Accolto da lazzi e frizzi al 62mo Festival di Cannes, molto semplicemente, per quanto sia tutt’altro che un film semplice, Anthchrist, è il miglior film di Lars von Trier da parecchio tempo in qua.

Sulla storia in generale, si è molto ricamato senza risparmiare una sottile ironia che appare quanto mai fuori luogo. Eccola (la storia…): reduci dal trauma provocato dalla morte del proprio figlioletto, una coppia, lui terapeuta, lei ricercatrice impegnata nella stesura di una tesi sulla persecuzione delle streghe, i due si ritirano nella foresta di Eden luogo dove pare alberghino le paure più inconfessate della donna e dove l’uno tenterà di aiutare l’altra a superare le ambasce che la attanagliano.

Sempre con la stessa ironia, parecchio si è ricamato anche sugli amplessi focosi, il primo che fa da prologo, bruscamente raffreddato dalla caduta del figlioletto dalla finestra aperta, scena che tutta una serie di accorgimenti (il ralenti, l’uso del B/N, il ricorso ad un montaggio che procede per assonanze visive, e infine la musica del Rinaldo, lascia ch'io pianga di Handel) rendono di grandissima riuscita visiva.

Stessa sorte, feroce ironia cioè, è toccata alla crudezza di alcune scene, in particolare due, una con al centro un’automutilazione femminile e un’altra con al centro un trapano che non avrebbe sfigurato in uno a caso dei cinque Saw visti sino ad ora.

Ma il problema non è questo, quanto la sensazione che a tanti sembra essere sfuggita la dimensione complessiva della vicenda che iniziata come una storia di ordinario dolore, per certi versi come tante, una sorta di melodramma su una perdita inconsolabile, strada facendo assume i tratti una vera e propria discesa agli inferi dalla doppia natura: la prima è quella strettamente legata al racconto e se vogliamo anche alla recitazione estrema dei due protagonisti, Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg, quest’ultima premiata con il premio come migliore attrice, ma anche negli inferi di un genere, quello horror il che fa di Antichrist una sorta di neo-horror di grande tenuta stilistica, certo più classico di quanto non lo fosse The Kingdom, ma molto più moderno di tanti altri.

Il suo nucleo pur contaminato da tante citazioni che spaziano da Vampyr (la soggettiva che von Trier utilizza durante la cerimonia funebre per mostrare i genitori straziati dal dolore, soggettiva che simula il punto di vista di qualcuno che si trova all’interno funebre, è simile a quella del film di Dreyer) a Rosemary’s Baby di Polansky (qual è la vera natura del figlio della coppia?), conserva un’originale e ben strutturata coesione drammatica capace di bastare a se stessa visto che alla fine tutto ha luogo tra una coppia e una triade animale altamente simbolica (un cerbiatto, un corvo, una volpe) ma soprattutto perché nulla, nonostante le apparenze, sembra messo lì solo e soltanto per cercare di épater le bourgeois (poi, come sempre, da che il mondo è il mondo e il cinema il cinema, chi vuole scandalizzarsi si scandalizzi…).

Finale apertamente suggestivo. Anche se lo sembra non lo è affatto, una boutade cioè, ma con Antichrist Lars von Trier è giunto lì dove Dario Argento con La Terza Madre non s’era neanche avvicinato…