Giorgia Cantini non teme la notte, le è in qualche modo affiliata, con quelle sue “ombrosità” che sanno di disinganno, ma anche di risate e sguardi lucidi sulla vita. La notte è l’epicentro attorno a cui scava l’agenzia investigativa da lei diretta – e portata avanti grazie anche al buon lavoro di assistente della rustica Genzianella, sapore contadino e camomilla bollente all’occorrenza –, perché senza un’oscurità da tentare di illuminare non c’è detection che abbia un senso. Ecco infatti che, quando Piera Sambri in Tosato si presenta in agenzia chiedendo che si faccia luce sulla morte del fratello avvenuta tre anni prima, la Cantini accetta. Una brutta storia. Oliver – così lo chiamavano dando un tono british al nome Oliviero – era stato trovato ucciso in una fabbrica abbandonata a Bologna, vicino a via Gobbetti, un posto non proprio raccomandabile, uno di quei ritrovi per incontri a pagamento dove si pratica il gay cruising, sesso all’aperto, e nessuno dice niente: mal che vada, se la polizia vuole accorgersene, si rischia una denuncia per atti osceni in luogo pubblico. Lì è stato ucciso barbaramente Oliver. Qualcuno pensa che se la sia cercata. Qualcuno portavoce di una certa intolleranza omofoba in voga oggi, simbolo di tanti benpensanti che additano, marchiano e rifiutano la diversità. Non che Oliver fosse uno stinco di santo, no. Pura esplosione di vita, raccattava soldi a destra e a manca, sfruttava la sua bellezza delicata per attirare prede:

«Un tipo confusionario, con mille progetti in testa, tutti campati in aria... Aveva quasi trent’anni quando l’ho conosciuto, ma sembrava un adolescente. Sempre in cerca di mecenati che gli cambiassero la vita. Un tipo molto sprovveduto. Adorava i musical...».

La Cantini sonda tra gli amici della vittima: un vecchio professore di liceo, un compagno ferrarese, un ballerino di musical e Simone, attore famoso con il vizio della cocaina.

Cosa sa della notte, questa detective di carta e di carne nata otto anni fa dalla penna della scrittrice, sceneggiatrice bolognese Grazia Verasani? Molto di più di quanto voglia farci credere. Perché è costretta ad addentrarsi nelle zone d’ombra delle vite altrui e scopre segreti, meschinità, incongruenze.

Un noir attualissimo e coinvolgente, che scorre fluido su una bella scrittura, con dialoghi verosimili, passaggi mai ripidi, personaggi ben scolpiti. Come il capo della squadra omicidi, Luca Bruni. Anche lui con il suo pezzo di vita irrisolto – un matrimonio sul viale del tramonto – ma la solidità granitica degli uomini concreti, quelli che «quando firmano un contratto lo onorano fino in fondo». Quando si intrufola tra le pagine, lo fa sempre con garbo, senza troppe intrusioni. È con lui che comincia il romanzo e con lui finisce, ma quello che anticipo per chiudere lo rubo alle righe d’inizio:

«Insomma, mentre siamo qui a scherzare, a chiacchierare del più e del meno, passandoci con garbo bacchette cinesi e ciotole di salsine, mi domando se avremo il coraggio di sfiorare l’argomento, di fare un po’ di chiarezza, o se andremo avanti con questa pagliacciata dell’amore platonico.

Io sto recitando la mia solita parte di donna ruvida e autosufficiente e lui quella del cartesiano che si ostina a difendere da agguati esterni il suo freddo focolare domestico. Straparlo per non pensare a questo senso d’occasione mancata che mi sta intristendo, poi, quando la gara mi sembra definitivamente persa e i piatti sono vuoti, soffio forte sulla candela rossa fino a spegnerla e gli appoggio una mano sul braccio.

In poche parole, mi arrendo.

“Bruni, è tardi. Andiamo?”»