Sgombriamo il campo da qualsiasi elemento “metafisico”. Qua di immortale, oltre al titolo, c’è solo un soprannome, L’immortale appunto, quello che si “merita” Charly Matteï (Jean Reno), un ex gangster marsigliese melomane (ascolta prevalentemente la Tosca…) che ritiratosi a vita privata per godersi seconda moglie e figlioletto, si ritrova ventisei pallottole in corpo (la prima gli squarcia una guancia, le altre venticinque lo sforacchiano qua e là…) e ciò nonostante sopravvive.

Niente interventi dall’alto anche se forse lassù qualcuno lo ama, ma fibra forte e chirurgia.

Il seguito? Vendetta, tremenda vendetta, che come si sa va servita fredda.

Prendere Marsiglia, cara al polar di una volta, per ripopolarla con ritmi del cinema di oggi sotto forma di volumi di fuoco impressionanti e un sadismo a tratti disturbante (dirige Richard Berry produce Luc Besson), ci sembra non significhi molto.

Ben altro sarebbe stato ricostruire con cura e dedizione filologica il polar di una volta (magari con la regia di Jacques Audiard).