Epopea dell’esistenza, ma anche percorso spirituale, La spina dentro l’anima è la raccolta di componimenti poetici che i lettori del professor Davide Monda aspettavano da tempo. Copertina sobria ed elegante, questo libro è viaggio odisseaco in cui ogni metafora, ogni parola, perfino ogni sospensione, promette significati più reconditi: così il lettore del componimento d’avvio è liberale, nel senso proprio del termine, ma anche in un’accezione più dilatata che proietta l’aggettivo alla sua etimo. In primo piano, il lessema con la sua forza prorompente, mentre sullo sfondo se ne dipana l’eco evocativa. Alcuni versi hanno una potenza quasi proverbiale, dopo una prima lettura potrebbero essere assolutizzati in brevi massime: Certe ferite ti mangiano lente (Rapsodia bruciacchiata) o anche tutto seduce e nulla dà alimento (Vecchio sogno montano)

Come nell’epica, risuonano emozioni di luce e di ombra, in primis speranza e disperazione, che ingentiliscono o deformano uomini alle prese con tenzoni millenarie: guerra spirituale, decadenza e, naturalmente, morte. Una morte che è disfacimento immateriale, devastazione, annichilimento. Ma è capace di riabilitarsi attraverso una sorta di resurrezione, quel risorgere nei grandi valori dell’uomo che non abbracciano un dogma solo ma convergono in afflato universale, illusioni di foscoliana memoria, catechesi cosmopolita a misura di animi che non solo contemplano il cielo, ma sanno che non sempre vi troveranno una notte stellata. Tutti i saperi e le religioni convergono, aveva esordito il professor Davide Monda, in una delle lezioni accademiche cui ho avuto la fortuna di partecipare, e non credo che vi sia contesto più adatto di questo per riproporre la sua pregnante frase. Come lo zoom di una telecamera, la visuale si concentra sul particolare per dilatarsi all’umanità tota e alle sfere superiori.

Stagliata sullo sfondo, emerge la consapevolezza che sapere non significa solo evoluzione, comunione cosmica, ma implica un livello più alto di sofferenza. Ne scaturisce una terribile lucidità, la serafica cognizione della tragedia umana. Lo smarrimento che ne deriva è di sapore kierkegaardiano: è  angoscia,  elemento costitutivo di ogni individuo, ma è anche disperazione.

Se per Kierkegaard la disperazione era “malattia mortale” per l’uomo, per Davide Monda è malattia grave e perniciosa, non ineluttabilmente letale. E’ innegabile il dubbio atroce che l’anelito al Sapere sia inghiottito nel nulla dell’oblio e dell’ignoranza:

Ma tanti sforzi, fermenti, conflitti

Saranno intesi dal mondo che viene,

confinato in ambigui, acri silenzi?

Eppure si confida in una iustitia divina, degli dei tutti, in questa terra che lascia senza miraggi, in cui chi riceve premi e onoreficenze si è tinto sovente di vergognosi demeriti. Davide Monda si rivela ancora una volta il pensatore indefesso che già conosciamo dai suoi precedenti testi: un pensatore che s'interroga, studioso dell'antico, del moderno, attento osservatore dell'attuale, che si domanda consapevole che l'unica risposta esaustiva è una ricerca continua, accompagnata da un costante anelito verso l'assoluto.