L’uomo esce dall’ombra, si guarda in giro, e si allontana a passo veloce verso la macchina. Sale e mette in moto. Le mani stringono il volante, così contratte da apparire livide. La rabbia dell’uomo è alle stelle, la rabbia che si nutre di paura, che brucia negli occhi e nei muscoli sfibrati dalla tensione. All’incrocio il traffico costringe a una pausa. La stanchezza è più forte della volontà. La testa scivola leggermente di lato e il piede sfugge sull’acceleratore. Il motore romba prepotente. Una frenata d’istinto. La vettura sussulta. Una bestemmia. Un pugno sul volante. Poi l’uomo recupera lucidità, spalanca gli occhi e respira a fondo. Appena il traffico lo permette l’uomo accelera. Svolta a destra, imbocca il viale, con una guida più morbida. Di fronte a lui la luna sfonda l’indaco del cielo con un alone turchese, a tratti sfugge ai profili delle case, quasi osserva la vita dall’alto, e sembra invitare a farsi rincorrere. A farsi catturare. L’uomo fissa il retrovisore. Dietro di lui nessuna manovra strana. Accende la radio. La musica è capace di quietarlo

…he left no time to regret, kept his dick wet.

La voce aspra di Amy Winehouse sembra cadere a pennello, lenta e affilata come una camminata sulla fune. E la melodia cruda del pezzo rende ancora più malinconica la città, forata dai lampi di luci giallastre delle automobili in transito che si spandono sull’asfalto lucido, e delle insegne luminose dei negozi ancora aperti. Continua a spostare lo sguardo tra lo specchietto retrovisore e il via vai del traffico mentre la tensione nervosa tende a placarsi. Nessun pericolo. Ormai ne è certo. Si abbandona con la testa contro lo schienale dell’auto.

…you went back to what you knew…

..and i tread a troubled track my adds are stracked

I ll go back to black…

L’uomo aveva fiutato il pericolo solo pochi minuti prima, di fronte alla porta del suo appartamento, dopo aver trovato in bella mostra un vasetto con una piantina dalle foglie ovali. Era piccola, messa d’angolo contro lo stipite. Si era piegato a fissarla. Con stupore. Vista più da vicino aveva notato che le foglie apparivano come sovrapposte una all’altra, più simili a tanti occhi socchiusi dalle lunghe ciglia che non a lamelle di natura vegetale. La piantina gli aveva ricordato immediatamente l’ingordigia sanguinolente da Piccola Bottega degli Orrori. Non era riuscito a toccarla. Solo a guardarla, quasi con ribrezzo. L’aveva fissata piegandosi un po’ di lato. Carnosa. Gli era parso quello l’aggettivo più consono per definire il mostriciattolo verde. Ovvio pensare che forse il fiorista avesse sbagliato destinatario. Cosa c’entrava lui con una piantina carnosa? Però gli era bastato poco per essere certo che la consegna era giusta. Sbirciando con più attenzione l’involucro aveva letto il suo nome. Proprio il suo, non quello di qualcun altro. Era scritto in stampatello, chiare lettere su un cartoncino bianco pinzato al cellophan trasparente che avvolgeva la base del vaso. Un regalo di cattivo gusto aveva pensato, e prima di considerare quella piantina una cosa definitivamente sua, si era pure domandato perché, che razza di occasione fosse, e come poteva venire in mente a una persona normale l’idea di regalare una mangiatrice di mosche e insetti.

Sotto la pianta una busta con un foglio piegato in quattro. Una pagina staccata da un libro…

…Dionaea Muscipula, o Dionaia, ovvero figlia di Dione, uno dei tanti nomi di Afrodite, la dea dell’amore, una rarissima pianta carnivora che prima intrappola gli insetti e poi li consuma. Origine del nome dovuta forse al fatto che la Dionea Muscipula chiude la sua vittima in un abbraccio mortale e poi la divora, così battezzata da uno scienziato tanto misogino da temere la donna più che il diavolo l’acqua santa e per il quale ogni aspetto dell’eros equivaleva a un atto cannibalesco…

Solo a quel punto gli era stato chiaro che qualcuno lo stava tenendo d’occhio. Qualcuno che aveva scoperto il suo segreto. Che conosceva la verità. Magari si era infilato dentro casa pronto a far scattare una trappola. Forse era in attesa nel buio, oppure seduto in poltrona, in controluce. Probabilmente armato. O di una pistola o di una sbarra di ferro. Sbirri! o chi altri? Fu il panico. E si era messo a correre giù dalle scale. Otto piani. Non erano uno scherzo ma gli pareva di sentirsi più libero di muoversi. Di fuggire.