La storia si consuma in un’atmosfera apparentemente serena, l’America provinciale degli ultimi anni ’50. David è un ragazzino che vive spensierato i suoi dodici anni quando, nella casa dei vicini, arrivano Susan e Meg, due sorelle che hanno appena perso i genitori in un incidente d’auto. Il lettore s’immagina che siano amorevolmente accudite dalla zia di secondo grado che le ospita, Ruth, e s’aspetta che la fascinazione preadolescenziale di David per Meg scoppi, a breve, in una tenera, soffice love story.

Ma gli eventi cominciano a incupirsi quando David assiste ad episodi di cattiveria perpetrati dalla zia contro Meg. Si parte da rimproveri ingiustificati, confermati da confessioni della ragazza, e si precipita in basso, sempre più in basso, fin nelle tenebre, in un crescendo di crudeltà intesa nel senso etimologico del termine, una crudeltà cruda, in ottemperanza al suo etimo latino crudus. Risaliranno i protagonisti dal baratro? 

Ispirato alla storia vera di Sylvia Marie Likens e di sua zia Gertrude Baniszewski, tradotto e pubblicato da Gargoyle Books, La ragazza della porta accanto di Jack Ketchum (pseudonimo dello scrittore americano Dallas Mayr) è stato sceneggiato per l’omonimo film The girl next door di Gregory Wilson.

Siamo di fronte a un romanzo che non si può interrompere. Si può scegliere, prima, se leggerlo o meno. Perché ci sono libri che non sono per tutti e questo ne è un esempio. Non è una questione di horror o splatter, è una questione di regolazione del proprio livello di sopportazione del dolore altrui. Perché la vicenda trascina il lettore, lo rende osservatore forzato della disumanità straordinaria di una donna rimasta sola, malaticcia, con le rotelle non del tutto a posto, incancrenita contro il gentil sesso, rancorosa verso la vita. A questa spietatezza perversa se ne affianca un’altra, più istintiva, più animalesca, quella di ragazzini il cui sadismo non trova giustificazione etica alcuna. Eppure esiste e scoppia in tutta la sua putrefazione non appena l’occasione rende l’uomo ladro. E aleggia in sottofondo un discorso importante sulla responsabilità. Perché all’inizio David vede e non fa nulla? Il lettore vorrebbe strapparlo fuori dalle pagine, sballottarlo, gridargli di correre in polizia o di denunciare ai suoi genitori gli orrori di cui è testimone quotidiano.

Non mancano spunti di riflessione, tanto più quando si pensa che l’ispirazione parte da un fatto di cronaca. Ma non rallentano la lettura: anzi, questa scorre veloce oltre i dialoghi snelli, oltre uno stile –come lo ha definito Stephen King nella nota finale– lineare e piatto, oltre la voce narrante di David, dapprima invaghito dalla nuova vicina, poi perplesso dal trattamento che le viene inflitto, quindi impietosito e sempre, comunque, pietrificato in quello stadio di impotenza cui lo attanagliano il contesto, la paura, lo smarrimento. E allora scattano le domande: c’è un punto limite cui la crudeltà può arrivare? Quanto degenera in balìa del branco?

Lasciamo al lettore le risposte, chiudiamo invece citandogli la spiegazione che l’autore dà alla pervasività del dolore:

«Il dolore può agire dall’interno.

Intendo dire che qualche volta il dolore lo vedi. Il dolore nella sua forma più cruenta e pura, senza droghe, sonno o persino choc o coma che lo attenuino.

Lo vedi e lui entra di te. Poi sei tu