Da qualche settimana alle diciotto timbrava il cartellino per prima, ansiosa di tornare a casa come non lo era mai stata prima. Lasciava l’ufficio con gioia e camminava a passo veloce verso la stazione della metropolitana. Si univa alla fiumana disordinata di gente che scendeva le scale e si fermava impaziente sul marciapiede ad aspettare il treno. Fino a qualche tempo prima, la sua vita pareva avere un senso soltanto nella piccola stanza dove lavorava. Fuori non c’era che solitudine e vuoto. Trent’anni di solitudine e di vuoto.

Fino a dieci anni era stata una bambina così felice…. E poi la sua vita era cambiata di colpo. Gli sforzi degli zii non erano serviti a colmare la perdita. Le bugie l’avevano ferita quanto la verità. E  il gelo che le era sceso nel corpo le aveva congelato anche l’anima. Quella sensazione di ghiaccio nella pancia non la lasciava mai. Aveva provato a dimenticare. Aveva provato a vivere. Era riuscita solo a sopravvivere. Ma adesso era diverso. Aveva fatto un grande passo avanti. Non sapeva neppure lei come era nata l’idea. Era capitato.

Un giorno era tornata a casa e aveva deciso di farlo. Di provare. In fondo poteva sempre tirarsi indietro. Aveva acceso il computer e, con le mani sudate, aveva premuto tutti i tasti necessari.  Aveva usato uno pseudonimo, naturalmente, e non aveva messo fotografie. Aveva cercato a lungo un’immagine che la rappresentasse e poi si era decisa per un disegno astratto, in bianco e nero, anonimo ed insignificante, proprio come desiderava essere percepita, anonima ed insignificante. Nel profilo aveva scritto poche notizie personali. In quelle scarne parole stava tutto il suo messaggio: donna, 39 anni, single. E voleva dire “sono sola, disperatamente sola e incapace di approcci diretti. Cercatemi, per favore”.

Sarà stato per quell’immagine misteriosa, per la scarsità delle notizie personali, in qualche modo stuzzicante,  o per caso, ma  cominciò a ricevere richieste di amicizia da molti uomini.

Scartò subito quelli troppo giovani o troppo diretti. Quelli che dalla foto sorridevano  sfacciatamente e quelli belli. Con alcuni scambiò frasi spiritose, fingendo una disinvoltura che non provava. Poi a poco a poco una selezione automatica fece allontanare i più, per stanchezza, o disinteresse. Un solo contatto sopravvisse.

Si indovinava dietro ad una fotografia leggermente sfocata un viso anonimo, segnato dalla timidezza. Le frasi che si erano scambiati fino a quel momento erano brevi, di circostanza, come trattenute. Frasi che non dicevano nulla, ma, proprio per questo erano tollerabili. La comunicazione aveva resistito  nel tempo.

Ogni giorno sempre alla stessa ora si trovavano a scambiare piccoli saluti in chat. Evidentemente tutti e due tornavano a casa dal lavoro dopo le diciotto. E per tutti e due era diventata un’abitudine buttare la giacca dove capitava, accendere il computer e cercarsi.

Dopo cena poi si mandavano qualche “messaggio privato” un po’ più lungo per raccontarsi come avevano passato la giornata. Si scambiavano consigli su cosa leggere. Cosa guardare in televisione. A nessuno dei due piacevano i “reality”. Guardavano volentieri vecchi film.

Alla fine doveva capitare. Sapevano di abitare nella stessa città. Da giorni sentivano il bisogno di dare una consistenza alle parole. Dare un volto alle sensazioni. Vedere con gli occhi il viso di quella persona che ogni giorno entrava nella vita dell’altro sotto forma di caratteri su di uno schermo. Il contatto virtuale non era più sufficiente. In ambedue nacque il desiderio di avere sotto le dita non i quadratini di plastica della tastiera, ma una mano da sfiorare.  Ascoltare il suono della voce dell’altro dire le stesse cose che ogni giorno venivano scritte e lette.

Chi dei due avrebbe avuto per primo il coraggio di uscire allo scoperto e rischiare,  lanciando l’invito ad incontrarsi?

Pensò che toccasse a lui il primo passo. Pensò che fosse compito suo, in quanto uomo, fare la proposta di vedersi. Pensò a lungo quale fosse il giorno giusto, il posto adatto, l’ora più opportuna. Poi decise che l’ invito a vedere un film, un sabato pomeriggio, sarebbe stata l’ occasione giusta per un incontro non troppo impegnativo e confidenziale.

Si sedette al computer per scrivere il messaggio e, come sempre quando era emozionato, passò e ripassò  la mano sulla coscia offesa, mentre cercava le parole. Quando stava seduto a lungo il dolore lo colpiva all’improvviso e la stessa cosa capitava quando camminava troppo velocemente. Ora non avvertiva alcun fastidio, ma il massaggio ossessivo alla gamba era diventato un gesto automatico, quasi un tic, funzionale ad allentare la tensione.

Il sasso era stato lanciato e non restava che aspettare l’onda di ritorno.

Lasciò aperto il collegamento e si sedette sulla poltrona vicino al computer. Non vide il segnale che lo avvisava di un messaggio in arrivo. Senza volere si era appisolato ed era scivolato nel solito incubo.

Nel sogno un uomo esce di casa. Varca il portone. Esplodono davanti a lui due colpi d’arma da fuoco. Contemporaneamente un ragazzo compare  alle sue spalle. E’ suo figlio che sta uscendo. Tutto si svolge nel sogno come al rallentatore. Il proiettile attraversa l’aria. Sembra non arrivare mai. Infine colpisce l’uomo ad una gamba. Il secondo colpisce il ragazzo. Ambedue cadendo  si muovono con le movenze  lente e scompose  di due marionette, finendo a terra sul selciato. Un lago di sangue si allarga lentamente intorno alle gambe dei due, mentre le loro urla si levano, strazianti, in un crescendo insopportabile.

Su quelle urla  laceranti si interrompeva sempre l’incubo e lui si svegliava sudato ed atterrito, senza il sollievo di sapere che era solo un brutto sogno.

Il giorno dopo, in un volantino delirante, le BR avevano rivendicato l’attentato. Suo padre era stato gambizzato in quanto nemico del popolo.

Aveva studiato la dinamica dell’agguato e scoperto con sgomento tutto quello che c’era da sapere sul “modus operandi” dei terroristi. Sicuramente l’azzoppamento, perché così era chiamato, era stato disturbato dalla sua uscita imprevista dal portone.

Ogni mattina usciva mezzora dopo suo padre, ma quel giorno aveva un appuntamento. Una ragazzina che gli piaceva aveva finalmente accettato di farsi accompagnare a scuola. Stava andando ad incontrarla. Il “commando” non poteva saperlo. Come usavano fare, avevano studiato accuratamente le abitudini di suo padre e sapevano esattamente dove e quando sorprenderlo da solo. Non era politica delle bande armate colpire persone che si trovassero casualmente presenti accanto al bersaglio designato, eccetto i membri di una eventuale scorta. Non certo per buon cuore, ma perché non ci fossero dubbi sull’obiettivo dell’azione. Nel caso la vittima fosse stata in compagnia di altri l’agguato veniva rinviato. Il fatto che lui fosse comparso all’improvviso alle spalle del padre aveva evidentemente spiazzato il tiratore. Il secondo colpo era stato deviato da un impercettibile scarto del braccio, andando a colpire il ragazzo. I proiettili erano destinati ambedue a suo padre. La tecnica d’azione voleva infatti che i primi due colpi venissero sparati agli arti inferiori fronteggiando la vittima, allo scopo di farla cadere. Quando questa si trovava a terra il brigatista incaricato dell’operazione le si affiancava e, da questa posizione, sparava altri cinque o sei colpi per fracassare le ossa delle gambe, ed evitare di colpire punti vitali. Era richiesta infatti una fedeltà assoluta alla consegna: si uccideva solo se l’ordine era di uccidere. Nel caso in cui l’ordine era di azzoppare si aveva cura di fare “solo” il maggior danno possibile. Nonostante le urla disperate di dolore delle vittime. I brigatisti erano molto professionali in questo.

Nel caso di suo padre il primo proiettile aveva reciso l’arteria femorale provocando un’emorragia irrefrenabile a cui i successivi sei colpi non avevano certo giovato. Un secondo imprevisto che aveva disturbato il buon esito dell’agguato. L’uomo era morto prima dell’arrivo dell’ambulanza.

Non aveva mai potuto perdonarsi di non aver saputo tamponare con la mano quello zampillo rosso ed intermittente. Anche se i medici gli avevano spiegato che era sotto shock e in quei casi si viene colti da una sorta di paralisi, si sentiva in qualche modo responsabile. Lui se l’era cavata con molto dolore, una leggera zoppia e una cicatrice non molto grande nella gamba. Una molto più estesa nell’anima.

Aveva visto due ombre salire su di una macchina e andarsene senza fretta. Il secondo brigatista era presente come rimpiazzo nel caso il primo avesse dei problemi con l’arma. Non ce n’erano stati. Era sicuro che a sparare fosse stata una donna bionda. Le forze dell’ordine gli avevano spiegato che i brigatisti usavano sempre travestimenti, baffi finti e parrucche e dovevano essere almeno in quattro, due “regolari” e due “irregolari”, uno dei quali armato di mitraglietta con il compito di presidiare la strada, più gli autisti e due macchine.

Per anni si era chiesto il perchè di quella esecuzione. Si era adoperato per seguire tutti i comunicati, le azioni, i processi dei terroristi per cercare di capire perché proprio suo padre, un semplice caporeparto, poco più di un operaio, ligio al suo dovere, onesto e corretto, per cercare di penetrare quei discorsi oscuri e contorti e scorgervi una logica, che desse un senso alle loro azioni. Non gli interessava perdonare. Voleva solo capire.

Se i colpevoli fossero stati individuati forse il processo di comprensione sarebbe stato più facile, ma quell’esecuzione non fu mai attribuita a nessuno degli arrestati. La donna bionda che aveva sparato restò impressa nella mente del ragazzo, dell’uomo, e cominciò a popolare i suoi incubi. Quando tornò a casa dall’ospedale per mesi camminò rasente i muri, atterrito da ogni macchina che lo affiancava. Aveva l’impressione che sarebbero tornati per finire il lavoro che avevano cominciato. Ignorava che la logica degli attentatori seguiva binari propri, del tutto incomprensibili per la gente comune. Di lui non si sarebbero più occupati. Ma quello che avevano già fatto nei suoi confronti era stato sufficiente per causargli danni irreparabili. La ferita alla gamba si era rimarginata. Non così quella ben più grave alla sua personalità. Attacchi di panico, si alternavano a periodi di depressione. La difficoltà di concentrazione unita ad una timidezza patologica lo costrinse a interrompere gli studi dopo la maturità. Lui che era sempre stato uno studente capace ed intelligente non poté far altro che trovarsi un lavoro modesto, appartato, tradendo la fiducia del padre che aveva visto nella sua laurea la possibilità del suo riscatto sociale. Anche per questo si sentiva in colpa nei confronti del padre. Come se non bastasse, la visione della fantomatica donna bionda, si frapponeva sempre tra lui e qualsiasi figura femminile, impedendogli di fatto, qualunque contatto con l’altro sesso. Covava un rancore profondo e cattivo, un grumo di odio, una diffidenza e un fastidio per i contatti umani che i vari tentativi di comprendere la logica della strategia della tensione, non avevano fatto che aumentare e che si estendeva assurdamente a tutto il genere umano.

Nella sua mente aveva rivisto centinaia di volte la scena della sparatoria e ripercorso la sua vita senza scopo con la disperazione di non trovare una via d’uscita. Poi improvvisamente era arrivata la consapevolezza che non poteva continuare così. Doveva provare a dare un senso alla sua vita. Ultimamente aveva letto gli scritti di altri figli di vittime del terrorismo. Alcuni di loro, nonostante il dolore, erano riusciti a costruirsi una vita accettabile. Forse poteva farcela anche lui. Doveva farcela.

Era stata una felice intuizione quella di iscriversi a FB. Poteva comunicare evitando il contatto fisico. Conoscere altre persone senza mettersi in gioco subito, protetto dietro la tranquillizzante cortina di uno schermo. Non era stato facile superare la diffidenza iniziale, ma dopo diversi contatti andati male, si era sentito bene con la ragazza. Intuiva in lei il suo stesso riserbo. Malizia e sfacciataggine, o peggio invadenza e indiscrezione che aveva trovato in altri contatti e che l’avevano fatto desistere immediatamente, erano assenti in lei e la cosa l’aveva tranquillizzato. Sentiva che non era impaziente e gradiva un approccio graduale, prudente, e discreto. L’unico che lui si sentiva di affrontare.

Si accorse che un messaggio era in attesa di essere letto: il suo invito era stato accettato.

Il giorno dell’appuntamento tutto fu più facile di quello che si erano aspettati. Lui sperava che non fosse bionda. In quel caso aveva pronta una via di fuga. Lei sperava che non avesse domande da farle. In quel caso non l’avrebbe più rivisto. I capelli della donna, appena lavati erano scuri e lucidi. Davanti alla multisala decisero di comune accordo di vedere un film a cartoni animati. Risero di gusto per tutto il tempo e lui non fece domande. Si lasciarono all’uscita del cinema con la promessa di rivedersi. Lei non si era neppure accorta del suo problema alla gamba. Lui non aveva sentito il bisogno di strofinare compulsivamente la vecchia cicatrice.

Nei mesi seguenti si videro spesso, senza spingere il loro rapporto più in là del tenersi per mano. Giorno per giorno qualcosa dentro di loro si andava sciogliendo. Sentivano crescere dentro un nuovo calore e una fiducia l’uno verso l’altro che si faceva largo spingendo fuori timori e paure. Guardandosi si riconoscevano nell’altro. Lei trovava nel suo difetto fisico una sorta di rassicurazione, quasi che l’imperfezione fisica potesse renderlo più incline ad accettarla. Lui era contento che lei non fosse bella, ma avesse il quieto aspetto di una donna qualsiasi e una voce sommessa e musicale. Spesso passeggiavano senza parlare, lasciando che il silenzio li avvolgesse e li accomunasse in una sorta di complicità, quella che può fare a meno delle parole.

Tuttavia a poco a poco avvertivano che il loro lato oscuro non si era placato. Dopo essersi momentaneamente assopito, si andava agitando, mandava segnali dal suo nascondiglio ed esigeva la loro attenzione. Voleva emergere, uscire allo scoperto. Solo così una volta messo a nudo davanti all’altro, sarebbe stato esorcizzato, disarmato per sempre, accettato come percorso normale, vissuto come un qualsiasi ricordo drammatico, e superato.

Lui fu il primo a cedere alla pressione e un pomeriggio di inizo primavera, mentre erano seduti ad un tavolino all’aperto in un piccolo giardino, cominciò a parlare. Come un fiume in piena che rompe la diga le parole ruppero il silenzio di anni, sgorgarono fuori violente, irrefrenabili, prepotenti. Disse il terrore degli spari, l’ululato delle sirene, l’orrore della morte, la solitudine sua e della madre, l’abbandono della scuola, l’inutile ricerca della verità. Parlò della donna bionda e della sua incapacità di accettare, di capire. Mise a nudo la sua ferita, quella della gamba e quella dell’anima.

Avvertì un movimento alla sua sinstra. Alzò gli occhi e fece in tempo a vedere la schiena della donna che si allontanava correndo. Guardò stupito il bicchiere pieno e pensò insensatamente che se n’era andata senza neppure toccare l’aranciata che aveva davanti.

Lei corse a casa e si buttò sul letto. Dormì tutto il pomeriggio e la sera e tutta la notte. Proprio come faceva da bambina, quando l’angoscia la prendeva e si rifugiava nel sonno per non sentire le assurde spiegazioni degli zii.

Dormì senza sognare, di un sonno pesante simile ad un’anestesia, ad una catalessi isterica, ad un viaggio senza ritorno. Ritornò tuttavia allo stato di veglia la mattina successiva, e per qualche secondo non ricordò più quello che era successo. Sedette sul letto e guardò la sveglia per capire che ora fosse. Forse era ora di andare a lavorare? Improvvisamente ricordò. Il destino si prendeva gioco ancora una volta di lei.

Telefonò in ufficio e chiese una settimana di ferie farfugliando di improbabili impegni familiari. Non se la sentiva proprio di andare al lavoro. Aveva bisogno di pensare, anzi di non pensare. Di scoprire come avrebbe fatto a tirare avanti con questo altro colpo basso che la vita le stava tirando.

Quante probabilità c’erano che potesse succedere un fatto simile? Una su un milione? E tuttavia era successo a lei. Pianse pensando a sé stessa. Passò in rassegna tutte le sfumature del suo dolore. Si commiserò, provò rabbia verso i suoi genitori le cui azioni ancora una volta condizionavano la sua vita. Pianse per gli zii, che erano morti senza la consolazione di vederla serena e finalmente pacificata. Si disperò per quel ghiaccio che si era sciolto, con tanta fatica e che ora stava velocemente riguadagnando le posizioni perdute. Provò angoscia per quel poco di amore, sì di amore, che era andato crescendo e già moriva.

Passò due giorni senza quasi mangiare, seduta accanto al computer spento. Senza avere il coraggio di accenderlo.

Il terzo giorno senza riflettere, con un gesto del tutto impulsivo lo accese.

La casella della posta era piena di suoi messaggi.

“ Che cosa è successo’” chiedeva “perché te ne sei andata così? Ti prego rispondi. Stupidamente non ho neppure il tuo numero di telefono. Ci siamo sempre contattati solo attraverso il PC. Mi sono reso conto di non sapere neppure il tuo cognome!”

“Come faccio a raggiungerti? ti prego rispondi. Mi sono accorto di quanto sei importante. Qualunque cosa sia successa, parliamone”

“Perché non rispondi ai miei messaggi?” “Ti prego!”

L’ennesima lacrima rotolò giù dalle guance fino a raggiungere la tastiera. Quel periodo di frequentazione con lui non era passato senza lasciare traccia. Per la prima volta provò pena per un altro essere umano. Stava uscendo dal cupo e masochistico dolore rivolto unicamente verso sé stessa in cui si era avvoltolata per tutta la vita, per avvolgere in un abbraccio un'altra persona. E questa sensazione la portò così lontano che si estese fino a tutte le vittime, lei che aveva sempre ciecamente pensato di essere l’unica e la sola vittima. Provava nuovamente la sensazione che il ghiaccio si stesse sciogliendo. Capì quanta pena doveva aver provato lui che le aveva aperto il suo cuore e aveva ricevuto come unica risposta il suo abbandono, la sua fuga incomprensibile e precipitosa.

Forse doveva provare. Doveva dargli la possibilità di scegliere. Quanto meno quella di sapere. Questo glielo doveva.

Cominciò a scrivere il messaggio.

“Per prima cosa voglio che tu sappia che non hai nessuna colpa per quello che è successo l’altro giorno. Se mi sono comportata in quel modo è solo per un problema che è mio e solo mio.

La seconda cosa è che partecipo con tutto il cuore alla tua pena.

Come tu ti sei aperto a me, e io so quanto ti può essere costato, è giusto che tu sappia la mia verità. A qualunque costo. Solo dopo capirai.

E dunque la terza cosa che ti voglio raccontare è la mia storia.

Nei primi dieci anni nella mia vita non è successo niente. Niente di diverso da quello che succede a tutte le bambine. Almeno così credevo. Una notte però sono stata svegliata dal rumore della porta di casa che veniva abbattuta e i miei genitori sono stati portati via. Io non mi rendevo bene conto di quello che stava succedendo. Gli zii mi hanno accompagnato a casa loro, così com’ero, in pigiama, senza poter prendere neppure un vestito dall’armadio, un giocattolo dalla mia camera. La porta di casa è stata sigillata. Non sto a dirti la disperazione della perdita, lo stupore, tornando a scuola, di scoprire che i compagni non mi guardavano in faccia e, la maestra che aveva allungato una mano, come per una carezza, l’aveva ritirata, senza toccarmi. Per anni gli zii mi hanno nascosto la verità come hanno potuto. Forse anch’io preferivo non sapere. Poi un giorno la verità con tutto il suo dramma mi è stata sbattuta in faccia. Sul giornale c’era la fotografia dei miei genitori. Erano dietro le sbarre di una gabbia, in un tribunale dove erano processati per una serie di imputazioni lunga più di quanto possa ricordare. Quello che mi fu immediatamente chiaro è che avevano fatto parte di quelle bande armate che avevano seminato il terrore nella mia città, azzoppando, uccidendo, bruciando macchine, inscenando rapimenti, rapine e furti di armi da fuoco, in nome di una lotta armata al servizio del proletariato. In poche parole erano dei brigatisti. Il mondo intero mi stava cadendo addosso. Ho provato tutte le sensazioni più sconvolgenti che si possano immaginare. Non serviva chiedere agli zii: non avevano risposte per me. Non mi importava sapere quali motivazioni politiche li avessero spinti a quella scelta, volevo solo sapere perché l’avevano fatta MALGRADO ME!. Perché non si erano curati del mio destino, sapendo che potevano sparire dalla mia vita, come è poi successo, come se nulla fosse. Io venivo dopo, non contavo niente rispetto al loro obbiettivo principale. Così oltre al distacco ho vissuto la pena dell’abbandono.

Io non so più nulla di loro. Non ho più voluto sapere nulla. Non ho chiesto se sono stati condannati, se sono ancora in galera o dove sono finiti. Semplicemente li ho abbandonati, definitivamente, come loro, con la loro scelta, hanno abbandonato me. Mi sono chiusa nel mio risentimento. Mi sono costruita una bella scorza dura e ho tentato di vivere nel mio isolamento, senza guardare niente intorno a me. Senza amare niente e nessuno intorno a me. Poi un giorno non ce l’ho più fatta. E il resto lo sai. E’ andato tutto bene fino a quando tu mi hai raccontato la tua storia.

Tutto il tuo dolore mi è arrivato addosso. Tutto il dolore delle loro vittime e di tutte le vittime del terrorismo mi è caduto addosso. Tutto quello che non avevo mai voluto sapere mi ha travolto. E ho dovuto per la seconda volta aprire gli occhi. La prima volta era stato per vedere il mio dolore, la seconda per vedere il dolore degli altri.

Come posso avvicinarmi a te, io che sono figlia dei carnefici, a te che sei figlio della vittima?”

Click

Passò un lunghissimo giorno, fatto di lacrime e pena, e le arrivò un breve messaggio, fatto di lacrime e speranza.

“Non so ancora cosa ne sarà di noi. So che siamo due vittime.

Non chiedermi come faremo. Non lo so.

So che dobbiamo fare in modo che quegli anni di piombo non pesino in eterno su di noi. Dovremo essere capaci di scrivere la parola fine.”