Un risultato più che preannunciato quello del film La pelle che abito: probabilmente chi non ha letto il romanzo Tarantola di Thierry Janquot sarà rimasto colpito dalla trama, ma chi lo ha letto non può che inevitabilmente trovarsi di fronte ad una sceneggiatura spuria e mal gestita.

Pedro Almodóvar è un regista di indiscusso talento che cura in questo caso la parte registica con mano sicura e con trovate di grande effetto: è però l’Almodóvar sceneggiatore che lascia a desiderare. Il romanzo a cui il film liberamente si ispira è troppo nero, troppo forte perché ci si possa semplicemente “ispirare” ad esso: infatti le parti meglio riuscite della pellicola sono quelle prese di netto dalla terribile storia di Janquot, mentre quelle più pencolanti sono state create appositamente.

Roger Ledgard (Antonio Banderas) è matto: lo dice proprio sua madre! La morte della moglie a causa di un incendio lo ha fatto uscir di senno, ed ora sta applicando procedimenti di dubbia etica per studiare una nuova pelle per aiutare gli ustionati. (In realtà tutta la lunga parte legata allo studio della pelle, inventata da Almodóvar, è l’anello più debole del film e regala agli spettatori momenti di grande noia del tutto inutile ai fini della storia).

Nella sua casa-clinica il dottore ospita una paziente misteriosa, Vera (Elena Anaya): chi è in realtà? La madre di Ledgard (Marisa Paredes), che vive con lui, vorrebbe che se ne sbarazzasse, ma il dottore non ne vuol sapere.

Non riveliamo altro, per non rovinare i colpi di scena.

La pelle che abito è un film a strati. C’è la sceneggiatura di fondo tratta in grandissima parte da Tarantola di Jonquet – tanto che la moglie di Ledgard si chiama Mygale, il titolo originale del romanzo francese! Poi c’è la parte aggiunta di peso da Almodóvar, totalmente inadatta e purtroppo noiosa. C’è poi la parte dedicata interamente alla recitazione di Elena Anaya, attrice che si dà anima e corpo al regista e si presta alle situazioni più dure uscendone sempre vincente. La recitazione burattinesca di Banderas – che si muove afono ed asettico per tutto il film, mosso da Almodóvar senza dare segni di vita – viene totalmente cancellata dalla bravura della Anaya, che recita con ogni centimetro di pelle e che tiene in piedi intere scene con la semplice forza dello sguardo. È lei che più d’una volta salva alcuni punti claudicanti della sceneggiatura.

Gli altri attori sono talmente di contorno e secondari che risulta inutile citarli.

Tarantola è un romanzo nero come la notte e geniale: in pochissime pagine riversa sul lettore un dolore e un odio immensi ed infiniti. Ogni parola è dosata ed ogni sequenza temporale minuziosamente studiata. Almodóvar sballa ogni ordine e organizza la storia secondo i propri parametri, demolendo tutto il pathos che Jonquet crea e rendendo il film terribilmente più debole.

Non sveliamo il finale, ma la personalissima scelta del regista è altamente discutibile, più legata al feuilleton ottocentesco che al noir di Jonquet.

Un film che non convince e addirittura annoia in più punti. Un Banderas inutile e una trama ad orologeria sprecata invano. Rimane un buon film ma, per chi abbia letto il romanzo, rimarrà sempre un’occasione mancata.