Se i peccati capitali derivano dalla ripetizione di atti che formano nel soggetto che le compie una sorta di deviazione da quello definito come “corretto agire”, ventuno scrittori - già noiristi e giallisti di rilievo - si sono addentrati nelle sette direzioni viziose: Sergio Altieri, Ugo Barbàra, Elisabetta Bucciarelli,  Alfredo Colitto, Leonardo Gori, Carmen Iarrera,  Diana Lama, Ernesto G. Laura, Giulio Leoni, Giancarlo Narciso, Divier Nelli, Ben Pastor, Giuseppe Pederiali, Alessandro Perissinotto, Patrizia Pesaresi, Biagio Proietti, Claudia Salvatori, Gaetano Savatteri, Valerio Varesi, Andrea Vitali, Diego Zandel.

Che l’equazione autore/racconto sia una garanzia di piacevole lettura, posso assicurarvelo.  Ma in “7 - Seven. 21 storie di peccato e paura” c’è di più, oltre al leitmotiv peccaminoso. C’è l’elemento thriller, la paura, l’inquietudine. Racconti storici o attuali, ambientati nella scuola, negli spazi angusti della casa di un avaro, in strade solitarie e assolate, in pianeti-sepolcri infossati nella polvere trasportata dai venti, in cene infide. Gustose narrazioni che si dipanano tra pericolose tensioni in sedute psichiatriche, boccate intense di sigarette, maledizioni che si avverano, gestualità consuete e straordinarie. I protagonisti sono verosimili e diversi, sottratti alla vita quotidiana ma anche all’eccezionalità: scrittori, avvocati, rapinatori, galeotti, poliziotti, invalidi, monaci, critici letterari che fanno una brutta fine, poeti superbi, cronisti.

Gli scrittori hanno vagliato liberamente il vizio attorno a cui costruire il racconto e in calce hanno motivato la loro scelta. Abbiamo rivolto a molti di essi la medesima domanda: “In che rapporto sei col vizio trattato?” ed ecco, in ordine alfabetico, le loro risposte, a seguito di quella del curatore:

Gian Franco Orsi:

Sono affascinato in particolare da quei vizi che hanno un rapporto con il corpo. La gola e la lussuria. Mi considero fortunato di non essere invidioso. La superbia mi è estranea. Disprezzo gli avari. Non capisco gli accidiosi. Scatti d'ira, dentro, ne ho: per esempio quando mi trovo di fronte a  corrotti, a bugiardi e a chi approfitta dei deboli e dei meno  baciati dalla fortuna.

Sergio Altieri

La lussuria? Nella definizione medievale, i vizi capitali -attenzione: vizi e non peccati- sono "sopraffazione della volonta' umana sulla volontà di dio". In piena provocazione da ateo maledetto e impenitente che brucerà nelle eterne fiamme dell'inferno, se dio e' morto la volontà di dio dove va a finire? Oops...

Provocazioni e blasfemie a parte, in "7" –by the way, non c'è 1 solo racconto (senza contare quello dello scrivente) che non sia fenomenale- ho voluto focalizzare sulla lussuria presentandola esattamente alla rovescia di una "toxic addiction" erotica.

La lussuria che cerco di descrivere in "Un'alba per l'Ecclesiaste" -ulteriore provocazione blasfema nel titolo stesso del racconto-  vuole essere un'ancora di salvezza psicologica in un mondo trascinato ben oltre l'estremo. È un'operazione tematica e narrativa al limite: ciò a cui i due personaggi si abbandonano è davvero viziosa lussuria, o e' forse qualcosa di molto più disperato e struggente, qualcosa di profondamente umano? Che sia il lettore a giudicare.

Il mio personale rapporto con la lussuria? Oh, well, right now, I just don't think I have an exact recollection...

Ugo Barbara

Ho sempre detestato l'avarizia e l'invidia. Sono i più meschini tra i vizi capitali. La gola e la lussuria sono prerogativa di chi si gode la vita; la superbia e l'ira di chi ha un'opinione troppo alta di sé per accettare di confrontarsi con gli altri. L'accidia... beh, da siciliano ho la propensione a perdonarla con più facilità. Ma se posso avere a che fare con lussuriosi, accidiosi, golosi, superbi e iracondi, non posso davvero tollerare gli avari e gli invidiosi. Sono peccati distruttivi: l'invidioso demolisce qualunque cosa di buono sia stata fatta pur di non seguire quel modello e cercare di raggiungere gli stessi obiettivi. L'avaro vive una vita miserrima, stitica, contratta. Così come non vuole condividere i propri averi, l'avaro non è in grado di condividere i propri sentimenti e questo lo isola all'interno di una comunità e lo rende contiguo all'invidioso. Mi riesce più facile comprendere gli avidi. Si può essere avidi di denaro, ma anche di esperienze, di sensazioni, persino di sentimenti. Non c'è nulla di male nell'accumulare se poi si è disposti a condividere. Ecco: se devo avere un rapporto con questo peccato allora ammetto di essere avido, ma sono sempre pronto a condividere con gli altri il frutto del mia avidità.

Elisabetta Bucciarelli

Premesso che li frequento tutti con una certa disinvoltura, se avessi dovuto parlare di me avrei scelto l'Ira. Invece, volevo parlare di scuola. E quindi mi è sembrata perfetta l'Accidia. E' proprio a scuola che impariamo (molto bene) a frequentare tutti i vizi capitali. L’ira e l’invidia, per esempio. Ma l’accidia è quello che in modo sotterraneo lavora più degli altri. Sa di rancido. E’ scaduta, scadente. E’ la zitellaggine dell’anima. Silenziosa, sorniona, si declina nei suoi numerosi tentacoli: la pigrizia o, più grave, una forma sempre più diffusa di “depressione pop”. Postmoderna o supermanierista, è quella forma di male profondo che affonda le sue radici nella frustrazione, nella rinuncia e nell’impotenza. 

I ragazzi respirano gli stati d’animo degli adulti, soprattutto quelli che incontrano tutti i giorni e dovrebbero, invece, essere mentori, Maestri o semplicemente guide. La mia necessità di parlare di accidia nasce dall’impotenza di fronte a questo vizio. Il vizio di chi non può fare a meno di arrendersi. Un giorno qualunque, in una scuola qualunque. 

 

Alfredo Colitto

L’invidia mi intriga. Molto. Per un motivo molto semplice: nessuno, dico nessuno, ammette mai di essere invidioso. Mentre la gola e la lussuria, per esempio, sono vissute oggi anche come qualcosa di positivo, l’ira è condannata ma in molti casi giustificata (e quindi questi peccati sono confessati piuttosto liberamente dalle persone che li compiono) l’invidia praticamente non esiste, se chiedete in giro. O meglio, esiste negli altri, mai in sé stessi. Provare per credere.

Diana Lama

Come giallista, l'accidia mi intriga perchè la sfida di far commettere un' azione così ridondante come un delitto a un accidioso è già di per sè motivazione sufficiente a scriverne.

Come essere umano fallace e vizioso: premesso che mi macchio continuamente di tutti gli altri vizi capitali, e di alcuni anche con colpevole piacere, devo dire che il mio peccato preferito è assolutamente l'Accidia e l'ho scelto senza alcuna esitazione tra tutti gli altri. Sono accidiosa nell'anima, e forse per questo non mi concedo un'attimo di tregua, una pausa, un momento di relax e nemmeno un riposino.

Sono sicura che se cedessi anche solo per cinque minuti affonderei nel pantano dell'accidia e non sarei capace più di tirarmene fuori. Quindi attività a tutta forza, mille e centomila interessi, cose da fare, progetti da avviare, domani e dopodomani e il giorno dopodopodomani già organizzati e l'agenda già bloccata con impegni fino a fine anno. Mi diverto? Sicuramente, mi piace sapere di avere mille cose in mezzo, però so bene che l'accidia strisciante domina il mio spirito e che se solo per un istante mi lasciassi andare...

Giulio Leoni

In quali rapporti sono con l'accidia? Ottimi, di reciproco e sincero rispetto. Perché è forse il più incerto e aereo dei peccati, una specie di merletto veneziano in cui è il vuoto e l'assenza a determinare la forma, più che non l’evanescente pieno della trama.

Ma perché scegliere lei? Per accidia, appunto. Perché non c’era poi tanto da lambiccarsi il cervello per trovare qualcosa da scrivere. In genere si tende ad associare il crimine a una ridda di emozioni forti, odio, amore, paura, avidità. Ma questa è una pura convenzione letteraria, arricchita da tutta una vulgata giornalistica che tende a girare ogni fatto in fattaccio al supremo scopo di sparpagliare in giro qualche copia in più.

Nella realtà la gran parte dei misfatti avviene più per un indolente trascinamento di vizi, che non per un meditato progetto. Quasi sempre è un treno di omissioni, fraintendimenti, abulia che alla fine approda sferragliando nella stazione del delitto. E la frotta di questurini che allora accorrono in vettura a interrogarsi intorno al cadavere sono quasi sempre all’oscuro dei ponti malmessi, delle gallerie oscure, delle traversine consumate che il convoglio ha attraversato lungo il suo lungo percorso tra le fermate di Bellosguardo e quella di Tragedia.

Più accogliente e suggestivo dell’Orient Express, questo treno è continuamente in moto, e capita spesso di salire a bordo nei momenti più impensati. Anche perché il biglietto è sempre e rigorosamente low cost. Perché non ti costringe nemmeno ad arrancare verso la stazione, è lei che viene da te.

 

Divier Nelli

Con l'Avarizia? Be', la conosco, ma preferisco un altro genere di donna.

Biagio Proietti

A me è capitata l'avarizia e chi mi conosce può testimoniare che io ho una miliardo di difetti ( sarebbe meglio chiamarli inclinazioni al peccato) ma quello dell'avarizia proprio no. Ho accettato per il piacere della sfida che ha sempre dominato le mie due vite( personale e professionale) e per scriverlo ho cercato di prendere spunto da qualche avaro che conoscevo. mi sono reso conto che uno c'era e su di lui ho lavorato per renderlo protagonista di un racconto. Ci sono riuscito? al pubblico la risposta e, mi raccomando, che non sia avaro. Né di critiche nè di applausi. Io non sono avaro ma vanitoso sì.

Claudia Salvatori

Il mio rapporto con la superbia è conflittuale. Ovviamente è il mio vizio, e per questo tendo a disciplinarlo. Questo mi conduce a mantenere un basso profilo e un certo tipo di understatement che alla fine mi nuoce. Allora me ne pento e penso che dovrei essere più tranquillamente superba, anche in considerazione del fatto che ne vedo molti, superbi senza rimorso e pudore. Insomma, come al solito siamo molto contorte... io e le mie molteplici personalità.

Gaetano Savatteri

Ho scelto la regola dantesca di un contrappasso invertito. Proprio perchè credo di non peccare di superbia, ho voluto indulgervi nel mio racconto. Ma se in realtà la superbia è la curiosità per il mondo, il tentativo di porsi domande, la voglia di sfidare le verità precostituite, la sfida intellettuale verso se stessi, allora sì: a volte sono stato superbo. E non me ne pento.

Valerio Varesi

Invidio sempre un altro me stesso e ne divento spesso schiavo. A volte il confronto con lui è umiliante, a volte sopportabile, mai tranquillo. Ma mi capita di invidiare anche gli altri per la stessa ragione. L'invidia è la misura dell'insoddisfazione nei confronti di se stessi. Si desidera e si invidia in quanto mancanti, o quando ci si crede tali. Per questo il peccato ha un risvolto positivo, quello di spingere a migliorarsi. Diventa negativo quando prevale solo una sterile astiosità. Questa è la forma più diffusa e non nego che talvolta mi prenda. In definitiva, dell'invidia non si piò far senza. Diffido sempre di quelli che dicono: "Io non sono per niente invidioso". O mentono, o sono persone amorfe.

Diego Zandel

Con il peccato di gola ho un rapporto molto stretto: di fronte ad alcuni cibi non so trattenermi, mentre ho il blocco totale di fronte ad altri, tanto che, avendo solo questi ultimi, potrei morire di fame. Credo di aver individuato il motivo. L'ho spiegato anche nella stessa antologia: risale alla mia primissima infanzia, passata in un campo profughi, quando, al primo mese di vita e poi dal nono mese in poi, mia madre, malata di tisi, dovette lasciarmi per raggiungere il sanatorio, dove sarebbe rimasta per un paio di anni. Senza di lei, privo del calore del suo corpo, il rapporto col cibo mutò, si complicò al punto che, crescendo, cominciai a rifiutare, con disprezzo, i cibi conservati, stagionati, freddi. Presi a mangiare solo piatti caldi, preparati all'impronta, alimenti freschi, col risultato di seguire solo il piacere della gola, quasi a voler ritrovare il piacere perduto del cibo preso dalle mani di mia madre.