Questo è il primo romanzo di Ippolito Edmondo Ferrario, giovane scrittore ventisettenne che, prima di Les lions de Calvi, si era occupato di storia e folklore ligure e di arte, scrivendo saggi e curando cataloghi di mostre.

Les lions de Calvi, i leoni di Calvi, sono Thierry Koonan e Paul Ruelland, due ex componenti della Legione Straniera francese che tornano in pista per la danza della morte e della vendetta: devono stanare i mafiosi che hanno ucciso accidentalmente la moglie a la figlia Thierry. Uomini valorosi e corpulenti, biondi rambo alfieri di giustizia, dispensatori di morale sgorgante pura e cristallina dai loro fucili e pistole supertecnologici come una pioggia di piombo miracolosa. Uomini che vivono solo nei videogiochi e nei film d’azione. Gente così nella realtà non esiste, se non altro perché, per fortuna, anche il peggiore farabutto di questo mondo ha la sua complessità psicologica.

I nostri eroi si muovono nella Capitale, che non è Roma, ma una città "nella quale potere politico e interessi mafiosi tessono oscure trame", una malcelata caricatura di Palermo, che pullula di crudeli mafiosi, famelici come bestie assetate di sangue, personaggi pure loro con lo spessore della carta velina.

Les lions de Calvi, per dirla coi motori, corre come una Porsche, strutturato secondo i ferrei schemi del thriller d’azione d’oltreoceano. Ma come le belle macchine sono spesso un sogno consolatorio, questo libro (e non è il solo) è una narcosi che mette a riposo il cervello e che copre la realtà quotidiana con l’ombra rassicurante di biondi giustizieri.

Esili i personaggi, buona la struttura, approssimativo e incerto lo stile narrativo: il fraseggio è scontato e, in alcuni casi, l’aggettivazione è persino prevedibile.

Un thriller senza grosse pretese.