Lo scrittore Robert Southey il 3 aprile 1821 scrisse in una lettera che i propri vicini di casa si lamentavano con lui: ogni notte infatti erano svegliati dai fastidiosi lamenti del suo zombi.

Perché Southey aveva un zombi in casa? Prima di spiegarlo, dobbiamo fare un passo indietro.

         

Il celebre pittore spagnolo del Seicento Bartolomé Esteban Pérez Murillo - noto più brevemente come “il Murillo” - nella sua casa di Siviglia viveva assieme ad allievi e servitori, mentre dipingeva i suoi capolavori. Un giorno del 1630 si accorse che un quadro a cui stava lavorando aveva subìto delle piccole modifiche: addirittura delle migliorie. Chi mai si era permesso di metter mano ad una sua opera senza permesso? Chi mai osava ritenersi migliore del Murillo? Gli allievi intimoriti giurarono di non esser stati, e i servitori erano null’altro che schiavi, quindi privi d’ogni arte e raziocinio. Il mistero andò avanti per un po’ finché il pittore non colse sul fatto la mano che stava migliorando le sue opere: apparteneva al giovanissimo Sebastián Gómez, figlio di schiavi mori africani, che il Murillo impiegava come servo bambino e non avrebbe mai creduto capace di far tanto.

La storia ha un lieto fine: il giovane Gómez fu sollevato dalla condizione di schiavo e divenne il più talentuoso allievo del pittore, anche se fu sempre ricordato con il poco lusinghiero epiteto de “il mulatto del Murillo” (che «ebbe buon colore, impasto vigoroso, e disegno esattissimo» secondo la Guida pittorica del 1855 curata dal barone Alessandro Petti).

© Bridgeman Art Library / Private Collection / The Stapleton Collection
© Bridgeman Art Library / Private Collection / The Stapleton Collection
Ma cosa c’entra questa storiella (più vicina alla fiaba che alla realtà) con il buon Southey? La spiegazione ci viene dalla bocca del piccolo Gómez, che quando veniva interrogato su chi fosse a metter mano sul quadro del Murillo, per non incriminarsi rispondeva innocentemente: «È stato lo zombi!»

       

Prima di spiegare questa frase del giovane schiavo-pittore, facciamo un salto in avanti e andiamo nella Parigi del 1818, precisamente in una serata particolare del “Banquet littéraire”. I soci di questo circolo letterario, infatti, avevano scommesso di poter scrivere un romanzo breve in quindici giorni, ma alla fine solo uno dei partecipanti vi era riuscito: quello più giovane (16 anni), il fratello minore di alcuni altri iscritti, quello più promettente... quello che rispondeva al nome di Victor Hugo.

Il suo Bug-Jargal - storia della rivolta degli schiavi nella Santo Domingo (Haiti) del 1791 - verrà stampato in seguito dalla rivista dei suoi fratelli, ma quella sera qualcuno gli chiese cosa volesse dire una parola da lui molto usata nel romanzo: Obi. Hugo non rispose, ma lo fece il celebre Charles Nodier qualche anno dopo: probabilmente era una storpiatura del termine “zombi”.

        

Al di là del fatto se veramente l’“obi” di Hugo venga da “zombi”, e se Southey avesse in casa uno di quegli zombi a cui il piccolo Gómez attribuiva falsamente le migliorie pittoriche che egli stesso apportava ai lavori del padrone, quello che conta è che ad un certo punto della nostra storia letteraria siamo stati contagiati da una parola di origini sconosciute - su cui discutono da decenni studiosi qualificati e preparati - che in breve tempo si è sparsa per l’Europa e poi per il mondo. Indipendentemente dalla sua vera origine (che rimane ancora abbastanza fumosa) ciò che importa è che da duecento anni la nostra cultura è invasa da una parola che continua a morire e a tornare in vita... proprio come uno zombie!

        

Il riferimento più antico a noi noto del termine “zombi” è il romanzo anonimo Le Zombi du grand Perou, ou La comtesse de Cocagne, edito il 15 febbraio 1697 e dopo più d’un secolo attribuito a Pierre-Corneille de Blessebois, pseudonimo di Paul-Alexis Blessebois (1646-1700): attribuzione dovuta al giudizio del citato bibliofilo Charles Nodier. Ma i bibliofili, si sa, sono birichini, capricciosi e mutevoli: nel suo articolo Pseydonymie d’un libelliste (raccolto in Mélanges, 1829, p. 366) Nodier in realtà solleva forti dubbi non solo sulla paternità di Blessebois, ma sulla reale esistenza di un autore di commedie che si firmava “Corvo” (Corneille). Ventilava invece l’ipotesi che il vero autore fosse un discendente della famiglia di Jean de Coras, costretta a lasciare il suolo francese per l’accusa di eresia. Non è escluso, quindi, che in futuro l’opera verrà attribuita a qualcun altro.

Le Zombi du grand Perou è «roman facétieux et obscène», un romanzo frizzante e pruriginoso, una storia di “tradimenti e fantasmi” ritenuta da molti addirittura autobiografica, in cui il protagonista convince una contessa che sarà in grado di trasformarla in uno zombi (su espresso desiderio della donna!) così che lei possa tormentare il proprio pretendente finché non si decida a sposarla. In cambio di questa “assistenza soprannaturale” il protagonista chiede come risarcimento quei favori sessuali da sempre classica moneta di scambio.

Di questo romanzo «non si fa menzione in alcuna bibliografia e non se ne trova il titolo in alcun catalogo», specifica Nodier: siamo sicuri che risalga davvero al 1697? Non è che qualche zombi-writer si è divertito a scriverlo per il solo gusto di far ammattire i bibliofili come Nodier? Il buon Charles solo di una cosa è assolutamente sicuro: «lo Zombi, nel patois creolo, è uno spirito, un fantasma, uno stregone» (un esprit, un fantôme, un sorcier).

La prima apparizione dell’accezione “zombie” la si fa invece risalire al 1792, quando Moreau de Saint-Méry, figlio di coloni francesi del Martinica, scrisse nel suo Description de l'Isle Saint-Dominque che zombie è «Parola creola che significa spirito, fantasma». Con la “e” o senza, tanto gli scrittori di diari di viaggio quanto i compilatori di vocabolari concordano nel tradurre il termine con una parola che fa parte sia del dizionario inglese che francese: «zombi = revenant», come spiega il The Theory and Practice of Creole Grammar (1869) di J.J. Thomas.

  

Moreau de Saint-Méry
Moreau de Saint-Méry
Quando arriva in Italia la parola? Il Sabatini-Coletti precisa una data stupefacente: 1974. Strano, già nel 1971 la Adelphi aveva pubblicato Il grande mare dei Sargassi (Wide Sargasso Sea, 1966) di Jean Rhys, dove viene tranquillamente citata la parola. «Uno zombi è una persona morta che sembra viva o una persona viva che è morta. Uno zombi può anche essere lo spirito di un luogo, per lo più maligno, ma che a volte si può propiziare con sacrifici oppure offerte di fiori e di frutti.»

Lo Zingarelli attesta un curioso 1933 (forse pensando al primo film-zombie prodotto!), ma la parola in italiano è molto più “stagionata” di quanto si pensi: prima però dobbiamo tornare al Mulatto del Murillo.

     

Sebastian Gómez è realmente esistito, ma la storia della scoperta delle sue abilità pittoriche - come la si è raccontata più sopra - si è sciolta dal mondo del reale per divenire un topos letterario che ha infiammato libri e riviste di metà Ottocento. È una storia anonima che a volte è stata attribuita ad autori celebri (come Hans Christian Andersen) ma che in realtà è sempre apparsa anonima: al massimo il giornale o il libro che la riportava citava un altro giornale o libro come fonte originaria, fonte che a sua volta citava altri giornali i quali l’avevano pubblicata anonima. Insomma, nessuno sa chi abbia scritto “Il Mulatto del Murillo” e il suo zombi, ma era una storia troppo bella per non divulgarla, con le dovute varianti.

Già l’8 settembre 1838 troviamo la storia del giovane Gómez nelle pagine del “Poughkeepsie Casket” con il titolo The Unknown Painter: al piccolo mulatto (nonché “pittore sconosciuto” del titolo) il Murillo chiede «Pensi anche tu, come i negri, che sia stato lo Zombi a venir qui e tirare questi scherzi?»

Il giornale “Merry’s Museum” nel 1842 ribattezza la storia The Mysterious Artist e in seguito l’antologia Deeds of Genius (1856) curata da Mary Jane Piercy contiene il racconto Sebastian Gomez, or The Zombi of the Studio, con la particolarità di spacciarlo come storia vera.

Parallelamente i giornali continuano ripetutamente a rimbalzarsi la storia. In un “Arthur’s Illustrated Home Magazine” del 1857 (ma anche nel “Lady’s Home Magazine” dello stesso anno) esce The Zombi, or The Mulatto of Murillo’s Studio. Quando il celebre pittore chiede al piccolo mulatto spiegazioni su cosa sia uno Zombi, questi risponde: «The Zombi is the same as a ghost», è come un fantasma.

Nel “The Ladies’ Repository” del 1869 il giovane schiavo è più preciso. Nel Sebastian Gomez, or Murillo’s Mulatto alla domanda su cosa sia uno Zombi vien detto: «Io non ne ho mai visti, ma mio padre - che neanche lui li ha mai visti - ne ha sentito parlare da suo padre, il quale non li ha mai visti ma afferma essere uno spirito maligno che viene di notte sulla terra espressamente per compiere il male.» Se questo non è un contagio memetico in piena regola...

La storia rimbalza per decenni di giornale in giornale, e non potevano certo tirarsi indietro le testate italiane. Il 30 maggio 1854 “L’Educatore di Milano” (e nello stesso anno anche la rivista “Scritti per fanciulli”) presenta Il mulatto di Murillo, fedele versione italiana dei racconti sopra citati. «Lo Zombi è una superstizione del nostro paese. Io non credo che vi sia questo né altri spiriti di tal fatta.» Stavolta il giovane Gómez è meno scaramantico, meno “selvaggio” secondo i nostri canoni...

Siamo comunque arrivati al punto: nel 1854 appare in Italia la parola Zombi! Che effetto fece quel termine così esotico agli italiani? Nessuno, visto che già lo conoscevano...

Il Dizionario universale della lingua italiana curato nel 1842 da Carlo Antonio Vanzon recita placidamente: «Zumbi. mitol. africana. Così nel regno di Congo chiamasi l’apparizione de’ morti. Fare il Zumbi gli è lo stesso che tornare dagli estinti, e turbare il riposo de’ vivi con tal sorta d’apparizione.»

       

Gli italiani di metà Ottocento già conoscevano quindi due significati della parola: essere un fantasma ed essere tornato dal mondo dei morti (che non è proprio la stessa cosa). Prova ne sia che in una “Gazzetta medica italiana” del 1859 (serie II, volume IX) un professore si lancia in una aspra critica sull’operato di un collega, il quale aveva «un tale Zombi suo discepolo ed individuo di pastafrolla»: il termine non sembra qui sposarsi né con l’accezione di fantasma né di tornato dal mondo dei morti, bensì con la modernissima accezione di “morto vivente”: vero e proprio cadavere deambulante privo di volontà.

Ma allora il nostro buon Southey, con cui abbiamo iniziato il viaggio, disturbava i suoi vicini con il suo fantasma o con il suo morto vivente? Per niente, visto che a schiamazzare la notte era il suo amato gatto...

Che trucco è?, vi starete chiedendo, Cosa c’entra un gatto con gli zombi? Nessun trucco: visto lo stile altero del felino, il nostro Southey decise di battezzarlo con il nome della massima autorità delle popolazioni africane: il Re, il Capo... cioè, lo Zombi.

       

Louis de Grandpré
Louis de Grandpré
Le Memoires pour l’histoire des sciences & des beaux Arts (1740) ci dicono che le genti africane «hanno dato forma alla loro repubblica, hanno scelto un Capo, «che è stato chiamato Zombi». Pare che il nome, continua il testo, indichi il Diavolo e quindi dia potere alla carica. Non solo. L’articolo African Coast Blockade del numero del 1850 di “The Westminster Review” racconta che le popolazioni africane sono governate da un capo «elected for life, called the Zombi»: che strano paradosso essere uno... Zombi “a vita”!

Ci sono però testimonianze occidentali sull’Africa parecchio discordanti.

Nel 1801 Pierre Dénys de Montfort pubblicò a Parigi una Storia naturale generale e particolare de’ molluschi, raccontando che il celebre navigatore Louis de Grandpré in persona gli aveva testimoniato l’esistenza nei mari intorno all’Africa di terribili piovre giganti che i nativi chiamavano zombi. È però una notizia di poco conto, ammette il de Montfort. «En général les nègres sont presque tous abrutis», “in generale in negri sono quasi tutti idioti”: con questo giudizio biasimevole, ben poco scientifico e assai politically incorrect l’autore giustifica il fatto che le popolazioni chiamino “zombi” – parola che dà per estremamente radicata nella loro cultura – tutte quelle creature (o entità) di cui, nella loro stupidità, non comprendono la natura. «[L’africano] ha paura degli spiriti malvagi, del diavolo e di tutti i fantasmi che popolano la terra, l’aria e l’acqua; e a tutte queste creature fantastiche dà nome zombie.» (Histoire naturelle, générale et particulière des mollusques, animaux sans vertèbres et a sang blanc, volume secondo, Parigi 1801, pag. 280.)

       

Un fantasma, un essere deambulante privo di volontà, un re, il diavolo, una piovra gigante... è incredibile quante cose sia uno zombi!

Ma il mondo delle parole è spietato e così come dà vita così la toglie.

Zombi da un'illustrazione di "The Magic Island"
Zombi da un'illustrazione di "The Magic Island"
Come si è visto, dalla fine del Settecento la parola rimbalza di penna in penna grazie ai viaggiatori che raccontano storie mirabolanti da terre lontane, come il celebre William Seabrook che raccontò di voodoo e di uomini posseduti nel suo The Magic Island (1929): i significati dei loro zombi cambiavano spesso, ma questo era solo segno della vitalità del termine.

La morte invece arriva il 6 aprile 1931, quando Kenneth Webb deposita il copyright del suo lavoro teatrale dal titolo lapidario: Zombi.

Era un periodo in cui la parola risuonava nei teatri di Broadway: nel 1929 Natalie Vivian Scott aveva messo in scena uno spettacolo dallo stesso titolo, Zombi appunto, dove in una Louisiana quasi mistica si parlava di stregoneria e di voodoo (chiamandolo appunto “zombi”, termine usato quindi impropriamente). Neanche un mese dopo il citato Webb, il 2 maggio 1931, un certo Charles Edward Dillon depositò il copyright del suo lavoro teatrale in tre atti Zombie: a tropical fantasy, anche se non ci sono tracce di una sua rappresentazione davanti a un pubblico.

Il 4 febbraio 1932 andò in scena a Broadway lo Zombi di Webb. «Fra le montagne di Haiti, dove il voodoo riempie i boschi di terrore, - racconta J. Brooks Atkinson sul “New York Times” dell’11 febbraio di quell’anno, - gli zombie sono una sorta di corpi animati che possono essere ipnotizzati, tirati fuori dalle tombe e costretti ad eseguire lavori sotto la direzione d’uno spietato padrone». Non era una novità, già Seabrook aveva sostituito i fantasmi cari all’Ottocento con dei cadaveri resi schiavi... eppure qualcosa cambiò.

In quel febbraio del 1932 furono messe in scena solo 21 rappresentazioni della pièce, e molti dicono che fu un fallimento, ma bastò a creare un mito. Tutti questi zombi a teatro stuzzicarono il cinema, che non volle certo lasciarsi cogliere impreparato: già quell’agosto del 1932 Garnett Weston scrisse la sceneggiatura per un film. Si dice che utilizzò il memoriale di Seabrook, ma Peter Dendle (nel suo Zombie Movie Encylopedia) parla di una causa che Webb intentò contro Weston perché la sceneggiatura si rifaceva troppo alla sua pièce: in ogni caso, il 4 agosto 1932 esce nei cinema L’isola degli zombies (White Zombie, 1932) con Bela Lugosi... Da quel momento l’Armata degli Zombie ci ha invasi!

È vero, nel film di Victor Halperin si respira un’aria di stregoneria haitiana e siamo molto lontani dai grandguignoleschi morti viventi di George A. Romero, ma è il primo passo dell’evoluzione: appena entrati nel mondo cinematografico, gli zombie (ora quasi sempre scritti con la “e”) non sono più né re né diavoli, né fantasmi né piovre giganti, ma semplici corpi morti tornati in vita.

      

In un qualche angolo del mondo un giorno è nata la parola “zombi”: dove e quando, semmai sia possibile stabilirlo, non ha davvero importanza. Il mondo è stato conquistato dagli zombi quando i resoconti dei viaggiatori hanno infiammato la fantasia dei lettori europei.

Come abbiamo visto, per tutto l’Ottocento il termine ha assunto i significati più disparati, fondendo (nella mente europea) tradizioni haitiane e folklore africano. William Seabrook è stato l’ultimo dei grandi viaggiatori-narratori a parlarne, trasportando - forse involontariamente - gli zombi nel Novecento industrializzato.

Seabrook - che pubblicò il suo resoconto di viaggio con zombi nel 1929 - aveva letto Metropolis (1926) di Thea von Harbou? Aveva visto il film omonimo (1927) che suo marito Fritz Lang ne aveva tratto? Aveva visto a teatro R.U.R. (1921) di Karel Chapek? In ogni caso, da fantasmi sette-ottocenteschi - se non addirittura re africani - i poveri zombi con Seabrook diventano dei lavoratori sfruttati e schiavizzati, figura che agli inizi del Novecento attirava l’attenzione di tutta Europa... proprio come gli schiavi-lavoratori di Metropolis o i Rossum’s Universal Robots.

Se con Seabrook lo zombi ottocentesco è morto, è subito rinato con il cinema, vestendo i lacerati panni di morto vivente. La parola “zombi” è morta più volte... per assurgere però sempre a nuova vita.