È da poco uscito per Stilo Editrice “Il codice Dante. Cruces della ‘Commedia’ e intertestualità novecentesche”, una ricerca unica nel nostro panorama saggistico, un volume corposo - quasi 450 pagine - e interessante che individua nella Commedia il ‘codice’ di un sistema intertestuale su tre livelli: i primi due riguardano il rapporto con le fonti e le ‘autocitazioni’ presenti nella Commedia, il terzo livello scopre nel Poema il ‘codice genetico’ della letteratura italiana, europea e americana. Secondo lei qual è il motivo per cui Dante ha costituito – appunto – un “codice” di lettura e re-interpretazione, dal passato fino al nuovo millennio?

L’operazione di ‘canonizzazione’ di un classico è un fenomeno che avviene in un tempo lungo e in qualche caso lunghissimo: difficile cercare nell’opera la ragione intrinseca del suo successo, quando questo è da ascrivere soprattutto alle ‘proiezioni’ che su di essa hanno fatto a posteriori le varie epoche. Il rischio di essere generici in questa risposta è altissimo! Ma non voglio sottrarmi alla formulazione di un’ipotesi plausibile: credo che la Commedia porti con sé un equilibrio più unico che raro fra la perfezione dello stile poetico, la memorabilità delle situazioni descritte e la vastità delle materie trattate.

Altri autori medievali avrebbero potuto garantire una di queste caratteristiche (Petrarca lo stile; Boccaccio la memorabilità; Brunetto l’enciclopedismo), ma nessuno in tutto l’Occidente ha saputo tenere insieme questi tre doni della saggezza umana. A questo punto ben pochi autori europei hanno potuto sottrarsi al fascino di attingere a un’opera che pare racchiudere una ‘mappa dell’immaginario’ umano nell’esattezza dei suoi cento canti. E questo soprattutto nella contemporaneità, quando all’«angoscia dell’influenza» – come direbbe Bloom – si accompagna il timore di una inenarrabilità del presente, la fine delle ‘grandi narrazioni’.

Questo volume è frutto di anni di ricerca e studio. Ci può raccontare il percorso, dall’idea alla stesura finale?

Sono un contemporaneista ‘anomalo’… Allievo di Francesco Tateo e Domenico Cofano, dantisti insigni degli Atenei pugliesi, quando ho deciso di recidere il cordone ombelicale per seguire la mia vocazione verso l’attualità, non ho potuto fare a meno di portare con me il meglio di ciò che quell’alta scuola mi aveva consegnato (a proposito di «codice genetico» e di «angoscia dell’influenza»!): mi riferisco allo studio sulla tradizione dei classici come passaggio costitutivo della formazione dell’autopercezione letteraria non solo di un singolo autore moderno, ma di un intero ceto intellettuale. Da qui nasceva l’idea titanica di catalogare ‘orizzontalmente’ le presenze dantesche di ben diciassette poeti italiani del Novecento, lavoro al quale ho atteso dal 1995 al 1998 e culminato nel Vocabolario che lei gentilmente ricordava all’inizio.

Poi, però, ho avvertito il bisogno di riflettere sui casi a mio giudizio più complessi e decisivi (Gozzano, Montale, Pasolini, Luzi, poi Loi e la narrativa contemporanea), cercando di vedere come gli echi danteschi, lungi dall’essere solo ‘decorazioni’ formali, si disponessero a costituire un vero e proprio itinerario di significati, un’impalcatura per una poetica del Novecento e oltre. Il codice Dante è appunto lo stato finale di queste ricognizioni ‘verticali’, preceduto da alcuni studi più strettamente dantologici che erano via via cresciuti accanto agli interessi novecentisti, come una ‘rivoluzionaria’ lettura dell’allegoria delle fiere del canto I o come la ricostruzione degli interessi danteschi di Marx, di Gramsci e di Auerbach.

Nel capitolo “Marx e Gramsci o della solitudine dell’eresiarca”, in riferimento a Inf. X, lei fa notare come Gramsci, nel Quaderno 4, 78, capovolgendo la gerarchia tradizionale fra i due personaggi del canto - Farinata e Cavalcante -, fa di Cavalcante il vero cuore dell’episodio, discostandosi dall’esegesi diffusa: «Cavalcante è il punito del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dramma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato». È d’accordo con questa interpretazione?

Non c’è alcun dubbio: l’eretico (che è poi colui che si affida alle ragioni del libero pensiero in opposizione ai dogmi di una auctoritas) viene punito non tanto con la condanna a essere relegato per l’eternità in quei «sepolcri», quanto con l’ignoranza del presente, cosa che affligge appunto Cavalcante che può conoscere tutto del futuro, ma non sa se al momento attuale suo figlio Guido sia vivo. Quale tormento è per un uomo di pensiero e azione non poter conoscere ciò che avviene nel suo mondo mentre è chiuso in un «cieco carcere»… Ben lo sapeva Gramsci, il filosofo della praxis, che scrive quelle note dantesche nel carcere fascista di Turi.

Tra gli autori che risentirono dell’influsso dantesco cita anche Pasolini, in attinenza a diverse opere e su vari livelli: dai lemmi agli ambienti alle forme poetiche. Domanda impossibile: secondo lei potrebbe anche accadere il contrario, se il tempo scorresse al contrario? Ovvero: Dante troverebbe in Pasolini alcune risorse cui attingere?

Bellissima domanda! Devo, dunque, immaginare che la linea temporale sia opposta e che al caos di un’epoca, il cui principale interprete sia Pasolini, succeda un’età, in cui scriva Dante, di rinnovata fiducia nella ordinabilità del sapere umano. Bene: credo che Dante troverebbe in Petrolio e nella Divina mimesis (!) un esempio di crisi (dell’autore empirico, del ruolo intellettuale e del personaggio uomo) che lo incoraggerebbe a dare molto più rilievo all’‘antefatto’ dello smarrimento nella selva oscura, appena accennato nel canto I e di fatto avvolto nel mistero. Chissà, forse Dante, dopo aver letto Pasolini, avrebbe deciso di scrivere un’intera cantica sulla propria esperienza di uomo, sconfitto mentre cerca l’eroismo della giustizia e dell’onore, prima di dedicarne tre all’esplorazione universale dei vizi e delle virtù, della fisica e della metafisica.

Quanto a Mario Luzi, a pag. 195 si legge: «L’impatto con l’evento bellico rese evidente la vitalità della lezione dantesca[...]». Vorrei approfondire questo binomio tra dolore ed eredità dantesca.

Luzi ha spiegato molto bene in un saggio poco più che giovanile, L’inferno e il limbo, che se Dante ha saputo essere il narratore aspro e orrorifico della disperazione e della violenza infernale (se Dante scrivesse oggi sarebbe definito splatter, almeno per molti episodi) è perché aveva ben ferma la prospettiva della purificazione possibile e della salvezza sicura. La Commedia è in questo opera intimamente cristiana, nel suo fare della speranza non una generica aspirazione al miracolo, ma un’«ancora della nostra vita, sicura e salda», come recita la Lettera agli Ebrei. In una prospettiva di disperazione intellettuale, invece, è più facile che si scelga la via della rimozione del dolore, visto come un brutto incidente del quale è inopportuno parlare, una stortura da sublimare nella perfezione della lirica o da esorcizzare nella leggerezza del comico o da dimenticare nell’evasione della sottocultura. In fondo, si parva licet componere magnis, il limbo permanente di Petrarca e dei petrarchisti di ogni tempo e l’irresponsabile vacuità del postmodernismo sono altrettante manifestazioni di impotenza dello scrittore dinanzi alla Storia e risposte mancate al dolore.

Più avanti aggiunge: «Dante poteva disporre di una dottrina (o scienza o teologia) per nulla messa in dubbio, a differenza di quanto avvenne per gli europei del protonovecento, per i quali l’assenza era in fin dei conti il tramonto dell’ideologia». Ha riscontrato un legame tra la suddetta “assenza” e la ricerca, da parte di autori contemporanei, di specchiarsi, ritrovarsi in maestri connotati, invece, dalla “presenza” di un credo (o fede o scienza)?

Dinanzi alla fine delle certezze umanistiche (prima fra tutte la progressività della storia, seguita dal primato della soggettività contro la parcellizzazione e l’alienazione del soggetto) gli scrittori occidentali contemporanei hanno sempre oscillato, in buona sostanza, fra estetiche dell’assenza (dal nichilismo al pensiero debole) ed estetiche dell’attesa, da intendersi come proiezione indeterminata verso un graduale dispiegamento di Senso: entro quest’ultimo spettro vanno racchiuse non solo tutte le metafisiche positive, come l’ermetismo, ma persino le poetiche che ad esse si sono sempre aspramente contrapposte, come quelle animate da una profonda tensione politica. In fondo la stessa spaccatura della neoavanguardia può spiegarsi in questa chiave: quella parte che virava verso la ricerca formale fine a se stessa era quella che si rassegnava all’inagibilità del mondo e al fatale declino dell’umanesimo.

Se sono stati amati i grandi ‘ideologi’ del passato, come Dante, ciò è accaduto perché egli ha messo tutti d’accordo: ai nichilisti ha offerto il linguaggio per raccontare l’infernalità della condizione umana; ai cercatori del Senso ha additato come soluzione ancora possibile la metamorfosi, attualizzata e ‘tradotta’ di volta in volta come catarsi, conversione, autocritica, rivoluzione e chissà cos’altro ancora.

Ha individuato quasi sessanta romanzi del nuovo millennio debitori in qualche modo a Dante e alla Commedia. Il romanzo che l’ha più incuriosito...

Il fenomeno quantitativamente più macroscopico è stato quello del riutilizzo nella letteratura di genere (gialli con citazioni o con intere strutture dantesche o addirittura con Dante come personaggio; e poi romanzi storici ed esercizi di stile sulla scia delle interviste impossibili): fra questi resta più memorabile per me Il codice Dante dello statunitense Matthew Pearl, che, se non è cronologicamente il primo, è però quello il cui successo determina la corsa editoriale all’emulazione. E poi La matta bestialità del sardo Giorgio Todde, impegnato in una caratterizzazione allegorica dei personaggi e poi bravo nella perfetta scrittura in terza rima di un fantomatico trentacinquesimo canto dell’Inferno. Ma se cerchiamo quelli in cui lo ‘spirito’ dantesco è stato colto con più forza e originalità bisogna cercare altrove.

Quali sono, allora, quelli che ha trovato più ‘danteschi’?

Quelli in cui la Commedia è messa alla prova circa la sua capacità di raccontare la storia del Novecento o addirittura il nostro presente postindustriale: in questo caso impressionante è davvero La città dolente del francese Daniel Zimmermann, che aggiunge un nuovo capitolo alla letteratura sulla Shoah (nel solco dell’incompiuta trilogia tentata dal grande Peter Weiss negli anni Sessanta, ma interpretata correttamente nei suoi presupposti danteschi solo in quest’ultimo decennio). In questi anni di recessione, con conseguente esasperazione del cinismo delle cosiddette ‘ristrutturazioni aziendali’ (che celano di fatto una pulsione all’eliminazione fisica dell’avversario…), consiglierei poi di rileggere un altro libro francese, insieme feroce e lieve, L’ordine del giorno di Laurent Quintreau, pubblicato proprio agli albori di questa crisi, nel 2008.

Non le è mai capitato di disapprovare l’utilizzo che alcuni narratori hanno fatto del Poeta?

La grande letteratura è sempre al di sopra di ogni ‘violenza’ manipolatoria: credo che riscrivere, attualizzare, parodiare, imitare Dante sia un’operazione sempre legittima (oltre che inevitabile). Qualunque scrittore senta il bisogno di parlare ‘per interposta figura’ lascia intatta l’opera di partenza (che invariabilmente gli sopravvive) e cerca il timbro giusto per costruire la propria voce: è una dinamica propria di ogni stagione artistica.

È riprovevole solo la mistificazione, cioè l’operazione commerciale che sfrutta il brand Dante per diffondere agli sprovveduti contenuti che nulla hanno a che vedere col senso e col messaggio del suo capolavoro: è quello che è accaduto in un recente videogioco in cui il Poeta è, chissà perché, un cavaliere armato che deve liberare dagli inferi Beatrice… Questa la trovo una scempiaggine non accettabile.

Per il resto, è chiaro che in un corpus così ampio come quello che ho raccolto in un decennio ci sono molti libri modesti: si tratta di sciatterie editoriali suggerite dal fenomeno dell’ingresso potente della Commedia nell’immaginario pop anche giovanile. La ringrazio di aver avuto il garbo di non chiedermi di fare qualche esempio: d’altra parte dalla lettura dell’ultimo ampio capitolo del libro le mie valutazioni sui singoli titoli credo si evincano molto facilmente…

Una domanda tecnica: com’è il panorama editoriale, per quanto riguarda la saggistica?

Non è semplice la vita editoriale per un critico letterario: com’è noto, all’interno di un panorama non lusinghiero per la filiera del libro, accanto alla narrativa il genere editoriale più fortunato è quello della saggistica sociale, politica e persino filosofica, quando sa legarsi all’attualità. Vedo un gran bisogno, almeno nei cosiddetti lettori forti, di cercare nei libri una strada per la costruzione di un’attrezzatura mentale in grado di leggere il presente: questa è una cosa splendida ed è una fortuna che avvenga.

Ma purtroppo dalla metà degli anni Ottanta la critica letteraria militante è morta perché è divenuta servile nei confronti degli interessi editoriali, mentre quella accademica si è rintanata in un iperspecialismo che, oltre a essere immediatamente gratificante, sembrava metterla al riparo dal rovente (ma anche fuorviante e alla fine stucchevole) dibattito ideologico dei decenni precedenti. Il risultato finale è stato l’emarginazione sociale e poi anche editoriale del critico. Quale lettore, pur avveduto e consapevole, può pensare di cercare in libri che parlano di altri libri gli strumenti per la comprensione del suo tempo? Man mano che la letteratura creativa viene vista come evasione (vuole che parliamo delle classifiche dei libri più venduti?), la critica letteraria viene suggellata nella sua ‘inutilità cosmica’, funzionale solo a un’élite che non si sa bene a cosa serva.

E questo si riflette anche nelle scelte della grande editoria, prodiga di attenzioni nei confronti di socio-politologi e filosofi, ma annoiata e snob di fronte alla critica letteraria: e così rimangono prive di visibilità quelle nuove proposte, che pure non mancano, che tornano a coniugare la critica dei testi (presenti e passati) con la critica dell’unico contesto che ci preme: l’oggi.

A cosa sta lavorando adesso?

Dopo molti anni dedicati allo studio della poesia in lingua e in dialetto (oltre che al dantismo, si capisce) sento il bisogno di interrogare le dinamiche sociali che interessano la letteratura contemporanea in tutti i suoi generi: in particolare sto studiando come cambia la scrittura e il rapporto fra autore ed editoria nell’età della recessione. Sono partito dallo studio dei temi della crisi economica presenti nella narrativa dell’ultimo decennio, con particolare riferimento alla sfera del lavoro, per poi passare all’analisi delle criticità incontrate dall’editoria letteraria in quanto funzione interna (e soggetta) al capitalismo informazionale. Ora si apre la terza e forse ultima fase di questa ricerca: una riflessione sulla nozione di post-realtà, sul conflitto, cioè, fra realtà naturale e storica e (false) verità costruite attraverso la comunicazione, il meccanismo che governa il capitalismo finanziario e la politica mondiale.

In quest’ottica mi accingo a tenere un corso universitario su Umberto Eco, lo scrittore che nei suoi romanzi meglio di ogni altro ha indagato (magari camuffandoli) i limiti oscillanti fra i «fatti» e le «interpretazioni».

Ci saluta con una citazione dal libro?

Volentieri. Ma troverei insopportabile citare me stesso: così mi vengono in mente dei versi di Luzi, che rappresentano la condizione dell’uomo alla fine (presunta, sperata) di un’esperienza infernale: il poeta fiorentino pensava allora alla seconda guerra mondiale, ma egli stesso più tardi avrebbe potuto riferirla alla crisi della Repubblica italiana, che tanto lo addolorava, e noi potremmo recitare queste due terzine pensando a questi nostri tremendi anni di cannibalismo economico e di inettitudine politica. Dobbiamo immaginarci un uomo che si affaccia come Dante sulla marina del Purgatorio e, pur non potendo dimenticare l’orrenda notte appena conclusa, confida che proprio quell’esperienza sia stata l’inizio di una purificazione della mente: «Poco dopo si è qui come sai bene, / fila d’anime lungo la cornice, / chi pronto al balzo, chi quasi in catene. // Qualcuno sulla pagina del mare / traccia un segno di vita, figge un punto. / Raramente qualche gabbiano appare».