Giorgio Scerbanenco, italianizzazione di Vladimir Šerbanenko, nato da madre italiana e padre ucraino a Kiev il 28 luglio 1911 e morto a Milano il 27 ottobre 1969, è stato uno scrittore e giornalista italiano di origine sovietica.

Autore di letteratura noir di insuperato livello, nel 1969 scrive quella che forse è la sua migliore raccolta di racconti criminali, tutti ambientati nell’Italia delle bettole, dei baretti, delle periferie e della piccola malavita, Milano calibro 9, ripubblicata dall’editore Garzanti nel 2000.

Il linguaggio eccellente, il ritmo, la tecnica narrativa e i personaggi a tutto tondo rendono Milano calibro 9 un’opera certamente interessante, forse la migliore dell’intera produzione scerbanenchiana.

È inoltre storicamente rilevante il suo effetto su un certo tipo di cinema popolare italiano in voga tra gli anni ‘70 e i primi anni ‘80 del novecento che predilige l’azione e la violenza.

Questo genere ha preso il nome di “poliziottesco” ed è ambientato nelle nostre metropoli.

Come si vedrà nelle righe sottostanti infatti, il racconto Milano calibro 9 è alla base del soggetto del il film La mala ordina di Fernando Di Leo, mentre per il film Milano calibro 9, sempre dello stesso regista, la troupe ha preso spunto da altri racconti di questa raccolta come ad esempio Stazione centrale ammazzare subito.

 

Milano calibro 9

Regia: Fernando Di Leo

Fotografia: Franco Villa

Musiche: Luis Enriquez Bacalov

Montaggio: Amedeo Giomini

Cast: Gastone Moschin, Barbara Bouchet, Mario Adorf, Philippe Leroy, Lionel Stander

Anno d’uscita: 1972

Milano Calibro 9, film girato nel 1971 e uscito l’anno successivo, è il primo capitolo della celebre Trilogia del Milieu, continuata da La mala ordina e conclusa da Il boss, nel corso della quale Fernando di Leo esplora i vari aspetti del mondo della criminalità organizzata.

Il titolo del film è tratto da quello di un racconto di Giorgio Scerbanenco e sempre dallo scrittore russo derivano alcuni spunti di sceneggiatura, per esempio il pacco bomba alla stazione, derivato dal racconto Stazione centrale ammazzare subito.

Al di là degli spunti però, si può dire che Di Leo abbia costruito il proprio film in assoluta autonomia utilizzando la categoria del noir per un personale discorso sociologico e antropologico, oltre che filosofico, sull’universo delinquenziale.

La riuscita perfetta di Milano calibro 9 passa anche attraverso l’uso accorto degli attori, in particolare Gastone Moschin, che per la prima volta nella sua carriera si cimenta in un ruolo drammatico, Barbara Bouchet, nella cui bellezza il regista trovò riflessi di ferocia adatti al personaggio, Mario Adorf, artefice di una caratterizzazione memorabile nella parte del violento e sardonico Rocco Musco e Lionel Stander che inaugura la tradizione dei grandi interpreti hollywoodiani adottati da Di Leo nei propri noir.

Ma vera protagonista del film è la città, Milano, che si affranca da una pura funzione di sfondo alla vicenda narrata diventando un centro nevralgico di lotte intestine tra la malavita e un ganglio di interessi economici sporchi.

Milano calibro 9, come si è precedentemente detto, girato sul finire del 1971, è il primo capitolo ideale di una trilogia che si andrà completando nei due anni successivi con La mala ordina e Il boss, nell’arco della quale Di Leo traccerà le coordinate di un nuovo universo del crimine quale si era andato affermando in Italia e soprattutto nelle grandi metropoli del nord in quegli anni. Una visione diretta, secca, priva di orpelli ma straordinariamente acuta e con esiti lirici nella sua capacità di afferrare l’essenza antropologica degli individui, distinguendone i tipi e sottolineandone le psicologie, con un occhio sempre fisso alla società che produce i “delinquenti”.

I noir dileiaini diventano così una chiave interpretativa del reale, delle sue contraddizioni, e dell’irriducibilità dialettica tra apparenza e destino.

Milano calibro 9, originariamente pensato con il titolo Da lunedì a lunedì, uscì nei cinema in una forma lievemente diversa da quella in cui è poi circolato nei supporti home-video, con la sovraimpressione di giorni e ore a scandire le varie fasi della storia e a dare il senso del procedere inesorabile del tempo.

Grande pregnanza al tutto offre infine la colonna sonora, composta da Luis Bacalov ed eseguita dal gruppo degli Osanna, che commenta magnificamente l’alternarsi di crudeltà e lirismo alla base di quello che giustamente si considera il capolavoro di Fernando di Leo.

La mala ordina

Regia: Fernando Di Leo

Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Augusto Finocchi, Ingo Hermess

Fotografia: Franco Villa

Musiche: Armando Trovajoli

Montaggio: Amedeo Giomini

Cast: Mario Adorf, Adolfo Celi, Henry Silva, Woody Strode

Anno d’uscita: 1972

Concepito inizialmente con il titolo “Ordini dall’altro mondo”, La mala ordina rappresenta il secondo capitolo della Trilogia del Milieu diretta da Fernando Di Leo all’inizio degli anni Settanta.

Il rapporto del film con i racconti di Giorgio Scerbanenco è, in questo caso, più chiaro che in Milano calibro 9.

Anzi, proprio dal racconto Milano calibro 9, che aveva dato il titolo al precedente film, Di Leo trae spunto per la situazione di base del plot, in cui un piccolo “pappone” milanese, Luca Canali, finisce, senza colpa, nella ragnatela di un regolamento di conti tra i pezzi grossi dell’Organizzazione e si vede costretto a lottare contro due killer newyorchesi spediti in Italia per liquidarlo.

Per il ruolo del protagonista si era pensato in un primo momento a Mario Petri, che era stato attivo nel genere peplum e si era quindi dedicato al canto lirico, ma la scelta finale cadde su Mario Adorf, che già in Milano calibro 9 si era distinto nella caratterizzazione di un gangster smargiasso e sanguigno.

Il personaggio di Luca Canali recupera aspetti del precedente Rocco Musco, a livello formale, ma la caratterizzazione del personaggio da parte di Adorf in questo film si fa più complessa ed è perfetta la progressione con cui Di Leo lo fa evolvere da vittima sbigottita degli eventi a spietato giustiziere mosso dal motore della disperazione.

La mala ordina segna, inoltre, l’ingresso nella compagine dileiana di due attori che torneranno spesso nei successivi film del regista: Henry Silva e Woody Stroode, perfetti come coppia di killer agli ordini del potentissimo Mr. Corso.

L’egida produttiva del film è sempre quella della Daunia, associata per l’occasione alla tedesca Hermes Synchron (e il coproduttore Ingo Hermes appare accreditato in sceneggiatura, per ragioni esclusivamente burocratiche, pur non avendo, in realtà, scritto nulla).

Anche il cast tecnico è il medesimo di Milano calibro 9, mentre tra gli attori del film precedente Di Leo riconvoca Mario Adorf, cucendogli addosso il ruolo del protagonista, un piccolo “pappone” milanese che si trova invischiato suo malgrado in un regolamento di conti mafioso a causa di una partita di droga trafugata.

Oltre ai tempi e ai ritmi narrativi perfetti, le scene d’azione sono tra le migliori che Di Leo abbia mai girato: in particolare il lunghissimo e disperato inseguimento di Adorf dell’assassino di sua moglie e di sua figlia, e oltre all’accuratezza nel definire psicologicamente le varie tipologie dell’universo delinquenziale, dai boss ai picciotti, “La mala ordina” colpisce per la precisione e la straordinaria resa degli interpreti principali: Mario Adorf, innocuo “pappone” capace di trasformarsi in una belva, gli americani Henry Silva e Woody Stroode, inedita e ben assortita coppia di spietati killer, e Adolfo Celi, nello stesso tempo spregevole opportunista e uomo d’onore.