanin: a volte arrivava a casa d’umore nero, dopo una giornata passata al campo o nei boschi, a caccia o semplicemente in giro per le montagne. Qualche volta aveva provato a chiedergli cosa fosse successo, ma... A quel punto la signora scoppiò a piangere e, consolata dalla sorella, riprese a spiegare che no, non poteva essere molto d’aiuto su quel punto.

Verso la fine della cena, la signora Stevanin appariva più sollevata. Parlare le faceva bene: sembrava l’aiutasse a metabolizzare l’idea di essere rimasta sola. Loiacono si disse soddisfatto: il capriolo era cucinato divinamente. Ai suoi complimenti, la vedova rispondeva dirottandoli sulla qualità della materia prima: il merito è tutto in quel pezzo di carne, aveva ribadito la vedova, come fosse imbarazzata, aggiungendo che anzi il merito era proprio del maresciallo, che era stato così gentile da portarglielo. Loiacono, invece, sapeva di non avere alcun merito: l’indagine era ancora un grosso punto interrogativo, una serie d’ipotesi che ancora non avevano portato a nulla. La pancia piena, però, iniziava a lasciar scorrere meglio le idee e Loiacono avvertì la sensazione che, presto, sarebbe anche riuscito a trovare una soluzione per il suo enigma.

«Ancora un po’ di capriolo, maresciallo?».

La signora Stevanin gli stava davanti con un cucchiaio già infilato nella pirofila.

«Ne ho mangiato parecchio, non vorrei che mi facesse male…».

«Non si preoccupi, maresciallo, ormai non farà più male a nessuno...».

Fu a quel punto che Loiacono comprese il reale sapore della pietanza che aveva nel piatto. Nessuno avrebbe mai più cucinato una portata simile, per lui; nulla avrebbero potuto le speciali ricette di Fritz. La soluzione ce l’aveva lì davanti a sé, nel piatto che la signora, solerte, gli andava riempiendo. Con un ultimo boccone, assaporò il gusto amaro della sconfitta. Una sconfitta che, in fondo, non lasciava né vinti né vincitori.