Gianfranco Nerozzi raggiunge con Il cerchio muto la sua maturità di story-teller; usa sapientemente tutti gli elementi del "genere" (psicologico, thriller, horror e noir) facendo muovere personaggi vivi e contrastati su una fitta (ragna)tela narrativa.

Ciò che c'è di più ammirevole nel "tramare" dello scrittore bolognese è la credibilità/profondità di lettura che raggiunge con una storia di ficton pura: ovvero, quella bella sensazione che si prova quando ci si muove in un ambiente fantastico eppure così tremendamente reale. 

Lo sfondo è un Appennino emiliano che non ha nulla da invidiare al Maine di Stephen King: tranquilla periferia dell'Impero in cui cova il delirio e il soprannaturale, dove spettri ballardiani corrono corse clandestine su strade asfaltate dal catrame di celluloide steso da Lynch e Cronenberg.  

Leggere questo romanzo è come assistere a uno scontro automobilistico ripreso da più punti di vista e sparato su un schermo a loop, visto a velocità caotiche, sezionato a beneficio di diverse interpretazioni e letture: crocevia di destini, tragedia disperata e fredda statistica.

Il romanzo forse si lascia un po' andare nel finale - perdendo un po' di compattezza e cedendo a soluzioni "easy" - ma è di indubbio valore nella produzione dell'autore e nello sviluppo della narrativa di genere nostrana.