Cosa spinge degli uomini a torturarsi, a forgiare il proprio fisico con privazioni e dolore, a costruire e al tempo stesso mettere a rischio totale il proprio corpo, solo per la possibilità di massacrarsi l’un l’altro? La risposta è semplice e complessa: un Cuore guerriero.

A Fighter’s Heart è un libro che ha diverse catalogazioni (memoriale, diario di viaggio, letteratura on the road, e via così) ma in realtà nessuna può contenerlo: è stato scritto dichiaratamente per finanziare le esperienze di cui tratta, ma è anche stato poi il mezzo con cui l’autore ha potuto condividere le conclusioni di un viaggio intorno al mondo a bordo ring.

Sam Sheridan non è né un asceta né un action man tutto muscoli. Sente di essere nato con un cuore guerriero, sente dentro di sé il desiderio di combattere ma anche quello di non ferire nessuno: non è un violento né un animale da ring, è semplicemente un fighter. La vita non ha bisogno di ring per mettere alla prova le abilità di un fighter.

Dai campi di allenamento in Thailandia alle palestre pugilistiche americane, da Tokyo al Messico, l’autore viaggia alla ricerca delle origini del combattimento, di quel desiderio di alcuni di combattersi a vicenda, e di altri di stare a guardare. Attraverso realtà diversissime tra loro, Sheridan guida il lettore nel caleidoscopico mondo del combattimento, dalla muay thai alla boxe, dal brazilian jiu jitsu alla MMA. Non mancano stupefacenti digressioni sul combattimento dei cani (sorprendentemente simile a quello umano!) e dei galli, illegale in molti Paesi ma di grandissimo richiamo in altri.

L’autore chiede a tutti i combattenti che incontra di spiegargli perché lo fanno, cosa pensano. Si allena con loro, lotta con loro, si fa male e soffre le pene dell’inferno, ma solo così può capire cosa voglia dire essere un fighter.

Non manca una deliziosa digressione sul combattimento cinematografico, che sicuramente è meno “vero” di quello sul ring ma - come dimostra il ghiotto capitolo di questo libro - è molto più complesso, lungo e faticoso sotto molti aspetti.

Perché allora si combatte? I motivi sono tanti. «Per me è per avere peso», dice un pugile; «È una questione di rispetto», dice un personaggio di F.X. Toole; «entriamo nella gabbia solo per dimostrare a noi stessi che non c’è niente di aver paura» dice un lottatore di MMA; «Quando si indossa il gi e si mette piede sul tatami, le differenze sociali scompaiono», dice un mestre brasiliano; «c’è stato un momento in cui ho pensato che il senso della vita era accumulare cose: invece il senso della vita è perdere tutto» dice Mike Tyson.

Le risposte sono tante: sta ad ogni fighter trovare quella giusta per sé.

Nomi, luoghi, discipline e città vengono snocciolati brevemente, perché questa non è una guida turistica né un catalogo di lottatori. Sheridan non dà l’impressione di aver scelto i “migliori” di ogni campo, ma di aver semplicemente girato per palestre e parlato con chi ha incontrato: poteva essere un campione come poteva essere un brocco, ma tutti erano guerrieri e tutti mettevano se stessi e la propria vita in discussione sul ring.

Sheridan cita autori che hanno scritto di boxe (Hemingway, F.X. Toole, Carol Oates) ma anche scrittori celebri che hanno semplicemente scritto belle parole. Non è un rude ragazzo di strada che scrive della propria esperienza, bensì un uomo curioso («Qualcuno una volta mi ha chiesto se cercavo qualcosa. Io cerco ogni cosa») che non si ferma alle apparenze.

Ne esce un ritratto sorprendentemente vitale e positivo di un universo che generalmente si tende a considerare ai margini della società. Persone che hanno la capacità di massacrare chi gli sta davanti si scoprono essere uomini di rara umanità e grandi amici: perché essere un fighter è una qualità dell’anima, non un vizio del corpo.

Lasciamo le parole conclusive all’autore: «Avere un cuore da combattente, essere temerari, ha a che fare con il conoscere se stessi e il non avere paura della sconfitta. È così che diventi una versione migliore di te stesso.»