Bologna, 23 gennaio 1977

Le lancette affusolate dell’orologio sopra l’entrata principale segnavano le 09 e 59 minuti. Lame di luce piovevano dal lucernario sul livido pavimento di marmo scuro, sopra il quale si erano radunate le code in prossimità degli sportelli. La sala centrale della Banca San Paolo di via Marconi era gremita di clienti e l’aria già satura del vociare nervoso del lunedì mattina.

Sulla serie di sedie di ferro vicino all’entrata dei vecchi fumavano indolentemente, aspettando di ritirare la pensione.

A pochi metri da loro, vicino a una colonnina informativa, giaceva una valigetta di cuoio marrone.

Una studentessa dai jeans aderenti e una fascetta stretta sulla fronte la guardò per un attimo, e si chiese se invecchiare volesse dire portare sempre con sé quelle valigie orrende e inutili.

Un rappresentante di mangimi la osservò per qualche secondo e considerò che poteva essere abbastanza robusta per lui. Si chiese se qualcuno l’avesse dimenticata lì. 

Un bambino in braccio alla madre la intravide appena, mentre seguiva la parabola di una piuma che si librava nell’aria. E per lui non fu altro che una forma in mezzo a un mare di altre forme.

Quando, alle ore 10 e 00 le lancette dell’orologio si sovrapposero, ogni pensiero che vibrava in quella sala fu interrotto da un boato.

Un chiarore abbacinante si irradiò fino al soffitto. I vetri degli sportelli crepitarono uno dopo l’altro ed esplosero in serie, mentre il legno del banco veniva avvolto da lingue di fuoco. L’onda d’urto spazzò la sala dilaniando ogni cosa si trovasse in quel raggio, fino a crepare il muro esterno di cemento armato.

Trenta minuti dopo il bilancio era di 14 morti e 29 feriti.

 1

“E così lei si definisce anarchico?”

L’uomo si stirò brevemente sullo schienale della poltrona, poi tornò a socchiudere gli occhi scuri, forse per via della lampadina che riverberava impietosamente sui muri grigi.

“La polizia mi ha già fatto questa domanda almeno una dozzina di volte.”

“Purtroppo ce ne dimentichiamo sempre. Mi risponda”.

“Sì, sono un anarchico”.

“E che cos’è l’anarchia?”

“E’ la libertà dell’individuo da leggi e regole precostituite e imposte da altri”.

“E dallo stato?”

Una breve pausa. “Sì, e dallo stato”.

Michelangelo Zardo si sfiorò i baffi spioventi con la punta delle dita e soffiò una boccata di fumo verso l’uomo al di là del tavolo.

“Mi corregga se sbaglio”, proseguì Zardo, “l’anarchia contempla anche l’uso della violenza allo scopo di raggiungere la libertà?”

Dietro le lenti cerchiate di tartaruga, gli occhi dell’uomo ressero il suo sguardo. “C’è chi ne ha fatto uso. Io, personalmente, no”

“E perché?”

“Perché non è mia intenzione ledere la libertà degli altri”.

“Feliciano, l’ora del Carosello è già passata, non dica stupidaggini”.

L’anarchico rimase qualche secondo in silenzio, poi disse: “Credo sia un concetto piuttosto difficile da comprendere per la polizia.”

“Per questo le conviene tenere un profilo basso. Mi conferma che lei è il presidente del circolo culturale  che si occupa di stampare e distribuire il giornale anarchico denominato Eliogabalo?”

“Confermo”.

“Dov’era quando è esplosa la bomba?”

“A casa, nel mio letto. Stavo dormendo”.

“A che ora?” chiese.

“Circa verso le 10”.

“Si alza sempre così presto la mattina?”

“Avevo fatto il turno di notte. E’ un reato anche questo?”

“Forse. Come faceva a sapere che erano le 10?”

“Cosa?”

“La bomba è scoppiata esattamente a quell’ora, lei come faceva a saperlo?”

Feliciano lo guardò. “Mi prende per imbecille. Abito in via Riva di Reno, vuole che non abbia sentito l’esplosione?”

“Era solo?” chiese Zardo.

“A casa?”

“No, sulla luna. Risponda.”

“Sì, ero solo a casa”.

La questura di Bologna era in stato d’assedio il giorno dell’esplosione della bomba alla San Paolo. Il bilancio accertato era di  21 morti e 67 feriti. I telefoni squillavano in continuazione e gli uffici, le celle e perfino gli antibagni erano sovraccarichi per gli interrogatori.

Zardo scansò un collega che correva nel corridoio con un plico di carte in mano ed entrò nel suo ufficio. Si sedette sulla poltrona a rotelle dietro la scrivania ingombra di carte, faldoni aperti sporchi di cenere. Appoggiò i gomiti alla scrivania, si massaggiò le tempie, prima di ritrovarsi a fissare i tasti della Olivetti di metallo verde che aveva davanti. Poi si accorse che qualcuno stava bussando alla porta. La stanchezza gioca brutti scherzi, pensò.

“Avanti”.

Era Guarnieri, della scientifica. Allampanato, sui trentacinque, capelli neri rasati quasi a zero, era legato a Zardo da una vecchia amicizia.

“Caffè?” chiese.   

“No, grazie. Ne ho bevuti già troppi.”

“Chi hai sotto mano?”

“Eugenio Feliciano, un anarchico.”

“Ti ha dato qualche soddisfazione?”

Zardo scosse la testa. “L’ho convocato telefonicamente per accertamenti, ma è un pesce piccolo. Ne abbiamo qui altre decine come lui, oggi. Rossi, neri, anarchici, stiamo cercando un ago in un pagliaio.”

Guarnieri annuì, sospirando.

“Novità dalla scientifica?” chiese Zardo.

“Non molto, eccetto il fatto che abbiamo appurato che i residuati di polvere pirica della bomba sono di provenienza asiatica.”

“Ottimo, non ci resta che passare al setaccio qualche milione di chilometri quadrati di risaie e troveremo il colpevole.”

“Credo che quel figlio di troia di Rodolfi sia capace di questo ed altro” rispose Guarnieri. A proposito, a che punto è?”

“Si sta occupando personalmente di molti interrogatori. Credo che adesso sia passato a qualche testa calda dei NAR.”

Di Rodolfi, in giro si dicevano molte cose. Di sicuro, da quando era stato nominato PM, si era contraddistinto per la velocità delle  operazioni e risultati raggiunti, e la sua ascesa all’interno della  magistratura era stata altrettanto fulminea. E Zardo sapeva che questi risultati derivavano in parte dal fatto che il PM appoggiava di buon grado i metodi persuasione violenti della polizia.

“Sono i tempi che li richiedono”, lo aveva sentito dire più di una volta.

Zardo scese nella cella dove era rinchiuso Feliciano. Lo sorprese di spalle, a braccia conserte dietro la schiena, a guardare le luci della città fuori dalla finestrella.

Lui si voltò. Il viso era piuttosto provato. “Buonasera, commissario. Ancora al lavoro?”

Zardo annuì. “E’ stato all’estero negli ultimi due anni?”

“Non sono un terrorista internazionale”.

“Può non rispondermi se vuole. Mi risparmi la verifica del passaporto, o sarò costretto a tenerla qui a oltranza.”

Feliciano sospirò. “Sono stato in Francia, la scorsa estate.”

“L’anno prima?”

“In Cambogia”.

 “Posso sapere a fare cosa?”

“Una vacanza”.

“Durata della permanenza?”

“Due mesi”.

 “Strano posto la Cambogia, per andare in vacanza”.

“Dipende dai punti di vista”.

“Già, dipende dai punti di vista”.

Zardo si allontanò dalla cella senza dire nulla e si incamminò per il corridoio. Un anello si era stretto nella griglia delle indagini. Poteva non significare niente, ma lui stava seguendo una pista, e questo era il suo lavoro. Risalì in ufficio al piano superiore, indossò l’impermeabile, lasciò una comunicazione da recapitare al PM e uscì dalla questura.

Per quel giorno ne aveva abbastanza.

 

“Dimmi che non siamo ancora all’inferno, commissario”.

Zardo mandò giù un sorso di Averna, contemplando l’immagine di una donna che sorrideva velandosi gli occhi con un’arancia, poco sopra la fila di bottiglie dietro al banco.

“Forse ci siamo solo molto vicini” rispose al barista. “Basta un’altra bomba”.  

Da un Juke Box in un angolo del bar Garden, Mina cantava La pioggia di Marzo.  Sui divanetti dietro un tavolino, una coppia ci stava dando di lingua a lume di candela. A qualche metro di distanza, un uomo sorseggiava una birra guardava due pugili danzare sullo schermo del televisore. 

“Michelangelo Zardo?”

Una voce femminile che sembrava appartenere a una calda ombra alle sue spalle. Si voltò. Una donna dai capelli corvini, un paio di occhi verdi da felino e gli angoli delle labbra disegnate lievemente verso il basso. Sui trenta, a occhio e croce. Gran bella femmina, senza ombra di dubbio.

“Ci conosciamo?” chiese il poliziotto.

Lei scosse la tesa. I loro sguardi si agganciarono l’uno nell’altro e rimasero sospesi a mezz’aria, il tempo sufficiente perché entrambi si rendessero conto che nessuno dei due stava parlando da un tempo forse sconveniente.

“Mi chiamo Cristina Rovaldi. Sono la compagna di Eugenio Feliciano” disse.

Zardo si accorse che, come in un riflesso condizionato, la sua mano si era avvicinata alla pistola.

“Volevo solo parlarle” aggiunse la donna.

Lui accennò allo sgabello vicino a lui. Lei si sedette e depose la borsetta sul banco.

“Beve qualcosa?”

“Un Martini, grazie. E’ stato lei ha telefonare a Eugenio dalla questura?”

Zardo non rispose. “Come mi ha trovato?”

“Non è stato difficile, commissario. La sua foto è sui giornali almeno ogni due settimane.”

Era piuttosto logico, ma il fatto che gli anarchici tenessero d’occhio la sua fotografia sui giornali non lo entusiasmò.

“L’avete interrogato?” chiese lei.

“Non sono tenuto a darle informazioni”.

Cristina afferrò il bicchiere tintinnante di Martini. “Posso capire” rispose.

“Che vuole da me?” chiese Zardo.

“Dirle che Eugenio  è innocente”.

Zardo sbottò in una risata sommessa. “Se me lo dice lei”.

“Sono passata io a prenderlo in macchina, alle sei di mattina, una volta finito il turno alla catena di montaggio della Ariston, poi siamo stati a casa sua. Elio era con me quando la bomba è esplosa. Stavamo dormendo”.

Se  fosse stata veramente la donna di Feliciano, lui l’avrebbe giù usata come alibi al momento dell’interrogatorio. Guardò borsetta che lei aveva abbandonato sul banco. Un secondo dopo le serrò la gola con un mano. “Non prendermi per il culo” ringhiò Zardo. “Chi cazzo sei?”

Gli occhi verdi di lei si dilatarono di paura. Il barista rimase immobile dietro al banco. L’uomo in fondo alla sala distolse lo sguardo dalla box e li guardò.

Zardo la mantenne ferma, mentre con l’altra mano, afferrò la borsetta rovesciandola sul banco. Fuoriuscirono portafogli, trucchi, cartacce, un mazzo di chiavi e altri effetti personali, nessuna arma.

“Te l’ho detto” mormorò lei.

“Dimostramelo”.

“Ha telefonato verso le diciassette” sibilò Cristina. “Eugenio le ha chiesto per quale motivo voi poliziotti vi ostinate a perseguitare gli anarchici, dopodiché le ha risposto che alla Ariston glielo spiegavate voi perché non veniva a lavorare…”

La versione coincideva. Zardo la tenne stretta ancora per qualche secondo. Sentì il contatto dei suoi seni contro di lui. Poi il bicchiere di Martini le scivolò dalle mani e si ruppe sul pavimento.

Zardo mollò la presa. Lei si portò le mani al collo mentre le lacrime presero a rigarle il volto.  L’uomo in fondo alla sala tornò a guardare la box.

“Eugenio non ve l’ha detto perché ogni volta che scoppia una bomba, c’è un attentato o muore qualcuno la polizia sembra non abbia di meglio da fare che interrogare gli anarchici”.

“E con questo?”.

“Lui aveva paura”.

“Di chi?”

“Di voi. Lo trova così strano? Non ha fatto il mio nome perché temeva che la polizia potesse maltrattare anche me durante gli interrogatori. Come avete sempre fatto con lui. Come lei ha appena fatto con me, sbirro paranoico…”

Zardo sentì lo stomaco rivoltarglisi dentro.  Poi la donna si voltò sui tacchi, raggiunse la porta e uscì. Zardo le andò dietro. Uscì lasciandosi graffiare dall’aria rarefatta della notte. Lei era diversi passi più avanti.

Zardo la raggiunse e la bloccò per il braccio. E decise di giocare a carte scoperte. “Lei non risulta nelle nostre liste. E non fa parte del suo circolo anarchico, perché?”

Cristina lo guardò. Nel riflesso della luce del lampione, le lacrime le disegnavano striature brillanti agli angoli degli occhi. “Perché io non sono un’anarchica”.

“Cosa?”

“Le sembra così strano che due persone possano stare insieme senza doversi schierare per la stessa ideologia?”

“Sì”.

“Sbaglia, ci si sa amare solo se si è in grado di non imporre le proprie regole agli altri”.

La tenne stretta ancora per qualche secondo. A lui parve un oceano di tempo. Si accorse in quel momento che avrebbe voluto trattenerla ancora con la scusa di qualche altra domanda, ma gli argomenti erano finiti.

Cristina si liberò dalla stretta, si voltò e riprese a camminare, lasciando per lui solo il rigido rumore dei suoi tacchi.

Le parole di Cristina Rovaldi gli danzarono a lungo nella mente, mentre guidava la Citroën DS seguendo l’anello alberato dei viali, poi si accorse di essere arrivato dalle parti di Porta Mascarella.

In quella stagione di sangue che sembrava non avere fine, l’aria vibrava di violenza. Nella strategia degli opposti estremismi, le ideologie erano diventati paraventi per celare una reciproca volontà di distruzione. Il clima di tensione costante che aveva vissuto negli ultimi anni in polizia gli era rimasto attaccato addosso. Era qualcosa che ti contagiava, che ti entrava dentro. Per lui, come per altri, la violenza era diventata una prassi.

Il pensiero che dopo gli accertamenti di rito, Feliciano, sarebbe stato rilasciato, placò la morsa del senso di colpa che gli stava attanagliando lo stomaco dopo aver parlato con Cristina.

Feliciano era un povero diavolo, il solo elemento del viaggio in Cambogia non era sufficiente per prolungare lo stato di fermo.

In ogni caso l’aveva sentito a pelle quando l’aveva interrogato:

Eugenio Feliciano era innocente.

2

“E’ stato Feliciano a mettere la bomba, l’hanno riconosciuto”.

Quelle parole lo raggiunsero come magli alle sette e trenta del mattino, appena entrato in questura.

“Non è possibile” mormorò.

Guarnieri lo fissò serio. “L’hanno visto entrare in banca con una valigetta, la mattina della strage”.

“Chi è il testimone?”

“Non lo so. E’ venuto ieri, verso le tre del mattino.”

“Dov’è ora, Feliciano?”

“Il PM lo sta interrogando in questo momento”.

“Cazzo...”

Zardo corse giù per le scale e raggiunse la cella di sicurezza. Bussò più volte, contro il metallo della porta blindata, mentre i colleghi di guardia lo fissavano scuri in volto.

Poco dopo, qualcuno da dentro aprì. Zardo entrò.

Vide Feliciano legato alla sedia. Il capo reclinato e un rivolo di sangue che fuoriusciva dalla bocca. Sicuramente era lì da diverse ore.

“Buongiorno, Zardo”.

Riconobbe la barba brizzolata e gli occhi grigi. Gianfranco Rodolfi era un uomo imponente, sopra l’uno e novanta. Nonostante indossasse un gessato elegante, le mani e la camicia bianca, maculate di goccioline rossastre, la dicevano lunga sul suo lavoro delle ultime ore.

A fianco a lui, sigaro smozzicato in bocca e volto tirato, il questore in persona, Antonio Sella.  

“Perché non mi avete chiamato?” chiese Zardo.

“Non c’è stato tempo. L’interrogatorio di ieri è stato più che sufficiente per circoscrivere le indagini e collegare Feliciano alla provenienza dell’esplosivo. Inoltre abbiamo un testimone oculare che l’ha visto entrare in banca alle 9, la mattina dell’attentato. Ha riconosciuto Feliciano dalle foto segnaletiche”.

“Lui ha cantato?” chiese Zardo. 

E’ solo questione di tempi” rispose Rodolfi, poi si voltò verso l’anarchico. “Giusto, Feliciano?”

L’uomo non rispose, emise un lamento, e cercò di riprendere fiato.

“A dire il vero devo dire che quest’anarchico quasi lo stimo”. Rodolfi gli si avvicinò e lo colpì con uno schiaffo. La testa di Feliciano si rovesciò all’indietro. “Nonostante l’evidenza sembra proprio che non voglia mollare”. Rodolfi picchiò il pugno sopra la carta della deposizione. “Firmami questa, lurido anarchico figlio di puttana. Lo sappiamo che l’hai messa tu quella cazzo di bomba. Firmala ed è finita.”

Feliciano scosse la testa. “Fottiti” disse con un filo di voce.

Rodolfi sorrise, poi affibbiò un manrovescio a Feliciano. L’anello d’oro del PM gli spaccò uno zigomo e un fiotto di sangue colò lungo la guancia dell’uomo. “Forse non hai ancora capito, schifoso anarchico invertito, che le regole esistono per tutti, anche per te. E siamo noi quelli che le facciamo, noi quelli che ti sogni di uccidere la notte, noi quelli che vogliono che questo mondo funzioni come un cazzo di orologio svizzero”.

“Rodolfi, si fermi” disse Zardo.

Il questore si voltò verso di lui. “Cosa?”

Rodolfi parve non sentirlo nemmeno. Afferrò lo schienale della sedia sulla quale era seduto Feliciano e la scaraventò all’indietro. Feliciano sbattè di schiena contro il pavimento, poi il Pm gli sferrò un calcio nelle costole. Dalla bocca di Feliciano uscì un  fiotto di sangue.

“Feliciano ha un alibi” disse Zardo alzando la voce.

“Stronzate” disse il PM. “Quest’uomo non ha nessun alibi”.  Prese il manganello dal tavolo e lo alzò a due mani, sopra Feliciano. 

Zardo sentì la rabbia salirgli dalle viscere. Scattò verso il PM, gli arrivò addosso e gli bloccò il polso. Glielo strinse fino a quando il manganello scivolò dalle mani di Rodolfi e cadde rintronando contro il pavimento.

“Zardo, ma che cazzo…”

“Ieri ho parlato con Cristina Rovaldi, la sua donna. Era con lui la mattina della strage…”

“No” urlò Feliciano dalla sedia.

Il Pm si divincolò dalla stretta e spinse Zardo contro il muro. Zardo reagì sferrando un destro al volto del PM rompendogli il naso. Il questore scattò in pedi in piedi e si buttò in mezzo per dividerli. Caddero a terra tutti e tre, a meno di due metri da Feliciano. Poco dopo, la porta si aprì, e le guardie carcerarie, attirate dal trambusto, entrarono e si videro costrette a sfoderare i manganelli e a chiamare i rinforzi.

Meno di cinque minuti dopo, la cella era stipata da una quindicina di poliziotti impegnati a sedare il tafferuglio.

 

3

Zardo si affacciò alla finestra del suo appartamento al quinto piano di un condominio in via Murri e tentò di distrarsi dal senso di straniamento che lo pervadeva seguendo il volo degli uccelli sopra gli alberi dei Giardini Margherita.

Dopo aver aggredito il PM, Zardo era stato destituito dal servizio per motivi disciplinari, e come se non bastasse, due giorni dopo, quasi ogni testata giornalistica nazionale riportava la notizia che un anarchico bolognese di 43 anni di nome Eugenio Feliciano aveva ammesso la sua responsabilità nella strage della San Paolo.

Quello che sui giornali non era stato scritto, era che probabilmente sotto la pressione degli interrogatori di Rodolfi, Feliciano avrebbe anche finito per dichiarare di essere responsabile dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima.

Riflettè sul fatto che ora si trovava ad avere dei punti in comune con l’anarchico. La prima era che sicuramente tutti e due in quel momento avrebbero voluto spaccare il muso a Rodolfi con un certo piacere. E la seconda era Cristina.

Fuori, uno stormo di uccelli neri virò in picchiata verso il basso. 

 

E le conseguenze non si fecero attendere. Con l’arresto di Feliciano, il vaso di Pandora si era irrimediabilmente rotto.

Gli stendardi con la A cerchiata sventolavano all’imbrunire. Il corteo urlante avanzò lungo via d’Indipendenza lasciandosi alle spalle file di macchine dai vetri infranti e cassonetti di rifiuti in fiamme. Indossavano caschi da motocicletta e brandivano spranghe e chiavi inglesi. Un gruppuscolo di  anarchici, prese delle sedie da un plateatico e infranse le vetrine di alcuni negozi sotto i portici. La porta della chiesa di San Pietro venne sfondata, alcuni banchi inzuppati di benzina e incendiati. Il gruppo di anarchici si sparpagliò all’incrocio con via Rizzoli, dove sotto le due torri trovarono ad aspettarli i manifestanti di Autonomia operaia, che in silenzio, tenevano le mani alzate con le tre dita puntate a simbolo della Walther P38. 

Via Rizzoli venne messa a ferro e fuoco per una ventina di minuti, poi ci fu un attimo di incertezza, forse di paura quando, dal fondo di via Ugo Bassi si delineò la folla di una nuova fazione. Un mormorio attraversò il gruppo di manifestanti.

Dall’altro lato, un cordone di polizia in tenuta anti-sommossa accelerò progressivamente il passo, fino a correre in rotta di collisione col corteo.

Un uomo che indossava un passamontagna, giacca di velluto e pantaloni scampanati si distaccò dal gruppo dei manifestanti. Si pose frontalmente alla polizia che si avvicinava progressivamente, estrasse una pistola e stese le braccia in posizione di tiro.

Poi, sotto la luce ribollente dei flash della stampa che lo illuminavano a giorno, tirò il grilletto ed esplose una raffica di colpi, uno dopo l’altro, svuotando il caricatore.

4

Cristina Rovaldi abitava in via Concordia 12, in zona San Donato. Viveva in una mansarda, al terzo piano di un condominio di mattoncini amaranto che aveva visto giorni migliori.

Zardo era riuscito a trovare il suo indirizzo dalla questura, in quel lasso di tempo che aveva preceduto la destituzione dal servizio, insieme a una manciata di informazioni sul metronotte che, alla fine del turno, aveva visto Feliciano entrare in banca quella mattina. E Cristina era l’unica persona in grado di testimoniare l’esatto contrario.

Zardo trovò il portone d’ingresso aperto e salì nel giroscale che odorava di minestra e di fumo.   Raggiunse l’uscio di legno e pigiò il tasto del campanello. Nessuno rispose. Appoggiò l’orecchio alla porta. La televisione era accesa. Cristina doveva essere in casa. Aspettò qualche minuto, poi fece un altro tentativo. Niente.

Bussò con forza, nessuno rispose. Zardo pregò che Cristina si fosse dimenticata la televisione accesa o che in quel momento si fosse unita al corteo. Si attaccò al campanello mentre sentiva crescere un senso di ansia.

Poi decise di agire. Sferrò una serie di calci alla porta fino a quando i cardini si schiodarono dal legno. Poi, con una robusta spallata, la porta saltò dal lato opposto a quello della serratura.  

Zardo discostò la porta dallo stipite ed entrò. Sulle pareti del corridoio stretto erano incorniciate una serie di riproduzioni di vecchie stampe francesi del varietà.  La porta della cucina era aperta. Alla televisione, Raffaella Carrà mostrava cosce e stivaletti dai gradini luminosi di un palcoscenico.

“Cristina…”

Non ottenne risposta. Giunse solo un frullare d’ali e un cinguettio da qualche angolo della casa. Spinse una porta dal vetro smerigliato. Rivelò uno scorcio su un minuscolo bagno dalla carta da parati dai cerchi arancione. Saponi, barattoli e medicinali ordinati vicino al lavandino e un phon color malva abbandonato su un comodino.  

Passò oltre e aprì un’altra porta. 

E la vide.

Sdraiata sul divano. A gambe aperte, ancora inguainate da un paio di calze grigio fumo lacerate lungo le cosce ricoperte d’ecchimosi. Il corpo ricoperto di lividi e il reggiseno gettato sulla lampada all’angolo del letto. Dal mento che sporgeva tra i capelli riversi sul viso, una mezzaluna di sangue scuro e rappreso.  

Un canarino si dimenava furioso, prigioniero nella gabbia immersa nell’aria di morte di cui era satura la camera.

Zardo soffocò un conato di nausea. Si voltò, corse fuori dalla camera lungo il corridoio. Entrò in cucina, incespicò contro una sedia, raggiunse l’acquaio e ci vomitò dentro accompagnato dallo scrosciare di applausi alla televisione.

 Verso mezzanotte, al banco di un bar dietro l’ippodromo, la nausea non lo aveva ancora lasciato. Le possibilità che l’omicidio di Cristina Rovaldi non fossero in qualche modo legate con l’arresto di  Feliciano era pari a quella di vedere Amanda Lear cantare nello Zecchino d’oro. Qualcuno aveva voluto chiudere le piste tra Feliciano e la sua compagna.

La porta era stata richiusa dall’esterno, ma la donna era stata stuprata selvaggiamente. Era stato un lavoro di gruppo, piuttosto grossolano. Errori che nessun poliziotto farebbe.

Quella faccenda era partita male fin dall’inizio e lui doveva ripartire da quel punto se voleva chiudere il cerchio.

E quell’inizio aveva il volto e il nome di Giuseppe Assirelli.

5

Giuseppe Assirelli non era ancora un nome sui giornali, ma lo era per la giustizia. E come supertestimone, era stato momentaneamente trasferito in un luogo protetto, per evitare che un’eventuale fuga di notizie potesse portare a una ritorsione di matrice anarchica. Il metronotte, era stato momentaneamente alloggiato in uno degli appartamenti di proprietà della polizia, in un lembo di terra sperduto a due passi dal mare, nella zona delle campagne di Comacchio.  

Zardo abbassò il finestrino e lasciò entrare un soffio d’aria carica di iodio. La luce ambrata del tramonto si stagliava sulle canne di bambù e sulla vegetazione ai margini della spiaggia deserta, dietro la quale aveva parcheggiato.

Zardo osservò Assirelli che in lontananza tornava dalla sua passeggiata solitaria, attraversava la strada sterrata e si dirigeva verso il suo appartamento in prestito. Camminava a testa bassa, immerso nei suoi pensieri. Forse, dopo aver verificato quale protezione la polizia era in grado di offrirgli, non era più tanto convinto che testimoniare fosse stata una buona scelta.

Lo seguì con lo sguardo fino a quando non uscì dal suo campo visivo, poi una foglia sospinta dalla brezza si appiccò al parabrezza. Zardo ne osservò le venature rossastre, contandole fino a quando fuori  si fece scuro.

Indossò un passamontagna nero e si guardò nello specchietto retrovisore. Gli occhi che vedeva non erano più i suoi. Quello che aveva davanti era l’immagine di tutto quello contro cui aveva sempre combattuto. Mise in moto, percorse un centinaio di metri e parcheggiò davanti a dei bidoni di latta adiacenti al perimetro di un residence. Scese, si infilò la borsa a tracolla,  montò sopra i bidoni e scavalcò la rete.

Scese nel giardino e avanzò, passando rasente al bordo di una piscina vuota, sul cui fondo aleggiava un velo d’acqua stagnante. Guardò il complesso di appartamenti vuoto, poi individuò i raggi orizzontali di un luce accesa dietro delle saracinesche abbassate. Prese la rampa di scale che conduceva al secondo piano e si fermò davanti all’appartamento dove soggiornava Assirelli.    

Rimase immobile per una buona mezz’ora, poi, udì il rumore di scarico del gabinetto, si piantò davanti alla porta. Sparò due colpi silenziati con la Beretta fuori ordinanza contro la serratura che saltò sprizzando scintille.

Zardo entrò, appena in tempo per incontrare lo sguardo incredulo di Assirelli che usciva dal bagno. Non fece tempo a capire. Zardo lo colpì prima alla bocca dello stomaco, poi sul capo con il calcio della pistola.

Il metronotte si accasciò sulla moquette della stanzetta. Zardo gli arrotolò la manica della camicia, e gli strinse un laccio emostatico intorno al braccio. Attese qualche secondo, ed estrasse una siringa dalla tasca interna della borsa, poi la piantò nella vena e pigiò il tampone fino in fondo.

Si appoggiò alla sponda del letto. E aspettò che il penthotal facesse effetto.

 

“Puoi sentirmi?”

L’uomo mugugnò qualcosa a labbra serrate. Zardo si inginocchiò a fianco al corpo dell’uomo. 

“Come ti senti?”

“Ho freddo, e ho voglia di scopare” disse l’uomo alzando le spalle.

“Bravo. Sei contento di stare al mare?”

“Un po’ sì, a Bologna avevo una paura fottuta”.

“Di che?”

“Che mi facessero fuori”.

“Chi voleva farti fuori?”

L’uomo fece una pausa e grugnì.

“Giuseppe, chi voleva farti fuori?” ripeté Zardo.

“Boh, quella gentaglia, gli anarchici magari, o quei i rossi del cazzo...”

“Gentaglia, eh?”

“Già”.

“Bravo soldatino, così si riga dritto”.

“Sissignore, si riga dritto”.

“Quando hai visto la prima volta Feliciano?”

L’uomo tacque per un po’. Sembrava stesse girovagando nel suo inconscio alla ricerca di risposte lasciate da qualche parte. A Zardo parve di vederlo arrancare in una landa arida e spazzata dal vento. “La settimana scorsa”.

“Dove?”

“In fotografia”.

“L’avevi già visto prima?”

Ancora una breve pausa. Poi Assirelli scosse la testa.

“Non ho sentito. Rispondimi se non vuoi che ti metta in castigo. Avevi già visto Feliciano, prima?”

“No, non l’avevo mai visto”.

“Però hai detto alle guardie che lo avevi visto mettere la bomba…”

“Era una bugia”.

“Lo sai che non sta bene dire le bugie…”

“Don Armando dice che ad ogni menzogna gli angeli piangono”.

“E perché l’hai fatto, allora?”

“Per aiutare un amico”.

 “Come si chiama il tuo amico?” 

“Si chiama Gianfranco Rodolfi”.

 Zardo si tolse il passamontagna e respirò a fondo. Poi si alzò, fece qualche passo nella stanza, afferrò l’abat jour sferica sopra la cassettiera e la scagliò contro il muro. Un sussulto attraversò il corpo disteso di Assirelli.

“Che ti ha offerto Rodolfi in cambio?”

“Se avessi superato la prova sarei entrato a far parte del cerchio”.

“Il cerchio?”

“Il cerchio dei potenti, il cerchio degli eletti”.

“Chi sono gli eletti?”

“Sono venuti per portare l’ordine. Presto inizierà una nuova era e loro saranno al comando del paese. Tutto è già stabilito.”

“Rodolfi è uno di loro?”

“Sì, lui è uno dei maestri”.

“Giuseppe, sono stati loro a mettere la bomba?”

“No” disse Assirelli. “La bomba è stata messa dai fratelli”.

“Chi sono i fratelli?”

“I miei fratelli di Ordine Nero”.

“E perché avete voluto dare la colpa proprio a Feliciano?”

“Perché lui aveva stampato un giornale dicendo i nomi e i cognomi di alcuni fratelli”.

“Sono stati loro a uccidere Cristina Rovaldi?”

Assirelli tacque per un po’, poi disse: “Non so chi sia” e scrollò le spalle.

Zardo sentì le tempie pulsare. Tirò fuori la pistola e la introdusse nella bocca di Assirelli. “Dimmi chi è stato”.

Assirelli, singhiozzò. “Non sono stato io”.

“Non dirmi le bugie, Giuseppe, o ti chiuderò in un armadio dove i vermi verranno a mangiarti il cuore…”

“Non lo so, i mandati vengono dagli eletti, ma in Ordine nero ci sono cellule indipendenti. Ognuno mantiene il segreto su ciò che fa.”

Caricò la Beretta nella bocca di Assirelli. “Figlio, mio dimmi chi è stato, o ti ucciderò per la tua disobbedienza”.

Assirelli continuò a piangere. “Non lo so”, urlò. “Papà, ti giuro che non  sono stato io”.

Zardo soffiò l’aria fuori dai polmoni e gli sfilò la canna della pistola dalla bocca. Poi lo colpì con un calcio nello stomaco. Assirelli emise un grido.

Zardo, spalancò la porta e corse fuori.

6

Gianfranco Rodolfi era tornato a casa tardi.

Salì la scalinata di marmo che portava al secondo piano della sua villa in collina, poco distante dal colle di San Luca.

Aprì la porta dello studio, chiuse gli occhi per assaporare meglio l’aria che sapeva di incenso e di legno antico, sperando che gli potesse dare un po’ di pace.

Quando accese la luce, trovò l ’occhio cieco di una Beretta puntato contro di lui.

“Buonasera, Gran Maestro”.

Zardo, piedi appoggiati sul tavolo di mogano dello studio, lo teneva sotto tiro. Rodolfi non si scompose troppo. “Buonasera, Zardo, da che parte è entrato?”

“Dal buco della serratura” rispose lui. “Carino qui” disse poi, buttando l’occhio qua e la sui pentacoli e gli altri simboli esoterici appesi alle pareti. “Mi dia la pistola”.

Rodolfi accennò un lieve sorriso che increspò la benda che gli teneva ancora coperto il naso. Appoggiò la pistola per terra e con un leggero calcio la spedì sotto il tavolo, poi si lasciò cadere sulla poltrona intessuta di losanghe dorate, a fianco dello specchio a muro. Il suo anello massonico brillò alla luce del lampadario di cristallo. “Ho sempre pensato che lei fosse un poliziotto in gamba”.

Zardo non si chinò a raccogliere la pistola, slittata fino a pochi centimetri dalla sedia e continuò a tenerlo sotto tiro. “Non abbastanza per accorgermi subito di che figlio di puttana fosse il pubblico ministero”.

Rodolfi lo guardò per un attimo con aria di sufficienza. “Ah, già, il nostro contenzioso. Perché non risolverlo da uomini” disse, e alzandosi, prese a rimboccarsi le maniche della camicia.

“Seduto” disse  Zardo, e premette il grilletto. L’intonaco esplose a pochi centimetri dalla testa di Rodolfi che si contrasse incassando la testa nelle spalle. Nell’aria aleggiò per qualche secondo il sibilo rarefatto del silenziatore. 

“Lei è pazzo” urlò Rodolfi.

“So tutto.”

“Cosa?”

“Dell’attentato. Lei era il mandante…”

“E’ fuori strada, Zardo…”

“Lei o la loggia a cui appartiene. Per me non fa differenza, massone del cazzo.”

“Non può provarlo”.

“Assirelli mi ha detto tutto. Di voi, di Ordine Nero, di come gli ordini venivano eseguiti.”

“Immagino che lei abbia una deposizione firmata.”

“Il mio interrogatorio non vale di meno di quello che le hai fatto a Feliciano”.

“Le ricordo che parola di un poliziotto destituito dal servizio per motivi disciplinari non vale uno sputo rispetto a quella di un PM.”

“E a me che me ne importa” disse Zardo caricando la pistola. “Qui ci siamo solo io e lei”.

Rodolfi bofonchiò una risata. “Sa meglio di me che non premerà quel grilletto. Se mi uccidesse, risalirebbero a lei nel giro di qualche ora”.

“Forse sì, forse no. Perché questo schifo, Rodolfi?”

Il PM tacque, poi disse: “Il paese è allo sbando. Era necessario dare un messaggio forte. L’Italia ha bisogno di regole, di valori, altrimenti lo sfascio sarà inevitabile”.

Zardo rise. “La pianti con le stronzate. Avete inchiodato Feliciano perché aveva pubblicato sul giornale i nomi di alcuni membri appartenenti a un gruppo extraparlamentare di estrema destra denominato Ordine nero. Sono stati loro a uccidere Cristina Rovaldi, vero?” Tutta questa sciarada è stata messa in piedi per far sì che quando il paese si troverà ad aver bisogno di regole, troverà la P2 a dettarle”. 

“Dovevamo farlo, gli anarchici hanno messo a ferro e fuoco Bologna solo per la morte di Feliciano. Ci mancava solo che quella troia si mettesse ad accampare la presunta innocenza del suo compagno”. 

“Rodolfi, quell’innocenza non era presunta” urlò Zardo, poi fece scivolare giù i piedi dalla scrivania, si alzò dalla sedia e avanzò di un passo.

Il PM tentò di fare un passo in direzione della porta. Zardo sparò un altro colpo che scheggiò lo stipite. Rodolfi cominciò a respirare affannosamente. Forse la paura, un sentimento che da troppo tempo non provava, era tornata a farsi strada dentro di lui.

“Michelangelo, smettila di combattere contro i mulini a vento. Sei un buon poliziotto. Non sono io quello contro cui lei devi combattere. Noi stiamo dalla stessa parte. Alla loggia abbiamo bisogno di uomini come te. Unisciti a noi, insieme daremo la svolta a questo paese in rovina.”

Zardo puntò la Beretta verso Rodolfi e sparò. Lo specchio alla destra del Pm esplose. Rodolfi urlò, investito da una cascata di schegge.

“Preferisco la rovina”.

Dietro il volto ridotto a una maschera di sangue, gli occhi vitrei di Rodolfi lo fissarono per qualche secondo, poi il PM si scagliò verso di lui, urlando.

Zardo ebbe un attimo di indecisione. Poi chiuse gli occhi e schiacciò il grilletto.

E la notte scivolò via in un lampo.

7

“Diamo l’addio a Gianfranco Rodolfi, un uomo buono, un poliziotto onesto, un eroe che ha perso la vita, nel tentativo di liberare questo paese da una stagione di violenza”.

Alle parole seguì un lieve fischio del microfono. Il sacerdote alzò le mani al cielo mentre i lembi della tunica violastra sventolavano nell’aria pungente del mattino.  Le file di poliziotti in divisa ai lati della bara si portarono la mano alla visiera.

Un applauso scrosciò tra la folla che gremiva il cimitero della Certosa. 

Zardo e Guarnieri si allontanarono lungo un vialetto che fiancheggiava le file di lapidi.

“Non credo siano stai gli anarchici” disse Guarnieri.

Zardo si voltò verso di lui. “A fare che?”

“A uccidere Rodolfi”.

“Nemmeno io” disse Zardo.

“Un lavoro troppo ben fatto”.

“Perché?”

“I miei ragazzi non hanno trovato impronte digitali”.

Uscirono dalla porta del cimitero. Fuori i cipressi si incurvavano sotto le raffiche di vento. Superarono il cordone delle Alfa dai lampeggianti accesi. Imboccarono un vicolo lievemente in salita che costeggiava il lungo muro di cinta del cimitero. Poco lontano, si sentivano sciabordare le acque di un torrente. La campagna bianca dalla neve al limitare della città non era distante e si intravedevano i profili verdi delle serre di un vivaio.

“Perché mi hai chiesto di incontrarci, oggi?” chiese Zardo.

“Per dirti che la settimana prossima processeranno Feliciano. Tu sei stato convocato come testimone”. Una staffilata di vento li investì. Guarnieri alzò la mano e la portò verso la giacca “E c’è una cosa che devo darti”. Zardo vide le sue dita slacciare un paio di bottoni. E allora capì.

Che la polizia doveva chiudere un’altra pista.

Zardo estrasse la Beretta e la puntò contro Guarnieri. Lui rimase per un attimo immobile, guardandolo incredulo, poi le sue dita proseguirono verso la tasca interna. Zardo strinse il calcio della pistola e caricò. Guarnieri tirò fuori la mano. E mostrò a Zardo il tesserino di Polizia. “Hanno chiesto a me di ridartelo”.

Zardo sospirò e una lieve risata gli uscì dalle labbra. Abbassò la pistola e prese il suo tesserino rigirandolo tra le dita.  “Grazie” disse.

“A proposito, alla scientifica si sono accorti che mancavano quelle provette di Penthotal che mi hai obbligato a darti”.

“E tu che cosa hai detto?”

“Che me le aveva chieste Rodolfi” rispose Guarnieri sorridendo, poi alzò la mano in segno di saluto, gli voltò le spalle e ritornò sui suoi passi.

Zardo fece altrettanto, e andò avanti lungo la strada. Dopo qualche metro si sentì chiamare. Zardo si voltò. “Che c’è?”

Guarnieri lo guardava, fermo in mezzo alla strada, a qualche metro da lui. “Comprati un paio di scarpe nuove, commissario”. Zardo si guardò per un attimo i mocassini, senza capire. “Non sta bene appoggiare le scarpe sui tavoli di mogano”.

 Zardo proseguì, fino a raggiungere una panchina davanti a un piccolo ponte sotto il quale passava il fiume. Tirò fuori dalla borsa a tracolla un registratore e schiacciò il tasto di riproduzione. Una voce impastata e bassa fuoriuscì dalle casse:

“… ad ogni menzogna, gli angeli piangono…”

Zardo fermò il nastro e pensò che su quel punto Assirelli aveva ragione. Peccato che doveva cancellare alcune parti di quel nastro prima di presentarlo come prova al processo.

Si sedette e si accese una Nazionale. Guardò la campagna innevata e pensò che lì non si stava poi tanto male. Una donna passò davanti a lui. Spingeva un passeggino dalle ruote scricchiolanti. Il bambino, imbacuccato da sciarpa e berretto lo fissò. Aveva due occhi azzurro profondo, assomigliavano a laghi limpidi di montagna. Uno sguardo carico di innocenza e di fiducia verso il prossimo e il mondo intero.

Zardo li guardò allontanarsi e si chiese se negli anni a venire il mondo avrebbe tradito quello sguardo.

In ogni caso, la fiducia verso il prossimo era una meta che l’umanità era ancora distante da raggiungere.

Spense la sigaretta sotto il tacco della scarpa, gettò il tesserino nel fiume e se ne andò.